Rivista Anarchica Online
Un po' di chiarezza
di C.A. Ponte della Ghisolfa / Collettivo Anarres
Violenza, terrorismo, repressione, lotta armata, ecc.: su questi temi, forse più che su
qualsiasi altro, abbiamo pubblicato in questi anni un gran numero di articoli, numerosi dei
quali redazionali. È su questi temi che ci siamo ritrovati a sostenere, nell'ambito del
movimento anarchico, il dibattito più acceso ed a volte polemico. La
pubblicazione di questo documento, frutto di molte decine di ore di analisi e di dibattito
tra i militanti del Circolo "Ponte della Ghisolfa" e del Collettivo Anarres di Milano, si
colloca nel solco ben preciso della nostra concezione etica e "strategica" della violenza: i
quattro componenti del nostro collettivo redazionale militano nei due gruppi firmatari del
documento.
Un piccolo contributo di chiarezza e di lucidità. Ecco come consideriamo questo nostro
documento su due temi di persistente attualità: la repressione e la lotta armata. Di fronte a questi due
elementi della nostra società crediamo di aver dato fino ad ora risposte più
emotive che razionali. Cioè, risposte insufficienti (e in buona misura svianti) per un movimento
come il nostro che, pretendendo di modificare radicalmente la società, deve trovare nella lucidità
e nella chiarezza due elementi costitutivi della sua azione. Abbiamo quindi dedicato molte
riunioni dei nostri due collettivi per discutere e analizzare questi problemi. Data la lunghezza e
l'ampiezza della discussione avvenuta, il presente documento si presenta come il classico
topolino partorito dalla montagna, ma abbiamo comunque la presunzione di credere che il nostro
sforzo riuscirà a sviluppare il dibattito in corso nel movimento. Il metodo da noi prescelto per
approfondire l'analisi considera la "verità storica" come uno
strumento fondamentale della rivoluzione libertaria. Vale a dire che a nostro parere ha validità
solo e soltanto la "verità storica" e contestiamo l'utilizzo di "verità politiche", cioè di
"verità che
vengono ritenute utili ad un progetto, a una strategia politica, ma che non rispecchiano la realtà
delle cose o degli avvenimenti. A nostro parere non è neppure vero che esistano più verità.
Possono esistere ed esistono diverse interpretazioni di un determinato fatto, ma riteniamo che la
verità abbia una sua oggettività che supera il momento interpretativo. Questa posizione può
a
prima vista sembrare dogmatica o, peggio, totalizzante. Il potere ha, infatti, sempre teso a
imporre una sola verità: la sua, cioè una verità politica presentata come verità
storica. A questa
operazione del potere non ci si può opporre contrapponendo un'altra verità politica - anche in
questo caso presentata come verità storica - perché risulta subito evidente che così operando
entriamo nella stessa logica e utilizziamo gli stessi metodi del potere. Con in più un'aggravante:
non disponiamo degli strumenti di persuasione del potere e siamo destinati, inesorabilmente, alla
sconfitta. Nel fare queste considerazioni non nascondiamo le difficoltà che possano frapporsi alla
individuazione della verità. Al fatto che quello che in un determinato momento viene considerato
vero, possa in un momento successivo - grazie a nuovi elementi acquisiti - dimostrarsi non vero o
parzialmente vero. Anche queste riserve non inficiano il concetto dell'unicità della verità, ma
indicano unicamente gli eventuali ostacoli alla conoscenza della verità storica. Comunque risulta
evidente l'enorme differenza tra chi cerca la verità storica - e quindi la logica secondo cui si
muove - e chi invece crea e divulga una verità politica. Un abisso divide queste due posizioni. Un
abisso incolmabile che nessuna considerazione e valutazione tattica o strategica può colmare. Per
esemplificare il concetto espresso basti pensare alla recente polemica sorta in seguito al saggio di
quel professore francese, Faurisson, che sostiene l'inesistenza delle camere a gas nei campi di
concentramento nazisti. Quella di Faurisson è una tipica verità politica così come era una
verità
politica il negare lo sterminio dei Kulaki da parte di Stalin. È dunque con questa impostazione
metodologica che intendiamo affrontare l'analisi della
repressione e della lotta armata e delle conseguenti risposte che il nostro movimento da e/o
dovrebbe dare.
