Incontro Taquias Vergara Vicente detto “Urbano” proprio
all’indomani dell’anniversario del colpo di stato in Cile, l’11
settembre di venticinque anni fa.
Urbano è un rifugiato politico cileno che vive in Italia dal
1975 - oggi ha cinquantatré anni. In questo paese è venuto con
la famiglia, la moglie e i figli; in questo paese ha saputo
darsi, per poter sopravvivere, una nuova professionalità: da
lavoratore del cuoio a operaio saldatore specializzato; in questo
paese ha pagato le tasse in ragione del suo reddito.
In Italia Urbano non ha mai smesso di fare politica.
Dapprima il fulcro della sua attività è stato il Cile, com’era
ovvio che fosse - la solidarietà con i compagni rimasti laggiù.
Poi, a mano a mano che il tempo passava, a mano a mano che la
sua conoscenza della lingua e della realtà italiane migliorava,
il suo lavoro politico ha cambiato direzione.
Il Cile era stato il sogno di una rivoluzione sognata da molti,
in America latina e nel mondo. Un sogno che si era trasformato
nell’incubo della dittatura.
Ma il Cile era stato anche una straordinaria fucina di esperienze
di lotta. Di strategie. Di riflessioni, spesso anche molto amare.
Urbano non aveva nessuna intenzione di dimenticare. La vita
continuava e la vita adesso era in questo paese, in Italia.
Di qui la decisione di prendere parte attiva, negli anni Ottanta,
alle lotte ambientaliste di Massa Carrara contro l’inquinamento
della Farmoplant-Montedison e contro l’inquinamento chimico
in Val Bormida. Di qui la decisione, più tardi negli anni Novanta,
di mettere in piedi un comitato di immigrati che lavorasse non
solo alla denuncia, ma anche alla creazione concreta di spazi
di esistenza dignitosi per tutti quegli extracomunitari che
fino a quel momento, in Alessandria e provincia, dove Urbano
nel frattempo si era trasferito, avevano rappresentato nient’altro
che un comodo serbatoio di lavoro nero. Buon lavoro nero in
cambio di panchine, stamberghe, affitti alle stelle. Lavoro
nero a buon mercato in cambio di indifferenza, quando andava
bene, altrimenti: xenofobia.
Poi, il 17 maggio 1995, dopo vent’anni di permanenza in questo
paese, Taquias Vergara Vicente detto “Urbano” chiede la cittadinanza
italiana.
Invano!
La sua istanza viene respinta perché sarebbero “emersi nei confronti
dell’interessato motivi ostativi ai fini della sicurezza della
Repubblica”. La Repubblica italiana.
Lo dichiara il ministro dell’interno, il diessino Giorgio Napolitano,
in risposta all’interrogazione parlamentare che in proposito
gli è stata inoltrata dal senatore Giovanni Russo Spena.
Eppure la documentazione presentata da Urbano risultava ineccepibile,
la sua fedina penale pulita.
Che cosa è successo allora?
È successo che al ministero dell’interno è pervenuta una nota
del Dipartimento della P.S. - Ufficio Stranieri “da cui emergono
elementi tali da non ritenere opportuna la concessione della
cittadinanza” al signor Taquias Vergara Vicente.
Perché?, ha domandato Urbano.
“... in relazione all’esigenza di salva guardare l’ordine pubblico
e la prevenzione e repressione della criminalità ... gli elementi
documentali prodotti dai competenti organi di pubblica sicurezza
sui quali è stato fondato il rigetto dell’istanza di concessione
della cittadinanza” non sono accessibili. Questa la risposta.
Gliel’ha cortesemente fornita il ministro stesso.
Dunque: ci si rivolge allo stato presentando un’istanza - la
documentazione richiesta è completa e a norma di legge; lo stato
ricusa l’istanza sulla base di un’informativa della polizia;
il richiedente chiede di conoscere i contenuti della nota compilata
dai funzionari di pubblica sicurezza - d’altronde lo si accusa
di essere un pericolo per la Repubblica!; e lo stato italiano
che fa?
Per bocca del suo ministro dell’interno risponde che no, proprio
non lo si ha il diritto di sapere per quale ragione si è ritenuti
pericolosi. Risponde che la cittadinanza non può essere concessa,
punto e basta.
Il caso ha voluto che incontrassi Urbano proprio un quarto di
secolo dopo il colpo di stato che ha sconvolto il suo paese
d’origine.
I giornali sono pieni di commemorazioni.
... che bei tempi quelli del Cile, te li ricordi? ... erano
gli anni Settanta, come eravamo giovani... e Allende? te lo
ricordi Salvador Allende?... la rivoluzione... el pueblo unido
jamas sera vencido...
Tra i suoi senatori a vita con pieni poteri, oggi il Cile annovera
il generale-dittatore Augusto Pinochet. Leggo che il miracolo
economico cileno sarebbe un’illusione: “un quarto del paese
vive in assoluta povertà e un terzo della nazione guadagna meno
di 30 dollari alla settimana” [Cile 98. Falso miracolo di Marc
Cooper in Diario della settimana, Anno III, n.36].
