Rivista Anarchica Online
Ettore Zambonini - un anarchico dimenticato
di Silvano Toni
Spesso mi chiedo quanti anarchici vadano dispersi dalle "memorie" ufficiali di movimento, e
perché tale ingiusto oblio tolga completamente di mezzo così tanti e significativi compagni che,
magari, hanno lottato, durante tutta la loro vita, per far affermare i principi e le tematiche
anarchiche e libertarie, spesso a costo di grandi sacrifici e della vita stessa. Nel chiedermelo la
mia mente si arma dell'insistente desiderio di "riportare alla luce", tramite ricerche, la storia e la
figura di quei numerosi ed irriducibili compagni, cancellati, molto spesso, dalla storiografia, per
il semplice motivo che non hanno avuto il tempo o la voglia o la predisposizione di scrivere libri,
biografie, articoli o trattati ideologici. Certo, qualcuno può obiettare che tutti i compagni che hanno
lavorato, militato e lottato per e
dentro il movimento e per l'emancipazione sociale, sono sempre stati e sono tuttora vivi e
presenti nelle memorie di lotta degli oppressi. Affascina di più la ricerca su quei compagni che
hanno lasciato eredità scritte ed è altrettanto vero che la ricerca non gratifica né il tempo
dedicatole né l'orgoglio di militante come, invece, lo può fare l'iniziativa di lotta, la
controinformazione o lo scrivere il libro e l'articolo. Spero di non essere frainteso e di non aprire
inutili polemiche sulla qualità-quantità della ricerca anarchica, anche perché come anarchico
credo che praticare le lotte o propagandare le idee non significhi soltanto "scendere in piazza" o
soltanto fare interventi e comizi di propaganda e neanche soltanto scrivere libri o articoli sulla
nostra stampa: credo invece che qualunque tipo di apporto che un compagno dia e abbia dato sia
ugualmente importante ai fini delle lotte e della agitazione sovversiva. Con questo ultimo
discorso non voglio, però, tagliare le gambe ad un eventuale dibattito sul tema qui trattato, anche
se questo articolo vuole essere, più che altro, uno stimolo per i compagni di tutte le località e di
tutte le lingue affinché dedichino un po' del loro tempo alla ricerca sui compagni scomparsi che
hanno vissuto nei posti dove abitano loro stessi. Lo so che questa proposta sembra voler sviare i compagni dagli
impegni di una lotta quotidiana
sempre più complessa contro un sistema sociale sempre più totalizzante, ma credetemi non è
certo questo lo spirito con cui la pongo, bensì è lo stesso spirito con cui già numerosi
anarchici
tentano e hanno tentato di ricomporre un patrimonio vastissimo di storia degli anarchici e delle
loro idee. So anche che è già molto difficile ritrovare i compagni vivi, figuriamoci poi quelli
morti! Battute a parte, passo ora a fare una (speriamo) breve biografia di un anarchico reggiano morto
nel 1944 davanti ad un plotone d'esecuzione fascista, premettendo che (per ora) questa non è
altro che un riassunto di un opuscolo fatto stampare pochi mesi fa dal "Comitato provinciale per
la difesa dell'ordine costituzionale e delle libertà democratiche" di Reggio Emilia e dal Comune
di Villa Minozzo (R.E.): lo ha scritto Antonio Zambonelli, storico reggiano della Resistenza, ed è
intitolato Vita, battaglie e morte di Enrico Zambonini (1893 - 1944). Enrico Zambonini nacque
il 28/4/1893 a Secchio, un paesino della montagna reggiana sito nel
comune di Villa Minozzo, dove visse fino all'età di 13 anni, allorché si mise il fardello in spalla
(fattore comune a tanti montanari di quel tempo e dei tempi nostri) e valicò le montagne per
raggiungere un suo zio in quel di Genova e, soprattutto, per cercare un lavoro. Era il 1906 e 4
anni dopo E. Zambonini rimase solo, in quanto lo zio emigrò verso lo sfruttamento americano.
