Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 97
dicembre 1981 - gennaio 1982


Rivista Anarchica Online

Oltre la fabbrica
di Luciano Lanza

Tutti in piedi ad applaudire mentre gli altoparlanti scandiscono le note dell'Internazionale. Luciano Lama ha ancora una volta dominato il congresso della CGIL. Il decimo. Lo scontro, preannunciato e temuto dai commentatori politici, non c'è stato. Tutti, o quasi, d'accordo sull'impegno della maggiore centrale sindacale nel contenere il costo del lavoro e a lottare contro l'inflazione.
Il "clima unitario" si è incrinato solo sulle questioni politiche, quali la richiesta della non-istallazione della base missilistica di Comiso, la mozione contraria alle truppe italiane nel Sinai e la riduzione delle spese militari. Queste mozioni, approvate solo con leggere maggioranze, hanno comunque avuto maggiore fortuna di quelle più scopertamente "filosovietiche": opposizione ai soli missili americani e silenzio sulla questione polacca. Però, anche se respinte, queste ultime sono rivelatrici di un persistente stalinismo ideologico che i paladini del pragmatismo riformista tendono troppo spesso a sottovalutare.
Comunque, sulla strategia economica i vertici della CGIL sono sostanzialmente d'accordo e anche la corrente di sinistra (Lettieri e Giovannini) si è differenziata più che altro per mantenere la sua identità. In effetti l'unica strategia possibile per il sindacato non poteva che essere quella di collocarsi all'interno degli spazi indicati dal governo. La relazione di Lama ha dunque innestato sulle linee programmatiche governative delle proposte di attuazione: come raggiungere gli obiettivi del governo senza far pesare troppo sulla classe lavoratrice il costo del risanamento dell'economia. E infatti le critiche mosse a Lama sono critiche di tipo tecnico: il buco della finanza pubblica si amplierebbe di quattromila miliardi. Gli obiettivi sono gli stessi e la differenziazione dei ruoli tra sindacati, governo e Confindustria si manifesta quasi esclusivamente nelle scelte tecniche per il conseguimento di quegli obiettivi. Che poi i mezzi tecnici rispecchino anche scelte politiche è un dato troppo scontato perché ci si dilunghi più di tanto. Quello che mi pare invece significativo è questa sostanziale uniformità di intenti tra parti che nominalmente dovrebbero essere controparti. Ma ormai anche i più disattenti si sono accorti delle modifiche strutturali intervenute nei sindacati e la cosa non scandalizza più nessuno. Il processo di istituzionalizzazione dei sindacati si è vertiginosamente accelerato in questi ultimi anni grazie al persistere e all'accentuarsi della crisi economica. La mancanza di margini delle trattative ha soffiato via anche quel po' di polvere sessantottesca che si era sedimentata negli interstizi, nelle nicchie della grande macchina sindacale.
"Bisogna salvare la barca" è la parola d'ordine ripetuta con sempre maggiore insistenza e perentorietà dai dirigenti siano essi sindacali o padronali. E dunque si salvi la barca, con proposte ragionevoli, accorte, ponderate. Che poi tutte le proposte non approdino a nulla e che l'inflazione galoppi sempre più, è un altro discorso. Che il disavanzo del settore pubblico allargato sia in espansione da anni nonostante i tentativi, i proclami, le politiche di contenimento, anche questo è un altro discorso. E così nonostante i programmi di austerità il disavanzo del settore pubblico allargato è passato dai 18.700 miliardi nel 1976 agli auspicati 50.000 miliardi nel 1982. Di fronte all'inconcludenza della politica economica governativa, diventa perfino noiosa la critica. Come si può criticare con un minimo di verve cose e fatti che meritano sempre lo stesso tipo di critica, visto che non cambiano mai?
In una situazione così anomala e per tanti versi grottesca, appaiono risibili anche le proposte neo-liberali che vorrebbero "risanare" la situazione con il tanto deprecato "guadagnare meno, produrre di più". Anche volendo accettare, in via ipotetica, questo discorso, come risolvere il nodo delle imprese pubbliche che più producono, più vanno in rosso? I problemi non potrebbero risolverli nemmeno i neo-liberali, a meno di non voler sovvertire completamente la struttura economica italiana, ma credo che nessuno si ponga questo problema.
Così, mentre la famosa barca, che tutti vorrebbero salvare, fa sempre più acqua, si accentua la disaffezione della maggioranza verso i temi di politica generale e ognuno - ogni categoria - cerca di salvarsi infischiandosene degli altri, si manifesta cioè quella che alcuni hanno definito "disaffezione politica". Triste segno dei nostri tempi.