il movimento anarchico oggi
Prima di passare alla trattazione degli argomenti principali di questo documento crediamo
opportuno analizzare, seppur sinteticamente, la situazione del nostro movimento. L'analisi della
repressione e della lotta armata non può essere infatti disgiunta da una valutazione critica del
movimento anarchico come parte coinvolta, volente o nolente, nella situazione generale del
movimento rivoluzionario. In questo modo coglieremo quelle modificazioni che sono intervenute
nel nostro movimento in dipendenza anche dei cambiamenti intervenuti al suo esterno. In questa
ottica non ci interessa tracciare una mappa ragionata del movimento anarchico, quanto coglierne
alcuni elementi comuni e generali. Anche se il movimento presenta diversità e particolarità da
luogo a luogo, da città a città,
crediamo che l'insieme dei gruppi anarchici (pur nella eterogeneità delle pratiche politiche)
presenti una sostanziale uniformità rispetto alla società "esterna": ha una incidenza pressoché
nulla. La società non è - o è solo in misura ridottissima - influenzata dall'attività dei
nostri gruppi.
Questo non vuol dire che i gruppi siano inoperanti, ma, più drammaticamente, che quanto gli
anarchici fanno non ha nessuna rilevanza sociale. Il perpetuarsi in questi ultimi quattro-cinque anni di una tale
situazione ha prodotto un diffuso e
un più o meno consapevole senso di frustrazione che si traduce in una incapacità a pensarsi in
funzione di un'attività esterna. Si assiste quindi a un susseguirsi di iniziative che solo
formalmente sono dirette verso il mondo esterno, ma che di fatto trovano come interlocutori
quasi esclusivi gli altri anarchici e libertari. Questo fenomeno è solo in parte attribuibile al
disinteresse della "gente normale" verso le tematiche anarchiche, ma in più larga misura ad
un'incapacità degli anarchici di "sintonizzarsi" con il modo di essere, di pensare, di vivere della
"gente normale". Ciò è dovuto, in gran parte, all'atteggiamento psicologico e al conseguente
linguaggio utilizzato dagli anarchici, che permane nella sfera del politico, proprio in un momento
come quello attuale che vede sempre più accrescersi la crisi della politica, tradizionalmente
intesa, sia essa di sinistra o di destra, rivoluzionaria o reazionaria. Accade così che tematiche
antiautoritarie vengano "riscoperte" fuori dal movimento anarchico, anzi quasi in opposizione al
movimento. Per chi come noi non ambisce ad alcuna egemonia sulla società, questi episodi sono
sicuramente positivi, anche se spesso - per la mancanza di una progettualità cosciente e
soprattutto di una diffusa cultura libertaria - si dissolvono o si risolvono in formule autoritarie
con apparenti venature libertarie. Questi fenomeni mettono comunque in evidenza un elemento
che potremmo definire allarmante: nella società permangono potenzialità libertarie che gli
anarchici non riescono a galvanizzare, peggio, non pensano neppure di galvanizzare. Sembra
dunque venire a cadere una delle funzioni più importanti del nostro movimento e questo fatto
deve essere sottoposto ad attenta riflessione, pena la nostra trasformazione in un momento di
testimonianza, in custodi di antichi splendori. Già si notano i primi sintomi di questa trasformazione:
la realtà sociale viene sempre più
analizzata attraverso formule stereotipate che spiegano solo in parte - nei casi più fortunati -
quello che realmente sta avvenendo, il linguaggio si ritualizza attraverso la ripetizione dei
principi, certo sempre validi, ma necessitanti di una continua verifica e ritualizzazione. L'attività
esterna diviene una routine determinata più a giustificare la propria esistenza che non dal
desiderio di modificare la realtà. L'atmosfera si fa stagnante e viene contrassegnata da un
impressionante calo delle capacità propositive dei compagni. Questi pochi elementi - ma altri se
ne potrebbero elencare - ci dicono che la crisi del movimento sta subendo un'involuzione
qualitativa e cioè che la nostra marginalità sociale si sta trasformando in dimensione ideologica:
siamo sempre più all'interno dello "spazio ideologico del ghetto". Essere all'interno dello spazio
ideologico del ghetto sta a significare non tanto, e non solo, la nostra incapacità fisica ad uscire
dal ghetto (carenza di mezzi e di strumenti di propaganda adeguati ad una società come la
nostra), ma piuttosto la nostra incapacità psicologica a pensarci fuori dal ghetto. Ci sembra superfluo
mettere in evidenza la drammaticità di una tale situazione che rende ormai
anacronistico anche il termine "riflusso". Comprendere le ragioni, le motivazioni che hanno
portato a questo stato di cose richiederebbe un documento nel documento. Qui ci limitiamo a
rilevare che dal 1968 ad oggi moltissimi militanti anarchici sono passati da un tipo di attività
frenetica e quasi religiosa a una militanza sempre più dubbiosa e disincantata fino all'abbandono
della militanza politica in senso stretto. La militanza anarchica ha comunque quasi sempre
riflesso - pur con alcune varianti, talora sensibili - il tipo di militanza che veniva esercitata nella
