Rivista Anarchica Online
I referendum e noi
di Paolo Finzi
Sono passati sette anni da quel 12 maggio del '74, quando per la prima volta si votò per un
referendum abrogativo. Allora era in ballo la legge Fortuna-Baslini, da poco approvata dal
parlamento, che aveva introdotto il divorzio (regolamentandolo ben bene) nella legislazione
italiana. Era quello il primo referendum abrogativo, ché già un altro referendum si era
svolto nel
'46. All'indomani della "liberazione", infatti, i cittadini erano stati chiamati alle urne per scegliere
la forma istituzionale che d'allora in poi avrebbe avuto lo stato italiano: monarchia o repubblica.
In quell'occasione, a parte qualche eccezione individuale (Mario Mantovani, per esempio), gli
anarchici si schierarono compatti per l'astensione, sottolineando che ben altre erano le questioni
sulle quali i lavoratori dovevano centrare la loro attenzione e ben altri i metodi efficaci per
affrontarle che non le urne. In vista del referendum sul divorzio, invece, si accese nel movimento anarchico un
vivace
dibattito tra favorevoli e contrari alla partecipazione alle urne. Delle tre federazioni allora
esistenti, i Gruppi Anarchici Federati ed i Gruppi d'Iniziativa Anarchica si espressero per
l'astensione, mentre il consiglio nazionale della Federazione Anarchica Italiana non riuscì ad
esprimere una posizione precisa, dato l'acceso contrasto al suo interno tra referendumisti e
astensionisti. Dalle pagine di "A" esprimemmo in più articoli le ragioni della nostra scelta
astensionista ed oggi, a distanza di sette anni (e di altri referendum), la riconfermiamo con piena
convinzione. I sostenitori in campo libertario della partecipazione ai referendum sottolineano la differenza,
secondo loro essenziale, che li separa dalle consuete tornate elettorali politiche e amministrative:
in questo caso, infatti, non si tratta di eleggere persone e partiti quali propri rappresentanti, bensì
semplicemente di esprimere un'opinione su di una legge. Verrebbe così a cadere la ragione di
fondo del "tradizionale" astensionismo anarchico, sempre valido per le elezioni normali ma non
più in occasione dei referendum. Che vi sia questa differenza formale e per certi aspetti sostanziale tra
elezioni politico-amministrative e referendum è un dato di fatto. A nostro avviso, però, si tratta di
una differenza
tutt'altro che significativa, se inserita nel più generale contesto politico ed istituzionale. Noi
riteniamo infatti che l'intera operazione referendum - lo scrivevamo già nel '74 - al di
là dello
stesso risultato della consultazione elettorale, non può che servire a rinforzare la credibilità
dello stato e delle "istituzioni democratiche". È giusto tener presenti i caratteri particolari di
questo tipo di consultazione rispetto alle solite elezioni politico-amministrative, ma la sostanza
non cambia: attraverso lo strumento del referendum popolare si vuole innanzitutto dimostrare ai
cittadini che sono essi stessi a decidere, esprimendo direttamente la loro opinione. In effetti,
in
questi anni tutta la mobilitazione sviluppatasi intorno ai referendum non è servita ad altro che a
canalizzare nel sistema politico-legislativo quelle "domande" provenienti dalla società che
altrimenti si sarebbero espresse in modo diverso, forse più tumultuoso, certo extra-istituzionale.
Non è un caso, dunque, che la scelta referendaria sia stata quella strategica per il partito radicale:
una formazione che si è posta come ruolo storico quello di portare e di risolvere nelle
istituzioni
democratiche quelle tensioni e quelle battaglie che gli altri schieramenti politici non riescono a
far proprie. Il nostro obiettivo è, sotto questo profilo, l'esatto opposto. Noi lottiamo perché quelle
tensioni e
quelle battaglie si mantengano il più possibile su un terreno extra-istituzionale e maturino a
consapevolezza libertaria ed egualitaria, a volontà rivoluzionaria. È una continua lotta, la nostra,
perché vengano battute o comunque trovino sempre meno spazio le posizioni ibride, le tentazioni
riformistiche, le strategie di integrazione nel sistema. In questa prospettiva, i mezzi che possiamo
usare sono quelli coerenti con questi fini, e solo quelli. Quei mezzi che accrescano la fiducia
degli sfruttati nella loro capacità di autogestire la lotta oggi e la vita domani, ed al contempo la
sfiducia degli sfruttati nello stato e nelle istituzioni: quei mezzi che nella terminologia libertaria
sono definiti come "azione diretta". La distinzione tra i rivoluzionari ed i riformisti ed ancor più
tra gli autoritari e gli antiautoritari (non quelli alla Pannella, intendiamoci) passa innanzitutto
attraverso il rifiuto dei mezzi d'azione istituzionale, non attraverso la banale e mistificante
questione del "tutto o niente". Tutte chiacchiere, ci siamo già sentiti obiettare: gli anarchici dovrebbero
sempre esser schierati
dalla parte del progresso, della libertà, per la difesa di quegli spazi che poi comunque utilizzano.
Né possiamo chiudere gli occhi di fronte alla tragedia che per milioni di donne rappresenterebbe
l'abrogazione di fatto dell'aborto in caso di vittoria del referendum clericale del Movimento per la
vita. Né possiamo rinunciare a votare, quando così potremmo contribuire ad abrogare l'ergastolo,
ecc. ecc.. Tutte chiacchiere un corno, vien da rispondere subito: innanzitutto non va scordato che
in ogni caso il referendum non può che essere abrogativo, cioè creare un "vuoto" legislativo che
il parlamento è chiamato a riempire secondo gli equilibri politici del momento. E non si
dimentichi quanto accadde con il tanto strombazzato referendum abrogativo della legge Reale,
che venne comunque sostituita dalla Reale bis, peggiore della precedente (e poco conta che il
referendum non fosse passato, la Reale bis era pronta in ogni caso). Ciò che è essenziale
riaffermare è che anche per quanto concerne le tematiche interessate dai referendum altri
devono
essere i mezzi da noi impiegati, perché altro è il nostro fine. E anche se i referendum
non fossero
solo abrogativi, ma anche costitutivi di nuove leggi - come accade normalmente in
Svizzera -
non muteremmo la nostra scelta astensionista. Non perché a noi anarchici non interessi niente
delle leggi (come tutti i sudditi dello stato ne siamo forzatamente interessati), ma perché
riteniamo che nostro compito sia quello di fare i rivoluzionari lasciando ad altri quello di fare
i
riformisti. Sono due compiti distinti, due modi opposti di recepire le tensioni sociali e di porsi di
fronte alle contraddizioni del sistema statale. In ogni caso sappiamo per esperienza che, anche
nell'ambito legislativo, le "conquiste" che restano sono quelle per le quali la gente è pronta a
lottare di nuovo, qualora vengano intaccate o abrogate. Alla breve o alla lunga, la delega non
paga. Astenersi dalle urne - per i referendum esattamente come per le elezioni politiche e
amministrative - non è dunque segno di "menefreghismo", di asocialità né di astratto
purismo. È
anzi una scelta in positivo, costruttiva, coerente con il fine ed i mezzi che ci proponiamo:
rifiutando qualsiasi delega al potere e alle sue istituzioni, sia essa delega diretta (elezioni) o
indiretta (referendum), non facciamo che confermare ancora una volta la nostra estraneità da quel
cerimoniale istituzionale attraverso il quale passa e si formalizza il consenso popolare allo stato.
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