Poi mi cade l’occhio su una lettera di Leoluca Orlando pubblicata
da il Manifesto [09.09.98] e indirizzata a Giorgio Napolitano.
È giusto in materia di migrazione e politica di asilo, manco
a farlo apposta!
Stando allo scrivente, in data 1 luglio 1998 la presidenza austriaca
avrebbe varato in sordina “una proposta di documento strategico”
dove “si mette in discussione e si smentisce la Convenzione
di Ginevra (!) che sancisce il diritto di asilo come diritto
individuale”.
Peccato che poco più in là Orlando smentisca la sua buona fede
e abbia la spudoratezza di aggiungere che “il trattato di Schengen
è ispirato all’abbattimento di muri e recinti per la circolazione
delle persone...”.
Un pò di odierno Cile, un pò di odierna Italia. Così, mentre
gli Inti Illimani rinverdiscono ancora una volta il mito della
rivoluzione cilena al Festival dell’Unità - non dimenticando
di invitare i presenti all’acquisto della loro ultima fatica
-, mentre Salvador Allende entra nella rosa dei candidati alla
beatificazione, mentre Enrico Deaglio si chiede “se la lezione
del Cile abbia portato frutti, se questi siano amari o dolci,
chi lo sa?”, mi domando se questo Cile di oggi e questa Italia
di oggi siano poi così lontani. “In fin dei conti, ce la siamo
cavata.”, riepiloga Deaglio, sibillino, in merito alle vicende
di quegli anni. Di quel golpe.
[v. Diario, cit.]
Non si può dargli torto.
In merito a quegli anni, in merito a quel golpe, in quanti se
la sono cavata?
E.S.
Un
nome di battaglia
... Sto parlando del ’69, quando in Cile ci fu un massacro
di pobladores. I pobladores erano persone che non avevano niente,
famiglie intere che occupavano le terre del demanio nel Sud
del Cile, a Punta Arenas. Ci fu un ministro - Sujovic - che
ordinò lo sgombero di questa gente... Ne venne fuori un massacro,
dodici morti. A quei tempi in Cile c’era il MIR [sinistra rivoluzionaria
n.d.r.]. Ma anche altre organizzazioni rivoluzionarie.
Un blocco di queste si trasferì a Santiago... ...
Tu sei di Santiago?
Sì, io sono nato a Santiago.
Quindi ci siamo ritrovati con questi giovani rivoluzionari che
venivano dalle università del Sud. Anarchici, trotzkisti, libertari,
in polemica col MIR.
A quei tempi si faceva attività politica nelle fabbriche, io
lavoravo nel settore calzaturiero e militavo con gli anarcosindacalisti
- mio padre [Manuel Taquias n.d.r.] era stato tra i fondatori
del sindacato anarchico cileno del cuoio...
... Provieni da una famiglia anarchica?
Sì. Come ti dicevo, nei primissimi anni Settanta si partecipava
alle lotte per l’occupazione delle terre. E si lavorava già
in semiclandestinità.
Il nome “Urbano”, che poi mi è rimasto, risale proprio a quel
periodo. Di solito cercavamo un nome di battaglia che ricordasse
qualcuno che aveva dato la vita alla causa del popolo.
A quel tempo era ancora vivo un Urbano che militava nell’Esercito
Rivoluzionario del Popolo, in Argentina. E poi c’era l’Urbano
che aveva fatto la guerriglia col “Che”, uno dei sopravvissuti
al massacro di Guevara in Bolivia...
... Nel ’69 sei entrato in clandestinità...
... Sì, siamo entrati in clandestinità perché non si sapeva
ancora quali sarebbero state le sorti di Unidad Popular [l’Unidad
Popular, costituita nel ‘69, comprendeva i partiti comunista,
socialista, socialdemocratico e radicale, una fetta di democratici
cristiani scissionisti (MAPU) e l’API (Alianza Popular Independiente)
n.d.r.].
Senza contare che erano molto attivi anche tutta una serie di
movimenti di destra, dei quali si poteva intuire fin da allora
l’obiettivo, cioè un golpe da attuarsi con il sostegno americano.
Il colpo di stato del ’73 non fu una novità per noi, gli Americani
vi avevano sempre lavorato.
L’I.T.T., la multinazionale americana International Telegraph
and Telephone, col suo giro d’affari di 8,5 miliardi di dollari
nel mondo, tra i più grandi investitori in Cile (153 milioni
di dollari), finanziò la campagna elettorale di Nixon con 400.000
dollari...
L’I.T.T. aveva investito in tutta l’America Latina.
Com’era strutturato il vostro lavoro politico?
Principalmente occupavamo le terre. Santiago era ed è una
città molto popolosa, un terzo dei cileni vive nella capitale
[nel giugno 1970 i cileni erano 9,7 milioni, 3,2 milioni dei
quali vivevano a Santiago n.d.r.].