sinistra extraparlamentare. Cioè non c'è stata una sostanziale differenziazione tra militante
anarchico e militante extraparlamentare se non in alcuni enunciati, nelle dichiarazioni di
principio. Risulta così evidente come la crisi del rivoluzionarismo marxista abbia potuto
permeare anche l'ambito anarchico. Fenomeno curioso, quasi inspiegabile dal punto di vista
teorico se non comprendiamo che la crisi del nostro movimento non è determinata da una crisi
dei valori teorici ed etici, ma più banalmente da un decomporsi dell'ambiente "sinistrese" del
quale - è duro riconoscerlo - anche noi facevamo parte. Anche le tematiche o i settori di
intervento degli scorsi anni sono quasi sempre stati dei fattori "importanti" nel movimento
anarchico: le "mode" della sinistra extraparlamentare, sono state i temi che gli anarchici hanno
ripreso con opportune "varianti" linguistiche e terminologiche. Siamo quindi stati, in larga
misura, la "versione libertaria" dell'extraparlamentarismo, e non abbiamo saputo creare una
dimensione originale e autonoma di intervento sociale e politico. Oggi l'essere e il vivere da
anarchici sembra risolversi in una forma che potremmo definire di "appartenenza": si è del tal
gruppo, del tal collettivo, si sta insieme e si forma un piccolo "ambiente" che però non riesce ad
assumere neppure la fisionomia di una controsocietà o società parallela. Emerge un problema
rilevante. La passata esperienza ci ha permesso di rilevare i limiti della
nostra militanza e la sua "sudditanza" verso quella extraparlamentare. Se vogliamo uscire da
questa situazione dobbiamo "creare" una dimensione della militanza originale, nuova e singolare
nella sua diversità. Una dimensione che quindi si contraddistingua per qualità - e che dunque
evidenzi la sua diversa natura - dalla forma di militanza oggi obsoleta, ma che è ancora l'unica
immagine che noi abbiamo della militanza. Siamo certo coscienti che la semplice enunciazione
del problema lascia immodificata la situazione, ma crediamo che solo da un'approfondita
riflessione, da un dibattito nel movimento e da una costante verifica possano uscire delle
proposte in grado di rivoluzionare la staticità della forma della militanza così come oggi ancora
la concepiamo.
crisi della sinistra rivoluzionaria e strategia lottarmatista
Possiamo dunque considerare la crisi del movimento anarchico come fenomeno inserito - pur con
alcune differenziazioni - nel più generale contesto della crisi della sinistra rivoluzionaria. Una
crisi originata e determinata da una molteplicità di elementi, ma che si è evidenziata
parallelamente allo svilupparsi della lotta armata. Con questo non vogliamo sostenere che la crisi
della sinistra rivoluzionaria sia stata determinata dall'espansione della lotta armata, ma vogliamo
comunque cogliere un nesso di interdipendenza tra i due fenomeni. C'è uno stretto collegamento,
un alimentarsi reciproco tra questi due fenomeni: i primi segni della crisi hanno dato impulso alla
lotta armata e lo svilupparsi di quest'ultima ha accelerato la crisi. Arduo, se non impossibile,
sarebbe cogliere l'elemento primigenio da cui far dipendere l'altro. Ci limitiamo quindi a rilevare
questa interdipendenza che si è risolta in uno sfascio completo dell'area rivoluzionaria e in un
delirio isolato dei lottarmatisti. Il "militarismo" è molto probabilmente un cancro che la sinistra
rivoluzionaria, soprattutto quella
marxista, si portava dentro fin dai primi anni della contestazione sessantottesca. I vari servizi
d'ordine, nati come difesa delle manifestazioni contro le cariche della polizia, hanno via via
acquisito atteggiamenti, strutture e mentalità militari. I membri dei servizi d'ordine dei vari
gruppi (esemplare è il caso di quelli del Movimento Studentesco di Milano) seguivano corsi di
ginnastica "marziale", si addestravano ed entravano in una dimensione psicologica più da militari
che da attivisti politici. Dai servizi d'ordine muniti di bastoni si è poi passati alle bottiglie
molotov. Il famoso salto qualitativo, a Milano avvenne l'11 marzo 1972 durante una manifestazione contro
la repressione. Non si trattò di una risposta violenta alle violenze della polizia - che certo ci
furono - ma fu piuttosto una scelta decisa a tavolino dai vari dirigenti dei gruppi che
programmarono "l'innalzamento del livello dello scontro". Strategia suicida, certo, ma che fece
presa sulla sinistra rivoluzionaria e anche su parte del movimento anarchico. Già allora alcuni di
noi scrissero: "Non si può considerare momento rivoluzionario uno scontro di piazza dove
l'unico avversario sono i poliziotti, o i fascisti senza rischiare di autoemarginarsi dalle lotte degli
sfruttati. Potere Operaio, il "cattivissimo" della sinistra extraparlamentare, con le sue
farneticazioni sulla necessità di "militarizzare le lotte" esprime solo compiutamente una tendenza
presente anche in altre organizzazioni extraparlamentari. Lo scontro con la polizia non è più visto
come momento difensivo, bensì come momento pubblicitario per le organizzazioni sedicenti
rivoluzionarie che cercano di far passare queste azioni come punto più alto dello scontro sociale".
