Rivista Anarchica Online
A è... - a proposito del decennale della rivista
di Gabriele R.
Troppa grazia santantonio! Leggendo l'articolo di Nico Berti ("A" 89) sul decennale della rivista
non ho potuto che fare questa esclamazione. Troppo logico, tutto così ben concatenato,
soprattutto così coerente. Non ho potuto fare a meno di chiedermi cosa è stata per me, redattore
di "A" da cinque anni, la rivista. Quali sono stati i suoi pregi e i suoi difetti, ma soprattutto quale
è stata la sua funzione nel movimento. Da qui, il passare a chiedermi non quale è stata, ma quale
deve essere la sua funzione nel movimento è stato un passo molto breve. Innanzitutto cos'era che non
approvavo nell'articolo? Il tono elogiativo o l'analisi? Dato che
lascio volentieri le autoflagellazioni e le autocritiche distruttive a chi ama poi sentirsi dire: "Dai,
in fondo non sei così cattivo come ti descrivi", è chiaro che era l'analisi di questi dieci anni di
"A" che mi lasciava perplesso. Tralascio il primo periodo che io non ho conosciuto direttamente
essendo entrato nel collettivo redazionale proprio in coincidenza con l'inizio della "svolta", come
dice Nico, caratterizzata dall'apertura "alla domanda di libertarismo spontaneo che stava
crescendo nei nuovi soggetti sociali". Mi interessa rianalizzare, invece, il secondo periodo. Quando il collettivo
redazionale decise di aprire a quell'area eterogenea che gravitava attorno
all'idea anarchica senza però farne parte effettiva e militante, il primo problema che si pose fu
quello del come porsi rispetto a quest'area. Da una parte senza peccare di incoerenza rispetto
all'ideale anarchico in cui ci si riconosceva (utilizzando per esempio terminologie, linguaggi, e
metodi tipici di quest'area, cioè camuffandosi da quello che non si era) e dall'altra rischiare di
essere missionari tra i pagani con il compito santo e carismatico di indottrinarli servendo loro
risposte precotte e già confezionate. Aprire all'area diciamo così "libertaria" significava per noi
intervenire in quelle tematiche tipiche di quest'area che però sentivamo al tempo stesso nostre.
Anche se, vuoi per un concetto monacale della militanza o per una forma di schizofrenia del
rivoluzionario, considerate di second'ordine rispetto ai problemi più impellenti dell'analisi del
sociale e della rivoluzione da perseguire, e quindi quasi mai prese in esame dalla pubblicistica
anarchica. Temi come la lotta per l'ambiente, la riappropriazione del nostro corpo e del territorio
in cui viviamo, i rapporti interpersonali, la sessualità, la cultura artistica, la creatività, ma
soprattutto la comunicazione della rivolta entrarono a far parte del bagaglio di articoli con cui di
mese in mese la rivista cercava di stimolare un dibattito, se non addirittura delle iniziative
all'interno del movimento. Dall'altro lato si tentava di portare le analisi sociali e politiche, le
proposte, storiche o attuali, fatte dagli anarchici per un intervento rivoluzionario all'esterno del
movimento. Infatti, come primo passo in questa direzione la rivista, accettò di partecipare
all'organizzazione del Festival del proletariato giovanile di Re Nudo che anche quell'anno (1976)
si teneva al parco Lambro a Milano e che poi si rivelò come l'inizio della disgregazione del
"movimento", come si usava chiamarlo allora, che avrebbe portato i suoi componenti su strade
tanto diverse. Questa apertura, che nelle intenzioni era partita con il piede giusto si è poi rivelata,
secondo me,
contrariamente a quanto dice Nico, una scelta complessa, soprattutto interpretata in modo diverso
dai componenti della redazione stessa. Soprattutto non si sono fatti i conti con un elemento
essenziale: il fatto che quasi tutti noi non facevamo parte di quest'area (per di più tanto
eterogenea), non ne usavamo il linguaggio, non ne vivevamo direttamente la maggior parte dei
problemi che la caratterizzavano. Inoltre il non voler rischiare, giustamente, strani connubi
ideologici in nome di un'apertura (a scapito della coerenza di idee e ideali) ha comportato una
posizione di analisi quasi sempre critica nei confronti di quest'area e delle sue tematiche....