Quindi c’erano delle terre da occupare...
... In Cile l’edilizia popolare era inesistente, c’era bisogno
di conquistare degli spazi. La gente si aggregava in comitati
di occupazione e cercava di stabilirsi nelle terre del demanio,
dei latifondisti. I quartieri di Santiago sono sempre nati così
e la zona Sud della capitale era la più affollata.
C’era il famoso quartiere de La Victoria...
... C’erano La Victoria, La Legua... Io vengo proprio da La
Legua, un quartiere che è nato negli anni ’50, praticamente
un quartiere di deportati. Tutti quelli che avevano sostenuto
delle battaglie politiche negli anni precedenti erano infatti
finiti qui, erano stati cacciati fuori dalla città - La Legua
allora era molto in periferia. C’erano comunisti, socialisti,
trotzkisti, anarchici. Con le famiglie. Una parte del quartiere
era stata occupata, una parte acquistata. Ed era all’avanguardia
in tutte le lotte sociali. Tutte le occupazioni a Sud di Santiago
venivano organizzate dai figli di quegli operai che erano stati
perseguitati durante i regimi dittatoriali precedenti [nel 1952
il Cile era nuovamente governato dal dittatore Carlos Ibanez
del Campo, che era già stato al potere nel ‘26 quando, in qualità
di ministro della guerra, aveva costretto alle dimissioni il
presidente liberale Figueora n.d.r.].
La storia politica del ‘900 in Cile è alquanto movimentata,
è stato tutto un avvicendarsi di presidenti...
... In Cile sono sempre stati al potere i militari. E sono
al potere ancora oggi.
E la repressione?
La repressione era fortissima, perché come tu arrivavi ad occupare
la terra ti trovavi subito di fronte l’esercito.
Com’era la strategia di resistenza?
Si era consapevoli che bisognava resistere a tutti i costi,
scontrarsi con loro fino ad ottenere di rimanere.
Eravate armati?
No, ci si difendeva con i bastoni, con quello che si aveva.
A sostenerci era più che altro la volontà di non essere mandati
via. Perché non si aveva dove tornare.
A queste lotte partecipavano anche tutti i quartieri vicini.
Azioni
illegali
Perché tu e i tuoi compagni, alcuni anche comunisti rivoluzionari,
non vi riconoscevate nel MIR?
Perché noi avevamo una visione diversa della rivoluzione.
Noi in fondo eravamo più autogestionari, non accettavamo questa
direzione centralista, marxista. Eravamo nati lì, vivevamo in
questi quartieri. Vivevamo quella realtà di miseria sulla nostra
pelle.
Comunque, pur non avendo una strategia nazionale, eravamo molto
solidali con tutta la sinistra cilena. Eravamo presenti nell’occupazione
delle fabbriche, agli scioperi, nei contratti nazionali... Ci
muovevamo già allora in uno stato di illegalità. Il nostro Paese,
infatti, non ci riconosceva alcun diritto. Non avevamo niente.
Quando sono venute le elezioni del ‘70, Santiago era circondata
da accampamenti di pobladores. Dopo la vittoria di Salvador
Allende, questi occuparono i nuovi quartieri in costruzione
che il precedente governo Frei aveva destinato alla piccola
borghesia, al ceto medio.
Io ed altri compagni ci installammo in un quartiere militare,
destinato a pensionati dell’aviazione...
... Che si chiamava?
Si chiamava “la poblacion Guatemala”. La gente ci vive ancora
oggi.
Come giudicavate allora, tu e i tuoi compagni, il programma
economico di Unidad Popular? avevate discusso, per esempio,
la questione della nazionalizzazione delle risorse cilene che
il governo Allende si proponeva di portare a compimento?
Il problema del governo Allende era un altro.
Sì, il governo Allende intendeva lavorare alla nazionalizzazione
dell’economia - e in questo senso alcune cose sono state anche
realizzate -, ma subito dopo la presa del potere, il presidente
ha dovuto negoziare il suo programma da cima a fondo con la
De-mocrazia Cristiana. Dopo le elezioni, il numero delle imprese
da nazionalizzare è stato notevolmente ridimensionato.
Per “nazionalizzazione” noi invece intendevamo un’altra cosa.
Non ci importava niente che le fabbriche fossero monopoliche...
Intanto le avevamo occupate. Tutti i luoghi di lavoro erano
in mano ai lavoratori. E questo contrastava fortemente con il
programma economico ufficiale di Unidad Popular.
Le nostre azioni venivano viste dal nuovo governo della sinistra
come illegali. Mentre noi indirizzavamo la lotta in un certo
senso, Allende cercava di frenarla. Con la repressione.
Per tre anni Salvador Allende ha cercato di garantire alla borghesia
che in Cile non ci sarebbe stata rivoluzione...