(Scontro di piazza e rivoluzione, in "A Rivista anarchica", n. 12, maggio 1972). La maggior parte
degli anarchici milanesi non partecipò a quella manifestazione - salvo il sempre presente
gruppetto che ama confondere lo scoppio di una molotov con lo scoppio della rivoluzione - anzi
se ne dissociò politicamente. Quello che allora intuimmo, pur confusamente, e che oggi risulta
evidente è che proprio in quel periodo prenderà corpo un progetto per creare le condizioni di una
rivoluzione leninista in Italia. Czeslaw Milosz, un dissidente polacco, ha sintetizzato in modo esemplare nel suo
libro "La
mente prigioniera", scritto nel lontano 1953, la teoria politica che informa la strategia leninista.
Scrive Milosz: "Processo dialettico: prevedere che la casa brucerà, dopo di che versare benzina
intorno alla stufa. La casa prende fuoco, le mie previsioni erano esatte". In modo estremamente
sintetico Milosz ha compreso il nucleo centrale dell'azione politica dei leninisti. Questo schema
può illustrare anche la situazione italiana di quegli anni. Processo dialettico: la crisi della società
italiana genererà una violenza diffusa guidata dal partito comunista combattente. Dopodiché
armare i membri più attivi dei servizi d'ordine e costruire un movimento clandestino armato. La
violenza si diffonde, le previsioni erano esatte e confermano l'ineluttabilità della rivoluzione
leninista. Negli anni '70 si è andato sviluppando ed affermando questo progetto generato dalla mente
di
pochi ma intelligentemente diffuso nella sinistra rivoluzionaria. È evidente che non vogliamo
affermare che solo pochi siano riusciti ad innescare un fenomeno che ha investito gran parte della
sinistra rivoluzionaria. Il progetto della "violenza diffusa" si basava anche su alcune "condizioni
oggettive" in cui si trovava un movimento che per anni si era infiammato di violenza verbale
destinata o a defluire o a concretizzarsi in fatti. Abbiamo così assistito a un processo di
diffusione della violenza che si sviluppava attraverso la creazione di momenti spettacolari che,
amplificati dai mass-media, creavano l'illusione di un fenomeno più vasto e, per una sorta di
proliferazione imitativa, queste azioni venivano riprese in altri quartieri, in altre città. Cosicché
l'iniziale "finzione" creata ad hoc, estendendosi, diveniva realtà. Un fenomeno interessante e
crediamo fino ad oggi poco compreso. Una realtà poco rilevante numericamente ha saputo creare
una serie di situazioni che per la loro suggestione hanno acquisito una dimensione simbolica
nella quale molti giovani si sono riconosciuti e grazie a questo processo il "movimento
simbolico" tendeva a trasformarsi in "movimento reale". Ma questo processo è stato bruscamente
spezzato dal susseguirsi di arresti dal 1979 ad oggi. Il
giudice Calogero attraverso una ricostruzione quasi interamente politica e poco giudiziaria,
confortata da accuse perlopiù infondate, ma clamorose, ha inferto un colpo mortale a quel
movimento mettendo a nudo - di fatto - lo scarto ancora esistente tra movimento simbolico e
movimento reale. Dopo di allora assistiamo a un processo regressivo e involutivo della "violenza
diffusa" e il manifestarsi della crisi del partito armato evidenziata dal fenomeno dei "pentiti". La questione si
fa delicata. Per evitare fraintendimenti cercheremo di chiarire meglio quanto
espresso prima. Il famoso "teorema Calogero" è essenzialmente un "documento politico" più che
una requisitoria giudiziaria. In esso le garanzie formali del diritto liberal-democratico vengono
abbandonate per un obbiettivo ritenuto più elevato: "colpire l'eversione". Il giudice Calogero non
incrimina sulla base di prove giudiziarie accertate, ma fa discendere l'incriminazione da una
ricostruzione politica di fatti ed avvenimenti. La diversità di Calogero rispetto alla maggior parte
dei giudici non sta tanto nella dimostrabilità o meno delle accuse (il potere giudiziario ha sempre
agito in modo arbitrario e secondo la "ragion di stato"), ma nel metodo utilizzato: la politica al
primo posto. Crediamo che non si tratti di una modifica di poco conto, anzi è forse il sintomo,
per ora isolato, di una possibile trasformazione del potere giudiziario. Non a caso la sempre più
sparuta pattuglia di garantisti ha gridato allo scandalo. Visto in questa ottica, l'operato di Calogero è
della stessa qualità, pur con alcune diversità
formali, di quello dell'accusatore nei processi di Mosca del 1936/37, dei "processi proletari" delle
B.R.ai loro sequestrati. Cioè di casi in cui l'accusa e il processo trascendono i formalismi
democratico-borghesi e tutto si unifica nella dimensione politica. Il giudice Calogero combatte
un leninismo con le armi del leninismo. Questo fatto è una vittoria delle B.R.