Questo si rispecchiava, per esempio, nel linguaggio degli articoli, bloccando così quel ruolo di
tramite tra area libertaria e movimento anarchico vero e proprio che la rivista si era posta come
scopo. Inoltre la non conoscenza diretta di quest'area ci ha posto spesso contro la nostra volontà,
nel ruolo di redattori e non di compagni o, se vogliamo usare un termine spregiativo, di
giornalisti e non di testimoni. Ruolo evidenziato in parte dalla lettera di Franco Melandri
sull'ultimo numero di "A": che noi della rivista eravamo visti come dei compagni specializzati
anziché dei semplici compagni. Di questo ce ne accorgevamo soprattutto nelle semestrali
assemblee con i lettori. Questo ruolo di tecnici ha in parte fregato anche noi, dato che non
essendo noi affatto dei "tecnici" (nel senso di giornalisti, specializzati o meno) ci siamo spesso
sentiti in dovere di affidare il compito di trattare argomenti e temi specifici ad altri "tecnici", che
conoscevano l'argomento. Qui il discorso diventa spinoso in quanto oggetto tuttora di polemiche
spesso speciose e ormai utili a tutti gli usi. L'aprire all'area libertaria cosa voleva dire? Dar voce
solamente alle masse giovanili, urbane e non? Far parlare i "quasi-anarchici"? O aprire le pagine
ad un dibattito che comprendesse anche voci che anarchiche non erano, ma che erano interessate
alle tematiche anarchiche da punti di vista diversi, ma perlomeno non inficiati di dottrinarismo
marxista o di autoritarismo travestito da paternalismo? Secondo me l'intenzione era buona: del
resto anche il buon Malatesta, persona con tanto buonsenso in zucca, non disdegnava di
partecipare a dibattiti con persone che sapeva non anarchiche. L'eresia è consistita nel fatto che
fosse una pubblicazione anarchica e non viceversa ad accettare questo dibattito e questi
interventi? Forse ci si dimentica di due cose: primo che una pubblicazione anarchica nasce e
può
vivere all'interno del movimento solo se manifesta la sua intenzione di non essere un organo
dottrinale, portavoce di questa o quella linea; e secondo che è molto più facile che sia
un
intervento di un anarchico pubblicato dalla stampa di regime ad essere utilizzato in modo distorto
per la riscossione del consenso. Forse qualcuno teme che i compagni siano così stupidi da
credere che un articolo non anarchico su una pubblicazione anarchica ne macchi indelebilmente
il pedigree? Per di più, su quest'ultimo punto, ci sarebbe molto da dire, dato che da questo punto
di vista di preservazione farisaica della purezza dell'ideale ognuno ha i suoi bravi scheletri da
tenere ben chiusi nell'armadio. Secondo me, quindi, l'errore non fu di aprire le pagine ad interventi non anarchici,
ma fu il modo
di aprire queste pagine. Ho già detto che il ruolo involontario di analizzatori di una realtà che
riconoscevamo libertaria, ma che in linea di massima era estranea alla nostra, ci ha spinto a
cercare collaboratori che conoscessero questa realtà. Proprio questa ricerca ha fatto emergere
all'interno della redazione una differenza che non ritengo sostanziale, ma che ha influito molto
sull'aspetto stesso della rivista e sulla coerenza della sua azione, coerenza che invece Nico Berti
vede cristallina e fluente. Facendo una divisione, da prendere con le pinze, si può dire che parte
della redazione ha voluto privilegiare come interlocutore e come collaboratore quella massa
eterogenea di giovani (proletari e non) che usciva disorientata o delusa dall'esperienza,
ridicolmente portata a livello di strategia, della riappropriazione del privato secondo il ben noto e
tristo slogan "il privato è politico". Massa che inoltre si portava dietro una tradizione negativa di
semplicismo, inteso come massificazione dell'analisi sviluppata per slogan e parole d'ordine,
facili da digerire per cervelli refrattari allo sforzo di un'analisi più approfondita della realtà di
sfruttamento. Dall'altro lato, una parte della redazione ha voluto privilegiare quel gruppo di studiosi, di
intellettuali, di analizzatori non assillati da problemi duramente esistenziali come per i "giovani