... Perché gli investitori stranieri, la borghesia cilena
non si spaventassero troppo di fronte a questo programma economico...
... Era un continuo richiamarsi “al popolo in divisa che difenderà
la Costituzione”. Fatto sta che poi Allende ha chiamato Pinochet.
Era totalmente assurdo: da una parte si stava vivendo una situazione
rivoluzionaria, dall’altra il governo cercava di mantenere una
legalità che non era la nostra a tutti i costi.
Era l’unità dei politici, dei borghesi, dei capitalisti dell’America
Latina. E dell’America del Nord.
... E l’Europa? cosa vi arrivava dall’Europa in quel periodo?
dai partiti comunisti di allora, dai socialisti, dagli anarchici?
Di quello che si pensava del nostro progetto fuori del Cile
non ci eravamo per niente preoccupati. Con gli europei non c’era
alcun contatto. O meglio: i contatti li avevano alcune organizzazioni
ufficiali come il Partito Comunista e il Partito Socialista.
Noi che eravamo nei quartieri, nelle fabbriche, eravamo ben
lontani da questo.
Anzi, quando in Italia c’era Saragat, si credeva che da voi
fossero al governo le sinistre! Si era disinformati, si pensava
solo al nostro, di progetto rivoluzionario.
E con gli altri Paesi dell’America Latina?
Eravamo molto, molto vicini. Coi peruviani, coi boliviani,
con gli argentini c’era una solidarietà grandissima... Il Cile,
nei primissimi anni Settanta, era pieno di rifugiati. Ai quali,
peraltro, non veniva quasi mai concesso asilo politico.
Questa gente si nascondeva nei nostri quartieri e partecipava
direttamente alle nostre lotte, senza preclusioni.
Prima stavi dicendo della repressione del governo di Unidad
Popular nei vostri confronti...
... Il problema più grosso lo ha creato proprio il parlamento
cileno, due anni dopo l’insediamento di Allende, quando ha approvato
la legge sul controllo delle armi.
La presidenza di Camera e Senato era nelle mani della Democrazia
Cristiana fin dal ’71...
... Nel Paese, tra destra e sinistra, c’erano molti scontri
a fuoco, era un periodo di grande tensione.
Si era di fronte a uno stato di aggressione permanente dei sindacati,
di tutte le iniziative popolari.
Questa legge sul controllo delle armi, che in apparenza era
stata fatta per disarmare la destra, fu applicata invece soltanto
contro di noi. Furono perquisiti tutti i quartieri, le sedi
sindacali...
... Dall’Italia scrivevamo articoli sul Cile, contro la repressione
dei militari, parlando della resistenza che c’era laggiù. Abbiamo
pubblicato le fotografie dei morti massacrati [vedi El amigo
del pueblo n.0/1986, pubblicato a Carrara a cura del Comitato
dei lavoratori cileni libertari in esilio n.d.r.].
Come siete riusciti a reperire il materiale fotografico?
Ci è arrivato direttamente dal nostro Paese, da amici. Nascosto
tra le pagine di una rivista.
Durante la dittatura di Pinochet, siete riusciti a mantenere
i contatti con i compagni anarchici rimasti in Cile?
Sì, dall’Italia si portò avanti una grande campagna di solidarietà
con il movimento anarchico cileno e facemmo anche in modo che
alcuni di loro potessero venire qui a tenere delle conferenze.
Intanto in Cile la repressione continuava...
... Ferocemente. Contro tutti quelli che si opponevano al
regime.
Le formazioni politiche presenti in Cile oggi sono le stesse
di allora. Però adesso sono ancora più deboli...
Perché?
Perché in Cile si è creata una situazione molto particolare.
Si è imposto un regime economico che ha portato il Paese ad
una crescita molto grossa che ha arricchito una parte della
popolazione...
Con
l’aiuto della gente
... Per quanto riguarda le iniquità nella distribuzione
del reddito, le relazioni sulla situazione economica del Cile,
quelle più recenti, danno il Paese a livelli africani. Dell’Africa
più povera.
La maggior parte della popolazione vive in condizioni di povertà
assoluta. È stato privatizzato praticamente tutto: le scuole,
la salute, l’assistenza. Chi è fuori da questo sistema non ha
alcuna possibilità. E fuori da questo sistema ci sono più o
meno sei milioni di persone, circa metà della popolazione del
Cile.
Chi ancora fa politica si trova...
... Si trova a dover affrontare tutti i problemi del dopo dittatura.
Comunque in Cile, se vuoi fare politica oggi, devi continuare
a stare molto attento. Il sistema di “collaborazione” con gli
organi della repressione resta infatti capillare, non è mai
venuto meno.
La sinistra è molto debole, anche a livello istituzionale -
con l’approvazione delle nuove leggi è molto difficile riuscire
ad ottenere una rappresentanza consistente in Parlamento.
Ma del resto la sinistra cilena non è mai stata maggioritaria,
neppure ai tempi di Allende. Il suo consenso si è sempre aggirato
intorno a percentuali del 35, 40%.