perché hanno
indotto il potere giudiziario ad abbandonare, almeno in questo caso (ma forse l'episodio è
destinato a diventare norma), il "formalismo borghese" per addentrarsi nel "sostanzialismo
leninista", cioè un diritto utilizzato non tanto per colpire imputati che debbono rispondere di reati
commessi e accertabili secondo procedure codificate, ma piuttosto di reati addebitati secondo un
"sospetto politico". In questo senso il giudice Calogero è un brigatista come lo è il ministro-ombra
Pecchioli che proprio recentemente ha dichiarato: "Nessuno è innocente fino a prova
contraria". L'aspetto più inquietante non è tanto la trasformazione in atto nel potere giudiziario,
ma piuttosto
la sostanziale accettazione di questo stato di cose da parte della società civile. Anni e anni di
violenza diffusa, ai più incomprensibile, hanno creato una situazione psicologica che dà al potere
una sorta di immunità: le violenze del potere vengono viste come il male minore. Questo
aberrante risultato va addebitato soprattutto a coloro che hanno creduto di creare una situazione
rivoluzionaria attraverso una pratica politica fatta di violenza e di successivi "innalzamenti del
livello di scontro". Pur nella convinzione, rafforzata dall'esperienza di questi anni, del delicato e
non sempre prevedibile rapporto tra lotta anarchica e mezzi violenti, noi non siamo nonviolenti,
ma crediamo che l'utilizzo della violenza debba sempre tener conto di due elementi essenziali: la
comprensibilità e la sua giustificazione. Un atto violento, se non è un atto fine a se stesso (quindi
irrilevante ai fini rivoluzionari), è, anche e forse soprattutto, un messaggio, una comunicazione
che la minoranza rivoluzionaria rivolge alla maggioranza degli sfruttati, cioè ai suoi
interlocutori.. Ora è evidente che il messaggio per sortire gli effetti sperati, debba essere
compreso o meglio ancora condiviso e "partecipato idealmente". Per ottenere questo effetto l'atto
violento deve avere una chiara giustificazione, deve cioè correlarsi in modo diretto (non fumoso
e astratto) a fatti, azioni, soprusi del potere, oppure deve proporsi di raggiungere uno scopo
specifico sorretto da un elevato contenuto etico. Se sulla base di queste premesse noi analizziamo questi ultimi
anni di lotta violenta o armata in
Italia ci rendiamo subito conto che il tipo di violenza esercitata non rispondeva a questi requisiti
e quindi gli sfruttati non l'hanno condivisa e, grazie ad un'intelligente regia dei mass-media,
hanno riconosciuto una buona dose di legittimità alla violenza esercitata dal potere. Con questo
non vogliamo certo "processare" delle generazioni di giovani che in quegli anni vedevano
nell'azione violenta un atto di rivolta globale contro il sistema, quanto di fare chiarezza e di
comprendere i danni provocati dall'aver elevato quel tipo di violenza politica al ruolo di strategia
politica. E di comprendere, infine, che la strategia lottarmatista ha allontanato ancor più l'evento
rivoluzionario, tanto che il persistere di azioni violente può essere considerato come una sorta di
sublimazione di una rivoluzione inesistente e che si allontana sempre più. Dunque una violenza
che appaga solo chi la esercita. Per gli anarchici il discorso dovrebbe essere chiaro, ma purtroppo vediamo
persistere nel nostro
movimento una visione distorta della violenza, un considerare il grado di violenza di un'azione
come il suo grado di rivoluzionarismo. Quasi esistesse una equivalenza meccanica tra violenza e
rivoluzione. Noi ci dissociamo nettamente da questa visione che non solo si è dimostrata
sbagliata, ma che risulta priva di una benché minima "intelligenza politica". Non tener conto degli effetti
prodotti sull'immaginario collettivo da oltre dieci anni di questa
lotta armata e delle modificazioni psicologiche degli sfruttati significa ignorare i processi
attraverso i quali la società forma l'immagine di se stessa, di come recepisca determinati
messaggi nell'attuale condizione storico-sociale, significa in poche parole mostrare solo arrogante
disprezzo verso coloro che sono i nostri interlocutori: gli sfruttati.