Una disaffezione che è aleggiata anche sul convegno anarcosindacalista tenutosi a Reggio Emilia il 21-22 novembre su "Composizione di classe e ristrutturazione nelle industrie". Questo convegno, organizzato dalle riviste Assemblea Generale, Autogestione e Collegamenti, ha registrato unitamente ad una scarsa partecipazione - non più di una sessantina di compagni - anche la lunga strada che dovrà compiere l'anarcosindacalismo italiano per poter divenire un soggetto propositivo all'interno del mondo del lavoro. Ma in una situazione come quella attuale, che vede l'attività dell'intero movimento anarchico in una pesante fase di "stanca", la cosa non appare certo anomala.
I contenuti espressi dal convegno invece sono di più difficile definizione. Andrea Ferrari, operaio di Reggio Emilia, nella relazione introduttiva ha cercato di superare le classiche posizioni rivendicazioniste attraverso un rilancio di tematiche autogestionarie delle lotte che modifichino l'immaginario sociale dei vari soggetti politici attraverso la pratica dell'utopia, accentuando l'attenzione più sulla metodologia delle lotte che sugli obiettivi. Ed ha indicato nei lavoratori delle cooperative e delle piccole fabbriche, nei lavoratori delle aziende artigiane, nel proletariato giovanile e in tutti quei settori considerati marginali - e ancora non irregimentati nei sindacati ufficiali - dei possibili interlocutori di un progetto libertario. Ma Ferrari ha anche criticato il persistere nel movimento anarcosindacalista di concezioni antiquate legate al mito della "centralità operaia", ha criticato le deformanti visioni ideologiche della realtà che pretendono di vedere lotte e movimento dove queste non ci sono, per riconoscere francamente che di fronte alla crisi non c'è stata una seria risposto operaia. Le altre relazioni e il dibattito si sono snodate in una gamma di posizioni molto differenziate che andavano dall'operaismo classico (riaffermare l'intransigenza di classe per la difesa degli interessi immediati del proletariato, per l'affermazione dei suoi interessi storici) a immagini del futuro (il padrone è l'informatica).
Tra queste due posizioni estreme, alcune relazioni di analisi tecnico-politica sui gruppi di produzione all'Alfa Romeo e alla Citroen, sul settore terziario avanzato. Spiccava per approfondimento analitico la relazione dei compagni di Napoli, presentata da Vincenzo Italiano, dipendente dell'Enel, su "La ristrutturazione all'Enel e nuove linee di organizzazione del lavoro". Questa relazione infatti ampliava lo spazio analitico "classico" verso tematiche ritenute, spesso e a torto, non necessarie per la comprensione della dinamica sociale nelle fabbriche quali lo strutturalismo e il funzionalismo fino alle ultime elaborazioni della "sociologia del conflitto".
Una prima sintesi dell'intero dibattito è stata infine tratteggiata da Giovanni Biagioni, insegnante fiorentino, che ha rilevato come le linee della ristrutturazione padronale si muovano soprattutto attorno al concetto di professionalità e che pertanto se il movimento anarcosindacalista resta ancorato ai problemi del salario e dell'orario di lavoro, rimane all'interno del discorso padronale della professionalità, cioè ad un aumento della produttività come momento riequilibrante della riduzione d'orario. Biagioni ha quindi proposto di spostare le rivendicazioni nel campo delle condizioni di vita e di lavoro, cioè di uscire dalla "dimensione fabbrica" per aprirsi ad un intervento più schiettamente "sociale". Ha poi intelligentemente posto l'accento sulla necessità di rifuggire dalla ricerca di una chiave unica di lettura della ristrutturazione, per poter comprendere appieno le specificità dei vari momenti della ristrutturazione stessa. Per concludere, infine, con molta onestà, che il lavoro da fare è ancora moltissimo visto che questo convegno si pone soprattutto come momento di "ricucitura" dei diversi gruppi anarcosindacalisti, oggi isolati e poco comunicanti tra loro.
L'anarcosindacalismo sta dunque cercando strade nuove: "esce" dalla dimensione della fabbrica per affacciarsi a tematiche sociali e in questo segnale di vitalità e di eterodossia sta forse il lato migliore di questo convegno.