Ritorniamo un momento indietro, alla tua storia.
Mi dicevi che tu e i tuoi compagni siete tornati nuovamente
in clandestinità sotto il governo Allende...
... Siamo stati costretti alla clandestinità. Il governo della
sinistra ci perseguitava.
Come ti dicevo nel ’70, dopo la vittoria di Unidad Popular,
mentre Salvador Allende negoziava il suo programma economico
con l’opposizione, noi operai delle grosse città occupammo le
fabbriche, i contadini le terre - e d’altra parte Allende lo
aveva sempre detto: “la terra ai contadini!”...
Ma c’era anche un altro grosso problema in Cile, che si era
verificato subito dopo l’insediamento del nuovo governo di sinistra:
il mercato nero. Sì, Allende aveva aumentato gli stipendi di
molto, però la cosa non aveva quasi nessun valore nella pratica.
I prezzi erano esorbitanti, impossibili.
Allora noi, a Santiago, mettemmo in piedi un’organizzazione
autogestita di distribuzione diretta dei generi alimentari di
prima necessità. Per fare questo, avevamo occupato i centri
di smistamento di viveri della capitale, i supermercati, i magazzini,
in una vera e propria guerra al mercato nero.
Con l’aiuto della gente dei quartieri riuscivamo ad imporre
dei prezzi accessibili.
Su questa cosa Allende non era affatto d’accordo, voleva gestire
la distribuzione degli alimenti con una organizzazione che si
chiamava La Jap (Junta del Abatecimiento y pecio).
Ci trovammo contro il Partito Comunista, il Partito Socialista.
Ci diede addosso il presidente...
... E il MIR?
Il MIR era a favore, partecipava attivamente.
Ad un certo punto, a Santiago, eravamo riusciti a mettere in
piedi 32 centri di distribuzione diretta.
Un’organizzazione molto estesa...
La battaglia contro il mercato nero era molto sentita, molto
partecipata. Questa partita con noi, Allende ha cercato di chiuderla
fino all’ultimo.
In che modo?
Facendoci cercare dalla polizia. Era proprio una questione
fisica: volevano farci fuori. Ci furono parecchi scontri, sia
con la polizia che con i comunisti.
Come si chiamava la vostra organizzazione?
Non c’era una sigla... Però eravamo in tutti i quartieri.
Gli scontri...
... Gli scontri erano più che altro con la sinistra, con la
destra era normale. Il governo ci identificava col MIR - allora
infatti non esisteva un’organizzazione specifica degli anarchici.
Gli anarchici, i libertari partecipavano alle battaglie politiche
direttamente, ognuno dove si trovava.
Quando poi in Europa ho potuto leggere della guerra di Spagna,
della guerra civile, ho riscontrato molti punti in comune con
quello che era stato tentato in Cile. In particolare sulla questione
della collettivizzazione...
La clandestinità sotto il governo Allende significava per
voi...
... Che ci preparavamo a combattere di nuovo!
Intanto perché il governo di Unidad Popular voleva farci fuori
- in quanto radicalizzavamo la lotta - e poi, ovviamente, perché
la destra non aveva mai smesso di attaccarci.
Inoltre sapevamo che si stava preparando un colpo di stato.
Da una parte agivamo in clandestinità, dall’altra continuavamo
la nostra attività politica nei quartieri come dirigenti di
base.
Siamo passati dal golpe alla resistenza direttamente e molti
di noi sono sopravvissuti proprio grazie a queste organizzazioni
clandestine attive fin da prima. Il massacro più grosso, infatti,
è stato perpetrato proprio contro gli operai. Che non avevano
nessun tipo di difesa. E tutto è stato fatto subito, nei primi
giorni della dittatura.
Nello
stadio
I militari erano entrati a far parte del governo Allende
già nel ’72 con il generale Carlos Prats, comandante in capo
dell’esercito, che ottenne il ministero dell’interno. Successivamente
il sesto gabinetto del governo di Unidad Popular inglobò tutti
e tre i comandanti delle armi cilene (l’Ejercito, la Fach, l’Armada).
Era l’agosto del ’73.
Allende li ha fatti entrare perché la destra si appellava in
continuazione all’esercito, l’opposizione riteneva che il presidente
avesse violato la costituzione e che bisognasse quindi “ripristinare
l’ordine”.
I primi risultati di questa operazione furono che i militari
pretesero, in qualità di ministri, che le fabbriche venissero
sgomberate e restituite ai padroni.
Poi, con la scusa del controllo delle armi, la nostra organizzazione
di distribuzione di generi alimentari venne ostacolata rimanendo
comunque in piedi fino alla caduta di Unidad Popular. Ma tutto
era cominciato molto prima.