la repressione, le campagne antirepressive e il fronte
carcerario
Di fronte a questo cosiddetto "innalzamento del livello di scontro" lo stato e i suoi organi
repressivi come esercitano il loro compito istituzionale? Cioè come esercitano la repressione?
Analizzare la qualità della repressione non ci da solo la descrizione di una funzione dello stato,
ma, essendo questa funzione uno dei momenti costitutivi dello stato, ci permette di comprendere
il tipo e la qualità del potere contro cui lottiamo. In questo modo la complessità e l'apparente
indecifrabilità del potere vengono decodificate attraverso l'analisi di una sua manifestazione
preminente. Se rivediamo schematicamente questi ultimi anni (dal '69 ad oggi) cogliamo una
lenta, ma costante trasformazione della repressione: da una forma quasi indiscriminata e
disordinata ad una più discriminata e più sistematica. Sicuramente esistono anche casi di
repressione indiscriminata, ma si tratta più di eccezioni, talora vistose, che della norma. Le bombe del
12 dicembre 1969 e la successiva repressione rappresentano l'inizio di una nuova
fase nell'attività degli organi polizieschi e giudiziari. Su questa nuova dimensione della
repressione, sulla capacità di contrattaccare degli anarchici e della sinistra rivoluzionaria, sul calo
di credibilità dello stato, sul coinvolgimento nella campagna di controinformazione di ampi strati
della società italiana, in questi anni si è scritto quasi tutto quanto si poteva scrivere e quindi non
ci dilungheremo oltre. Qui quello che ci interessa rilevare è come da allora il potere abbia saputo
perfezionare le tecniche d'intervento contro un movimento che perdeva sempre più incisività,
stretto tra riflusso e lotta armata. Si è dunque nuovamente sbilanciato quel rapporto di forza che
ci aveva visti nella prima metà degli anni settanta avviati a conquistare sempre maggiori spazi di
agibilità politica. Non abbiamo saputo rafforzare quegli spazi, anzi in pochi anni il movimento
rivoluzionario ha gradualmente perso terreno, ha distrutto quel patrimonio di credibilità che si era
conquistato dopo la strage di stato. Troppo facile, troppo comodo sarebbe addebitare questa
sconfitta solo alle capacità di recupero del potere. Queste indubbiamente ci sono, ma bisogna
anche dire a chiare lettere che il potere ha trovato la via spianata dalla nostra incapacità, o
peggio, dalla nostra imbecillità. Non si possono montare campagna antirepressive basandole sempre su
"verità politiche", per di
più difficilmente sostenibili. Non si può pensare di sostenere l'innocenza (in senso giuridico) di
compagni che innocenti non sono (secondo le leggi e/o secondo la morale comune), senza poi
dover pagare il conto in termini di credibilità. Le verità politiche (se non si ha la forza di imporle
- ammesso e non concesso che sia un modo corretto di agire - e considerato inoltre che questa
forza al momento attuale ce l'ha solo il potere) si rivelano dei trabocchetti in cui il movimento
rivoluzionario è caduto in modo maldestro. Quando gridavamo nelle piazze che Valpreda era
innocente, gridavamo una verità storica, una verità che neppure la forza del potere riuscì
a
seppellire. Ma chi ha sostenuto l'innocenza di compagni "colpevoli", ha dovuto (e noi con loro)
constatare che, mano a mano che le tesi difensive cadevano (a volte gli stessi incarcerati hanno
ammesso le loro responsabilità sconfessando clamorosamente le campagne fatte in loro
appoggio) quella fascia di opinione pubblica sensibilizzata dal movimento rivoluzionario ha
cominciato sempre più ad accettare le verità dello stato, a considerare come legittimo l'operato
degli organi di repressione. Questo stato di cose - così facilmente verificabile da chi abbia occhi
per guardare - ha accresciuto enormemente il grado di impunità del potere che può oggi
permettersi di agire secondo il principio del "sospetto dell'autorità come presunzione di
colpevolezza". La situazione è davvero sconsolante: polizia e magistratura possono violare le loro stesse
norme
senza più alcuna reazione nell'opinione pubblica, mentre i vari "comitati per la liberazione dei
compagni" sono completamente inascoltati. Tutto è immerso in un clima fatto di diffidenza o di