La sua scaltrezza e la sua notevole apertura mentale contribuirono a farlo abbracciare, in poco
tempo, le idee socialiste prima e quelle anarchiche in seguito. Fu, infatti, durante il servizio
militare che, come lui stesso dichiarò durante un interrogatorio subito il 31/8/'42, "mi accorsi che
il Partito Socialista non corrispondeva più ai miei sentimenti e gradualmente accettai le idee
anarchiche diventandone convinto assertore". Nel 1919 tornò a Genova e si mise subito in
contatto con gli anarchici locali - i quali, come ben sappiamo, erano molto attivi nelle lotte e
nell'organizzazione sindacale - ed in particolare con Armando Borghi col quale fu promotore del
Sindacato minatori aderente all'U.S.I.. Era conosciuto col soprannome di Faino, derivatogli da
una vecchia denominazione della sua famiglia, ed è con tale pseudonimo che lo si trova citato in
un articolo di Gino Bianco (L'atteggiamento degli anarchici nel biennio rosso, in "Movimento
operaio e socialista in Liguria", anno VII, n°2 - aprile-giugno 1961, pag.129) dove l'autore parla
della camera del lavoro di Sestri Ponente quale roccaforte dell'intero movimento di lotta nel
Genovesato, con oltre 10.000 aderenti e dove "la tendenza libertaria è in essa rappresentata da
Angelo Dettori della segreteria e da Beltrami, Caviglia, di Puccio e Faino". Io do per scontato e
per certo che Faino stia per E. Zambonini in quanto anche il compagno Umberto Marzocchi,
interpellato dall'autore, stenti "a credere che si tratti di un caso di omonimia, cioè che lo
pseudonimo di Faino sia il cognome di un'altra persona". È di quel periodo la notizia che egli
prese parte ad una manifestazione antimilitarista, svoltasi il 4/6/1920 a La Spezia davanti alla
polveriera della Marina Militare, durante la quale un altro abitante del Comune di Villa Minozzo,
il carabiniere Leone Carmana, si rese "protagonista" e divenne famoso (sic!) per avere sparato
sulla folla fino all'arrivo dei rinforzi, che dispersero definitivamente i dimostranti (alcuni dei
quali pare volessero assaltare lo stabilimento militare). Ogni tanto tornava nel paese natio e con lui giungeva
sin lassù l'ebbrezza rivoluzionaria che
caratterizzò quel periodo; tenne anche un comizio su di un piccolo balcone, ma questo fu soltanto
un episodio fra i tanti del suo impegno militante messo in pratica anche lassù, dove la lotta di
classe non era certamente prosperosa. Sembra che avesse acquisito una buona dialettica ed un
notevole stile oratorio ornato da euforismi simpatici ed intelligenti come questo che cito ad
esempio: "Si dice: il tuo, il mio... ma verrà un giorno che tutto sarà di tutti". Nel 1922, dopo aver
reagito con successo (li menò) ad una provocazione di alcuni fascisti del
luogo (uno dei quali lo avvicinò con una scusa qualsiasi e gli gridò: "A morte l'anarchia!", mentre
cercava insieme agli altri di manganellarlo) sparì da Secchio ed iniziò da lì la sua intensa
vita
d'oltralpe. Espatriò in Francia e si stabilì prima a Marsiglia e dopo un anno a Saint Raphael dove
rimase fino al 1928 lavorando come meccanico e come edile in una cooperativa. Prese contatto
con i compagni francesi e con altri antifascisti esuli, ma, in seguito all'accusa di avere attentato
alla vita dell'agente consolare Giacomo Di Mauro, venne arrestato, perquisito (nel suo alloggio fu
trovato materiale di propaganda anarchica: libri e riviste) ed infine processato ed assolto. Data la pressante
vigilanza e le numerose provocazioni varcò i confini ed entrò in Belgio. Si
stabilì a Liegi dove rimase fino al 1932, lavorando prima come meccanico e poi come muratore.