Quando Allende ci chiamò a raccolta per difendere il palazzo
presidenziale [il riferimento è al 28 giugno ’73, quando un
reggimento blindato tentò di conquistare La Moneda n.d.r.],
la situazione in Cile era già chiara: o la guerra civile o il
golpe. Quella volta chiedemmo al presidente di distribuire le
armi. Non lo fece. Fu per questo che noi dei quartieri popolari
non rispondemmo al suo appello.
Allende era il solo a non voler vedere in faccia la realtà.
Continuava a ripetere che in Cile non ci sarebbe mai stato colpo
di stato. Continuava con la sua politica di disarmare la gente.
Invece tutti in Cile sapevano che il colpo di stato sarebbe
venuto. Lo sapevano i comunisti, i socialisti. Lo sapeva il
MIR. Che era molto preparato alla resistenza - loro combatterono
i militari immediatamente, pagando un prezzo altissimo.
Noi dirigenti di base dei quartieri abbiamo fatto le barricate
con quello che avevamo. Ma non era certo sufficiente ad affrontare
un esercito. E neanche ad affrontare una guerra civile.
Con i nostri mezzi potevamo al massimo difenderci dai fascisti,
niente di più.
Quando sei stato arrestato?
Mi hanno arrestato il 27 settembre del ‘73. Mi hanno portato
in un campo di concentramento dell’aviazione, a Santiago, e
poi di lì mi hanno trasferito allo stadio nazionale.
Quanti eravate?
Non ho idea, lo stadio era pieno.
Cosa succedeva?
Vicino allo stadio nazionale c’è un velodromo, il centro torture
era stato impiantato lì. Avevano diviso la gente a seconda dei
quartieri di provenienza - io ero con altri 32. Ci torturavano
praticamente per quartiere. Volevano avere nomi, informazioni.
Fin dall’inizio ci siamo resi conto, però, che la gente resisteva,
non collaborava per niente. E tra noi c’era anche molta solidarietà,
si cercava di non dare fiato ai militari. Anche perché non si
sapeva se avevamo perso o meno.
Eravate tagliati fuori dal mondo...
... Era stato così anche quando avevamo iniziato la resistenza:
non sapevamo quello che stava succedendo.
Ogni quartiere combatteva per conto suo, senza una direzione
- in quei giorni, dei responsabili nazionali dei partiti di
governo non si trovava nessuno.
Ogni quartiere di Santiago cercava di resistere pensando che
anche gli altri stessero facendo la stessa cosa. Mentre invece
da altre parti non si stava magari facendo nulla, semplicemente
perché mancavano i mezzi...
Quanto tempo sei rimasto nello stadio nazionale di Santiago?
Dodici giorni.
E poi cosa è successo?
I primi giorni di ottobre è arrivata in Cile una commissione
dell’ONU. Per i massacri dello stadio nazionale, per la questione
dei diritti umani. Per fermarla...
... Per fermare questa intrusione...
... Pinochet ha pensato di fare un’operazione d’immagine.
Ha cominciato a liberare 200, 300 persone alla volta.
Si usciva dallo stadio con un certo documento. Con quello ci
si sarebbe dovuti presentare poi alla caserma del proprio quartiere
[Urbano me lo mostra. Il documento è intestato “Ejercito de
Chile, Campamento de detenidos “Estadio Nacional” e l’ordine
di rilascio è firmato dal generale Jorge Espinoza Ulloa n.d.r.].
Era tutta una montatura! Una volta che ci fossimo presentati,
ci avrebbero ripresi in tutta comodità per spedirci nei campi
di concentramento su al Nord. Oppure in quelli del Sud. O anche
sulle navi da guerra della marina militare cilena dove nessuna
commissione internazionale sarebbe mai potuta arrivare.
Hanno ammazzato centinaia di persone così.
E tu cosa hai fatto?
Una volta fuori sono passato di nuovo alla clandestinità.
Sono andato dove lavoravo e mi sono fatto dare dal padrone,
che nel frattempo mi aveva licenziato e non voleva saperne,
i soldi che mi spettavano e i materiali che mi servivano per
riprendere la mia attività di calzolaio - da clandestino ho
tirato avanti facendo scarpe per bambini.
Intanto si continuava a lavorare all’organizzazione della resistenza.
Ma le cose erano molto più difficili rispetto a prima. Non si
combatteva già più da nessuna parte e nei quartieri dove eravamo
conosciuti la gente aveva paura della nostra presenza. Quando
arrivava, l’esercito non si limitava a perquisire qualche casa:
setacciava tutto un quartiere, gli uomini venivano rinchiusi
nei campi sportivi. Era ovvio che la gente avesse paura di noi...
Aveva paura che i militari ci trovassero e facessero una carneficina.
La complicità di prima non esisteva più.
Facendo trovare cadaveri dappertutto, i militari erano riusciti
a raggiungere il loro scopo: si viveva nel terrore.
Poi, piano piano, la destra ha iniziato ad essere sempre più
forte. In tutti i quartieri c’erano spie, la polizia segreta
era dovunque. La gente ha cominciato a collaborare con i militari.