apatia. C'è stato un periodo in cui si difendevano tutti gli accusati, tutti i carcerati politici, c'era un clima
psicologico che portava a considerare tutti gli arrestati innocenti. Conformismo vittimista,
deleterio come tutti i conformismi. Poi il clima si è lentamente dissolto perché molti si sono resi
conto che quanto andavano sostenendo era poco credibile, tanto che oggi non si riesce più a
smuovere nessuno neppure di fronte ai più palesi soprusi. Oggi il potere reprime godendo di un
elevato consenso e sono troppi i favorevoli al ripristino della pena di morte. È possibile chiamare
questo stato di cose come un "innalzamento del livello di scontro"? Evidentemente no. Quindi
bisogna utilizzare l'esperienza accumulata in questi anni per uscire da questo vicolo cieco. Oggi tutta l'agitazione
antirepressiva ancora esistente è egemonizzata dalle parole d'ordine
lanciate dai gruppi armati. Sembra quasi che "il proletariato carcerato" sia divenuto il soggetto
della rivoluzione. Questa impostazione strategica mostra chiaramente i limiti di un movimento
che si è polarizzato in un dialogo tra chi è fuori e chi è dentro alle carceri. Di un movimento
costretto a fare del "carcerario" non un tema di agitazione sociale, ma un tema di agitazione al
suo interno: la propaganda viene fatta per gli altri militanti che non si occupano del "carcerario".
Siamo di fronte ad un progetto che basandosi anche sul ricatto morale ("quelli stanno dentro e voi
fuori ve la menate") vorrebbe ricomporre in un unico fronte le scaglie disperse del movimento
rivoluzionario. Il carcerario dunque come "ultima spiaggia" su cui ricostruire un progetto
leninista adattato alla nuova situazione: dall'operaio massa all'operaio sociale ed oggi all'operaio
carcerato. Il "carcerario" e l'auspicato nuovo "fronte unito" sono quindi null'altro che una versione riadattata
del progetto neo-leninista nato negli anni settanta. Non rendersi conto di questa evidenza è
perlomeno segno di una grande ingenuità. In questo momento storico l'aggregazione attorno alle
tematiche classiche della sinistra rivoluzionaria risulta inconsistente, invece il "carcerario" ha
ancora un discreto grado di "coinvolgimento emotivo" all'interno del movimento. Un ambito nel
quale fare politica "tutti insieme" al di là delle divergenze ideologiche in vista di un obiettivo
comune: la liberazione dei compagni. I "comitati di lotta" all'interno delle carceri e i "comitati di
difesa" all'esterno non si pongono l'obiettivo di "abolire le carceri", anche se questo viene
ripetuto ad ogni piè sospinto, ma piuttosto di costruire una figura di partito leninista che sappia
unificare le tensioni all'interno e all'esterno del carcere. Per questi motivi il nostro dissenso verso gli acritici
compagni libertari e anarchici che hanno
scelto la parte di "utili idioti" del neo-leninismo è completo e totale. È quindi necessario scindere
chiaramente la solidarietà umana con le vittime dello stato dall'avallo e dall'accettazione di un
progetto politico che riteniamo antitetico al nostro. Risulta chiaro che non è solo per il rapporto
di forze esistente nelle carceri (preponderanza dei brigatisti contro una minoranza di libertari) che
rifiutiamo di privilegiare il lavoro sulle carceri. Crediamo infatti che di fronte alle carceri il
lavoro politico esterno consista quasi esclusivamente nell'agitazione a carattere generale che
includa anche l'eliminazione di questa istituzione totale. Cioè crediamo sia possibile abolire
le
carceri solo modificando i rapporti nella società, mentre la focalizzazione sulle carceri diviene
momento sviante e neppure produttivo per lo specifico "obiettivo carceri". Invece i "comitati di
lotta" accettano la dimensione carcere e anzi costruiscono una serie di azioni che mirano più a
garantire l'egemonia leninista sull'intera popolazione carcerata che non ad una negazione di
questa istituzione. Dunque pur ritenendo valide e comprensibili le lotte che mirano a migliorare
le condizioni di vita dei carcerati non possiamo certo dare il nostro sostegno a chi sulla base di
queste riforme cerca di affermare e consolidare la sua egemonia di tipo mafioso-leninista.