La sua azione è ricordata anche qui come quella di uno dei maggiori animatori del movimento
anarchico ed antifascista: si sposta frequentemente da una località all'altra per incontrare altri
compagni e "tiene conferenze, nel corso delle quali insiste sul tema della necessità di lottare
contro il fascismo ed il capitalismo". Si trasferisce nel 1932 in Spagna dove, secondo la polizia
che, ovviamente, non l'ha mai mollato un istante, girovaga lungo tutto il territorio. Durante un
suo soggiorno in Francia venne arrestato e messo dentro per un mese, causa infrazione a decreto
di espulsione. Succedeva nel 1934, e fu una delle tante detenzioni che gli ispirarono, poi, negli
anni '43-44, quando cioè ebbe modo di tornare in montagna, la frase: "Io sono stato in tutte le
galere d'Europa. Ma mai per aver rubato, soltanto per la mia idea". Ricordata tutt'oggi da
qualcuno del posto che ebbe modo di ascoltare "a bocca aperta", durante le veglie, i suoi
affascinanti e sofferti racconti di vita e di lotte. Scontata la pena, fece ritorno in Spagna con Germaine (la donna
con cui viveva e dalla quale
ebbe un figlio) e fu proprio lì che lo incontrò, nel '36, un altro reggiano (Alberto Bartoli: uno dei
primi reggiani ad accorrere in Spagna per lottare contro Franco), il quale ricorda che Zambonini
parlava già correttamente il castigliano e che "era in Spagna da 5 anni per preparare la
rivoluzione". Lo ricordano anche i compagni Umberto Marzocchi e Vindice Rabitti nella Sezione
Italiana della Colonna Ascaso, dove aveva l'incarico di armiere nell'acquartieramento del Castillo
di San Juan, ed in prima linea a combattere sul fronte di Aragona e più precisamente a Huesca,
Tardienta, Torrescura ed Almudebar. Nel '37, allorché si sciolse la Colonna Ascaso (per non
accettare la militarizzazione), Zambonini tornò a Barcellona "dove lavorò presso il Sindacato di
alimentazione quale meccanico addetto alle macchine per la pastorizzazione del latte". Durante
gli scontri del 4-5 maggio 1937 fra gli anarchici e gli stalinisti, Zambonini era a difendere la sede
del sindacato e lì fu ferito "alla regione temporale sinistra e all'emitorace destro". Egli, comunque,
rimase a Barcellona fino al gennaio '39, dove continuò, in qualche modo, la sua
azione; infatti fondò, tra l'altro, "una colonia per gli orfani di guerra con fondi provenienti da una
sottoscrizione fatta negli U.S.A. dal giornale anarchico l'Adunata dei Refrattari, che si
pubblicava a New York". Tale colonia fu inaugurata alla grande il 7 novembre 1938, alla
presenza di Solano Palacio, direttore di Tierra y Libertad, e fu girato anche un film, tirato in
più
copie e distribuito, poi, entro i canali di movimento. Essa ebbe, però, vita breve perché dopo tre
giorni i franchisti erano alle porte della città. Dopo la disfatta delle residue forze rivoluzionarie anche
Zambonini si rifugiò in Francia, o
meglio, fu rinchiuso nel campo francese di Argeles sur Mer trascinatovi dai "Flic". Dopo un anno
circa di ospedale fu estradato in Italia dalle canaglie naziste, dove si beccò 5 anni di confino a
Ventotene. Anche lì continuò a battersi per l'ideale e, soprattutto, contro chi sosteneva
l'autoritarismo e lo stalinismo (erano tanti!) e nel '43, con la caduta formale del fascismo, fu
trasferito (e non liberato come furono altri) in quanto la disposizione limitativa della
scarcerazione degli antifascisti discriminava gli anarchici. Giunto, sotto scorta, in Arezzo, egli si
rifiutò di proseguire la marcia verso il campo di concentramento di Renicci d'Anghiari e per
questo fu rinchiuso nel carcere locale dove rimase fino al 4/12/'43, giorno in cui fu scarcerato
perché risultante compreso "tra i liberandi dal confino". Dopo qualche tappa in pianura da alcuni suoi
amici, giunse in montagna dove dovette farsi
riconoscere dai suoi parenti a causa del suo viso sfigurato dalla ferita inflittagli dai "repubblicani"