Per noi non si trattava più, a questo punto, di fare la resistenza,
ma di salvare la pelle. Cominciavamo a contarci ed eravamo pochi.
Molti erano morti, molti erano nei campi di concentramento.
Alcuni avevano scelto l’esilio.
Ecco: l’ambasciata italiana in Cile... Raccontami come ci
sei arrivato.
È stata una vicenda strana. Perché io non pensavo di lasciare
il mio Paese, volevo restare e continuare la mia esperienza
lì.
Dei compagni con i quali avevo fatto politica fin dal ‘69 eravamo
rimasti in quattro... A un anno dal golpe ci decidemmo per l’esilio.
Abbiamo preso le nostre donne, i bambini, tutte le donne e i
bambini dei compagni che erano prigionieri, e li abbiamo aiutati
ad entrare nell’ambasciata italiana. Perché noi l’abbiamo occupato,
questo spazio.
[Le relazioni diplomatiche con il Cile sono state interrotte
dal-l’Italia il 31 dicembre 1973. La ripresa ufficiale dei rapporti
diplomatici è del 7 aprile 1989, con l’insediamento dell’ambasciatore
Michelangelo Pisano Massamormile n.d.r.]
Quale fu l’atteggiamento dell’ambasciata italiana nei confronti
dei cileni che cercarono asilo subito dopo il golpe?
L’ambasciata italiana collaborava con i militari, collaborava
con la giunta. E anche il personale dell’ambasciata era quasi
tutto di destra. Ma l’ambasciata italiana accolse i rifugiati?
No, loro non aprirono le porte a nessuno. Collaborarono, anzi,
con la dittatura facendo catturare dei compagni che volevano
scappare. Una volta presi gli accordi per accoglierli, invece
di rispettarli, i funzionari italiani avvertivano la polizia.
Davvero
a Carrara?
... Eravamo senza difesa [all’interno dell’ambasciata italiana
n.d.r.]. Non so perché i militari non entrarono, forse perché
la violazione sarebbe stata troppo eclatante. Venivano solo
quelli dell’ONU, ci portavano da mangiare con un camioncino...
Allora gli italiani non collaborarono affatto?
Con noi no. Nessuno.
Erano di destra. Noi eravamo tutti di sinistra e sapevamo, inoltre,
che collaborando con i militari loro si erano resi responsabili
della morte di alcuni compagni.
Quanto siete rimasti nell’ambasciata italiana?
Più di quattro mesi, ma c’era gente che ci era stata quasi
un anno. La giunta non voleva saperne di lasciarci andare.
Quando hanno deciso di portarci in Italia... Però noi non avevamo
chiesto asilo politico a questo Paese...
E come è stato che siete arrivati qui?
In fondo il governo italiano voleva sbarazzarsi di questa
situazione. Noi eravamo una testimonianza vivente che in Cile
i diritti umani e politici erano continuamente violati e che
era in corso un massacro. Il governo italiano aveva interrotto
le relazioni diplomatiche, è vero. Ma le relazioni economiche
non erano mai state messe in discussione. La nostra presenza
dava quindi fastidio.
L’asilo politico, poi, l’Italia non l’ha mica concesso a tutti!
Prima della legge Martelli, lo status di rifugiato politico
veniva riconosciuto soltanto a chi proveniva dai Paesi dell’Est.
Una volta qui, quelli tra noi che avevano militato nelle fila
del Partito Comunista o in quelle del Partito Socialista cileni,
o anche i militanti del MIR, trovarono delle sponde nei partiti
italiani. Chi invece, come me, non aveva mai avuto un riferimento
politico specifico si trovò in grosse difficoltà.
Arrivò addirittura notizia al ministero dell’interno, da parte
della sinistra cilena, che noi eravamo in realtà dei delinquenti
comuni, il che complicò ulteriormente le cose.
Siccome eravamo in parecchi ad essere in questa situazione,
per ottenere il riconoscimento dell’asilo decidemmo di mettere
in piedi un comitato. A Grottaferrata. Avevamo avuto l’appoggio
del Partito Radicale, la faccenda era arrivata anche a Ginevra...
Però in tanti, col tempo, si stancarono.
Lasciarono l’Italia.
Ho letto che in tutto si trattò di tremila rifugiati...
Sono stati molti di più. Se riuscivi a dimostrare che nel tuo
Paese eri stato comunista, allora in Italia eri amico dei comunisti;
se riuscivi a dimostrare che eri stato socialista, allora si
davano da fare i socialisti. Ma se solo avevi fatto parte di
una organizzazione minore, un’organizzazione che si era magari
mostrata critica nei confronti del governo Allende, ti ritrovavi
tutte le porte chiuse.
Sei entrato subito in contatto con gli anarchici italiani?
Quando sono arrivato a Carrara - nella mia famiglia, in Cile,
si era sempre parlato di Barcellona, di Carrara, degli anarchici
di questi posti...