proletari", ma portati a contribuire con le loro analisi e la loro preparazione all'approfondimento
del dibattito su temi molto più complessi, ma non per questo meno importanti. Ciò, però,
ha
portato con sé tutti i difetti che quest'area ha: la difficoltà del linguaggio, la farraginosità
delle
analisi, la meticolosità del ricercatore che passa quasi sempre come l'arte di rendere complicate le
cose facili, il tutto, a parte l'opportunità o meno di certe collaborazioni, non ha potuto non dare,
da un punto di vista superficiale, quell'aspetto di bla bla distaccato dalla realtà molto più
drammaticamente concreta della lotta quotidiana. In questo non sono d'accordo con Nico Berti
quando dice che fu una scelta felice e giustissima perché ha permesso di fare "una vera opera di
mediazione teorico-culturale tra le varie voci del movimento". Anche se non sono nemmeno
d'accordo con chi confonde semplicità di analisi con elementarietà del linguaggio, questa è
una
cosa che lascerei dire ai vari Enzo Biagi, ma non amo assolutamente il linguaggio da iniziati di
certi "specialisti" che si cerca di giustificare con la difficoltà del tema trattato. Questa divergenza di
scelte all'interno di quest'area-interlocutore ha pur sempre avuto come base
comune l'intento di contribuire all'emancipazione e a una maggior comprensione della realtà per
trasformare la lotta da ribellista in rivoluzionaria. Ma ha spinto, secondo me, la rivista verso
un'immagine che io ritengo sbagliata ma che non si può non registrare tra i compagni "portatrice"
di opinione e non di "stimolatrice" di opinione (differenza fondamentalmente sostanziale) in
parte per l'atteggiamento, come vedremo, delegante del movimento, in parte per questo aspetto
intellettualistico di certi suoi articoli e delle tematiche che trattavano, lasciando perdere il
linguaggio problema fin troppo evidente. Tutto ciò ha comportato, e secondo me la lettera di
Franco Melandri è un buon termometro, un distacco dell'immagine e non della rivista stessa,
dalla realtà del movimento. Ma parliamo ora proprio di questo benedetto movimento. La prima
sensazione per me che vivo la realtà redazionale della rivista e come anarchico è,
riguardo al problema della pubblicistica anarchica, una sensazione, molto sgradevole, cioè una
sensazione di delega. Perché, se da una parte è vero che certe scelte redazionali hanno potuto
dare un'immagine della rivista come di una rivista fatta da specialisti e da "tecnici", dall'altra è
stato il movimento stesso, e questa e un'accusa precisa, che ha creato questo ruolo preferendo
delegare ai compagni che si occupano di pubblicistica il problema della diffusione e del dibattito
delle e sulle idee anarchiche. Non posso accettare l'affermazione fatta di solito da chi non ha altro
da dire che non sa scrivere, o che discutere è inutile bisogna agire, o che le tematiche trattate
sono trattabili solo da chi ha profondamente studiato il problema. Non accetto quest'affermazione
proprio perché (al di là del linguaggio che in sostanza è la forma e non il contenuto) un
anarchico
ha il "dovere" di intervenire sulla stampa anarchica se stimolato da una o svariate tematiche,
fossero anche, se lo ritiene importante, quelle che riguardano il colore delle mutande quando si
va ad una manifestazione. Il porsi nel ruolo di scrivente, e non in quello di contribuente o
stimolante un dibattito, che assumono tanti compagni quando scrivono articoli, è secondo me uno
dei sintomi di questa visione distorta della funzione della stampa anarchica. Visione che non può
che portare alla trasformazione di uno strumento di diffusione dell'idea anarchica, quale deve
essere una rivista che si dice tale, in un mass-media in formato ridotto, cioè in una rivista che dà
una opinione piuttosto che stimolarla. Trasformazione che soverchia la buona fede e la buona
volontà di chi ha scelto di lavorarci in modo militante. È il movimento stesso che deve
intervenire per mutare questa trasformazione. È il movimento
che deve utilizzare questo strumento che l'impegno di alcuni compagni gli mette a disposizione.