Soprattutto riteniamo che le carceri non possano essere il luogo privilegiato di intervento per un
movimento che si costituisce essenzialmente nella dimensione della libertà. Noi lottiamo per la
distruzione delle carceri perché le consideriamo un non-luogo della socialità, cioè una
struttura
che - condizionando negativamente ogni progetto che nasca dal suo interno - si dimostra
negatrice di ogni progetto di emancipazione sociale. È evidente quindi che ci rifiutiamo sia di
accettare la "logica delle carceri" sia l'illusione di creare in quella istituzione totale un
movimento che favorisca la liberazione sociale. Un ultima considerazione: oggi la quasi totalità
dei carcerati politici è portatrice di un progetto politico (sia i brigatisti che i lottarmatisti libertari)
che consideriamo o antitetico o non in sintonia con il nostro, quindi, risulta per noi impraticabile
un sostegno politico che si tradurrebbe in un'accettazione implicita o esplicita della loro strategia.
Questa considerazione tronca, a nostro parere, ogni ulteriore discussione: non siamo disposti a
rinunciare alla nostra identità politica per un malinteso senso della solidarietà.
la verità è rivoluzionaria
Sulla base delle considerazioni fin qui esposte riteniamo sia indispensabile ricostruire un'etica
dell'azione politica che escluda la dicotomia tra verità storica e verità politica. Lo strumento da
utilizzare è solo e soltanto la verità storica, mentre oggi il movimento rivoluzionario è spesso
portatore di "verità rivoluzionarie" che sono verità politiche, cioè false, quanto le
"verità di
stato". Questo sta a significare che il movimento rivoluzionario è caduto nella spirale del potere e
ha riprodotto la stessa logica del potere che combatte. Un caso tipico del processo di equivalenza
allargato che porta tutte le forze sociali a riprodurre la forma del potere. Su questa strada la
nostra sconfitta politica è sicura perché anche se - per ipotesi assurda - le nostre campagne
risultassero "vincenti" si tratterebbe, in definitiva, di una vittoria della logica del potere, cioè
saremmo divenuti un contro-potere. La negazione del nostro essere anarchici. Qui si apre un
dilemma solo apparentemente irresolubile: il dilemma tra verità e necessità.
Cioè tra l'esigenza di
affermare la verità e la necessità di liberare i compagni. Il dilemma, lo
ripetiamo, è solo
apparente perché se non accettiamo le verità politiche, la nostra esigenza di lotta per la
liberazione dei compagni si articolerà in forme differenziate secondo i casi, e che possiamo così
sintetizzare: noi imposteremo delle campagne a "carattere innocentista" se riteniamo che il
compagno sia innocente. Se invece il compagno è "colpevole" la campagna deve essere
soprattutto una rivendicazione - se si concorda con l'azione - del fatto. Tra questi due casi si situa
un terzo tipo di campagna e cioè un'agitazione intesa a mettere in evidenza gli abusi del potere
poliziesco e giudiziario per contrastarne l'evoluzione verso una dimensione di tipo inquisitoriale.
Tutte queste forme di campagne antirepressive devono comunque essere unificate da una logica
che veda la lotta contro la repressione come momento per diffondere, motivare e organizzare il
dissenso. Questo vuole altresì significare che si possono impostare campagne antirepressive solo
di fronte a casi che trascendano il momento puramente strumentale di liberazione dei compagni.
Una campagna per sortire effetti deve essere continua, martellante e deve avere un grado di
generalizzazione tale da coinvolgere ampi strati della società. Non è inflazionando lo strumento
campagne antirepressione che libereremo più compagni, ma è proprio nell'individuazione dei casi
esemplari di repressione e nella conseguente agitazione che restringiamo l'impunità degli apparati
repressivi e impediamo l'estendersi della repressione. Utilizzare le esigue forze del movimento
anarchico in mini-campagne che si esauriscono nei soliti slogan antirepressivi che non
convincono nemmeno più chi li grida, è assurdo e ininfluente, spesso controproducente. Molto
più produttivo allora adoperare le nostre poche forze per l'azione sociale. Sulla base di queste
considerazioni continueremo la nostra lotta contro la repressione, secondo
modalità che non vadano a scapito della nostra identità politica che in questo momento storico
possiamo sintetizzare nella formula: continuare la lotta di sempre contro lo stato e contro il
potere in tutte le sue forme, anche nella forma embrionale del "contro potere rivoluzionario", una
lotta che significa anche rifiuto netto della violenza militaristico-burocratica ed avanguardista del
lottarmatismo e nel rifiuto netto anche, senza ammiccamenti e cedimenti ai ricatti emotivi, della
suicida caricatura "libertaria" del lottarmatismo leninista e nell'ancor più caricaturale violentismo
e tremendismo verbale.
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