nel '37. In quel periodo egli teneva letteralmente banco nelle "veglie", coi suoi avvincenti
racconti dei 21 lunghi anni trascorsi lontano da Secchio e vissuti all'insegna dell'attivismo
politico e rivoluzionario. Specialmente i più giovani erano affascinati dalla sua grande fermezza
e scaltrezza, nonché dalla ammirevole coerenza da lui espressa anche nei momenti più delicati e
più duri della sua esistenza. Un'esistenza di lotta e di fame di giustizia libertaria che di lì a poco
tempo doveva cessare per mano dei fautori più sviscerati dell'ingiustizia e dello sfruttamento, i
quali se lo trovarono contro anche sulle natìe montagne, dove i gruppi partigiani avevano le loro
basi più sicure. In quel periodo, infatti, egli si mise in solerte contatto con altri intenzionati alla lotta
armata e
giunse ad avere l'incarico di comandante del neo-gruppo di Cervarolo con il beneplacito dei
dirigenti provinciali del P.C.I.. Purtroppo, però, non ebbe il tempo di impegnarsi nelle azioni di
fuoco, perché il 22 gennaio venne "prelevato" dalla casa della sorella e deportato a Reggio
Emilia. Dunque, non potè partecipare direttamente alla guerriglia partigiana, ma sembra che
avesse già lavorato parecchio per tessere una fitta ragnatela di incontri e di corrispondenze in
modo da entrare al meglio nell'organizzazione partigiana: basti pensare all'incarico ricevuto ed al
fatto che fosse in stretto contatto con l'anarchico Emilio Canzi, il quale fu per un certo periodo
comandante generale delle forze partigiane del piacentino. Questa serie di impegni, però, doveva essere
l'ultima perché, dopo pochi giorni dall'arresto, fu
fucilato alla schiena nel poligono di tiro di S. Prospero Strinati, insieme ad altri 8 antifascisti
(quasi tutti comunisti) fra i quali vi era anche un prete partigiano: Don Pasquino Borghi.
Scoccavano le sette del mattino del giorno 30/1/'44 quando Zambonini moriva con la stessa
coerenza che caratterizzò tutta la sua vita; infatti, all'avvicinarsi del cappellano fascista, egli lo
sospinse via e davanti alle canne puntate sulla sua schiena egli gridò: "Viva L'Anarchia!". Fu
così che venne trucidato il compagno che alcuni ricordano ancora quando arrivava al paesello
col fucile a tracolla, il cappellone nero a larghe tese, i calzoni larghi alla zuava e gli stivali
sporchi di terra: quella stessa terra che non lo coprì dopo la morte perché, sepolto in città,
i suoi
resti non vennero recuperati nemmeno quando tale cimitero fu smantellato. Disperso per tutti?
Beh! Dall'elenco dei caduti reggiani per la Resistenza che si legge attualmente nel sacrario sito in
Piazza della Vittoria a Reggio Emilia, sembrerebbe proprio di sì, in quanto il suo nome non vi
appare; inoltre lo sembrerebbe anche dalla bibliografia specialista in materia, compresa quella di
movimento. Ma i monumenti a noi anarchici non interessano e probabilmente allo stesso
Zambonini non interessano, come non gli sarebbe interessato di "passare alla storia". Ciò che
invece ci interessa e ci deve interessare è di far conoscere il più possibile le idee, il pensiero e
l'azione dei compagni scomparsi e a me sembra che quelli di Zambonini siano significativi e
ricchi di quella carica rivoluzionaria necessaria a far comprendere, ulteriormente a noi stessi e,
soprattutto, a coloro i quali a tali idee si avvicinano per diventarne i nuovi portatori e promotori,
che l'anarchia è possibile e che è possibile, fin dalla lotta per raggiungerla/conquistarla, praticare
alcuni suoi principi fondamentali. Il mio impegno, quindi, verso tali compagni dell'oblio e verso
la proposta iniziale si svilupperà, a partire da questo intervento, nel tentare di approfondire la
ricerca sui concetti politici e non, nonché sull'azione di Enrico Zambonini e di iniziare quella più
vasta su altri anarchici reggiani sconosciuti.
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