Certo è più facile dire: "non mi riconosco in questa o in quella pubblicazione" che contribuire al
dibattito che essa propone. Così come è facile dire: "Non so usare il linguaggio scritto" che
ammettere che spesso e volentieri si è rinunciato ad approfondire certi temi che pure stanno a
cuore. E qui entriamo nel cuore del problema: una delle principali accuse (o meglio,
osservazioni) che vengono rivolte alla rivista è quella di parlare in astratto, di perdersi in un mare
di parole sganciandosi così dai problemi reali della lotta sociale, dalle tematiche conseguenti
come detto. Ora, a parte che è tutto da dimostrare il binomio, dato invece per scontato da tanti
compagni, "difficoltà del tema-scarsa incisività di lotta", non si può dimenticare, se non con
un'affermazione farisaica, che è chi fa la lotta che deve utilizzare lo strumento rivista se gli
interessa che questa lotta venga a conoscenza dei compagni e non. I compagni del collettivo
redazionale rischiano altrimenti, per un ruolo che gli è stato delegato e non voluto, di fare i
reporter e raccontare cosa sanno o hanno visto della lotta e del lavoro rivoluzionario fatto da altri.
Questa secondo me è una situazione sintomatica di quello che sta avvenendo nel movimento: in
realtà le iniziative pratiche e reali di lotta sono ormai ben poche. E non credo assolutamente
come credono alcuni compagni che ciò sia dovuto all'aumentata repressione da parte dello stato
che ha chiuso tutti i canali ancora aperti dove ci si poteva muovere in senso rivoluzionario. Cioè
non credo che ci sia rimasta come alternativa lo scontro diretto e frontale con lo stato. Certo
quest'aria tira nel movimento ultimamente e allora sembra ad alcuni che occuparsi di carceri e
compagni prigionieri sia rimasta l'ultima cosa da fare. Così come del resto credo che il
movimento anarchico deve essere un movimento sovversivo in quanto rivoluzionario, ma non
dimentichiamoci che la sovversione, lo stimolo all'emancipazione e alla rivolta si fa soprattutto
con altre armi che non quelle con il colpo in canna. In questo senso non posso accettare chi
accusa la rivista di distacco dalla realtà rivoluzionaria perché si occupa anche di altri argomenti
che non siano la lotta armata, l'insurrezionalismo, il carcerario ecc.. La mia critica alla rivista non
può non essere espressa che in altri termini, secondo me ben più costruttivi, proprio in funzione
di una sua futura funzione come strumento a disposizione del movimento. Solo affrontando tematiche legate ad
un possibile sviluppo concreto delle analisi sociali e
rivoluzionarie fatte in questi anni, cioè ad una loro applicazione il più possibile immediata, la
rivista potrà continuare ad essere uno strumento valido per e nel movimento. Ma l'affrontare
queste tematiche non potrà essere frutto dell'intervento di "tecnici" vari che offrano manuali del
come si fa, ma il frutto di un dibattito dal e per il movimento, arricchito dal racconto di chi
queste esperienze ha già tentato o le sta tentando: in funzione di un progetto anarchico di cui si
sono andati via via sbiadendo i contorni con il passare degli anni. Progetto ancora tutto da
discutere, da riapplicare alla realtà, da costruire. Questo ruolo propositivo in termini immediati o a lunga
scadenza cadrebbe però di nuovo nel
rischio dell'esercitazione intellettualistica se non fosse confortato da un modo nuovo da parte del
movimento di intendere la militanza come applicazione pratica e quotidiana delle proprie idee.
Forse vedremo allora chi veramente si nutre di parole e fumo negli occhi e chi crede all'ideale
anarchico soprattutto come ad un'utopia realizzabile e da realizzare il più possibile
nell'immediato e direttamente. È probabile che ci si ritrovi in un po' di meno di quanti ora amano
firmare cartoline con le "A" cerchiate, ma comunque potremo dire di non aver sprecato fiato e
fatica per niente. Il che, credetemi, è già un grossissimo passo avanti.
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