I comunisti cileni ai quali veniva riconosciuto l’asilo politico
andavano a Bologna, i socialisti a Milano.
Davanti alle autorità italiane, o in altre sedi, io non mi ero
mai dichiarato anarchico, ma quando mi hanno chiesto dove volevo
andare, ho detto che volevo andare a Carrara.
Ma come a Carrara?, mi è stato chiesto. Sì, voglio andare a
Carrara, ho risposto. E ci sono andato. È stato lì che ho preso
i primi contatti con gli anarchici italiani.
Sei arrivato in Italia nel ’75. Quando sei intervenuto pubblicamente
per la prima volta sui temi dell’immigrazione e del diritto
alla cittadinanza, in occasione delle celebrazioni per il sessantesimo
anniversario dell’assassinio di Sacco e Vanzetti [V.”Profughi
ed emigrati tra razzismo e legge” in Notiziario dell’Istituto
Storico della Resistenza in Cuneo e Provincia N.33], abitavi
e lavoravi qui da dodici anni. La polizia italiana ti stava
già alle costole. Non avevo mai smesso di fare attività politica
per il Cile... ...
Come lavoravi dall’Italia?
Più che altro lavoravamo alla costruzione di progetti concreti,
alla creazione di cooperative di lavoro e di sopravvivenza per
gli amici che erano rimasti in Cile. Eravamo riusciti a mantenere
i contatti con i quartieri dai quali provenivamo. E anche con
alcuni compagni nelle fabbriche.
Raccoglievate denaro?
Sì, raccoglievamo dei fondi. Con i portuali di Carrara bloccammo
le navi cilene...
... Anche a Genova era successo, vero?
Sì, sia a Genova che a Carrara. Mi ricordo che con i soldi
raccolti in quell’occasione si comprarono delle macchine da
cucire per una cooperativa di donne...
Tutte queste iniziative erano state promosse da noi, da questo
comitato di lavoratori cileni della zona di Carrara.
Nei confronti delle organizzazioni che rappresentavano la resistenza
ufficiale del Cile noi mantenevamo infatti delle posizioni molto
critiche. Come prima del golpe, non avevamo mai smesso di ritenere
la sinistra ufficiale cilena corresponsabile della sconfitta.
Siamo intervenuti più volte anche sulla questione della trasparenza.
Abbiamo denunciato più di una volta che i soldi raccolti dal
“Cile democratico” non erano mai arrivati alla resistenza.
Per quanto ci riguardava abbiamo voluto cambiare sistema: facevamo
arrivare il denaro direttamente, tramite compagni italiani.
Senza intermediari...
Senza intermediari. Senza passare da queste organizzazioni
mastodontiche...
Quella per il Cile è stata una delle campagne di solidarietà
più lunghe e più ricche. Sono stati pubblicati centinaia di
libri a favore della lotta del popolo cileno; per la rivoluzione
ci sono state raccolte di soldi in tutto il mondo. Una rivoluzione
che in fondo non c’era.
Non c’era?
Non c’era. Perché aveva vinto la destra. Si trattava solo
di fare in modo che quelli che erano rimasti là potessero sopravvivere.
Ormai era una questione di pura e semplice sopravvivenza.
Perché lo stato italiano, tramite la polizia, ti teneva
d’occhio? Continuare ad occuparti del tuo Paese era un tuo diritto
in fondo...
Quello che gli dava fastidio era la nostra radicalità. Nel
senso che noi accusavamo anche l’Italia, la Democrazia Cristiana
italiana, di avere avuto la sua parte nel golpe cileno.
Le borghesie occidentali erano state tutte conniventi.
Non per niente, al tempo del governo Allende, le navi cariche
di rame venivano sequestrate proprio ad Amsterdam, e questo
per favorire gli Americani che vi reclamavano un diritto di
proprietà.
Inoltre, per quanto mi riguarda, facevo anche molta attività
politica insieme agli anarchici. Abbiamo portato avanti una
campagna di solidarietà con il movimento anarchico cileno durata
tre anni, una campagna promossa dal nostro comitato.
Tra l’altro in Toscana eravamo pochissimi, tutti operai.
Rispetto a quella degli esuli che stavano a Roma, a Milano o
a Bologna, e che rappresentavano la resistenza ufficiale, la
nostra posizione era senza dubbio più radicale. Mentre loro
venivano sostenuti, anche economicamente, dalla sinistra italiana,
la situazione per noi era invece molto pesante. Non avevamo
mezzi, ognuno si doveva muovere a sue spese.
Gli
anni “di piombo”
Ad un certo punto sono iniziate le perquisizioni...
... Ad un certo punto la polizia è riuscita a definire che
ero un anarchico - a quell’epoca era in corso una repressione
fortissima contro gli anarchici. Un compagno cileno finì in
galera. E ci è rimasto quattordici anni.
Come si chiamava?
Juan Soto Paillacar [vedi Umanità Nova, 21 dicembre 1986 n.d.r.].
Alla fine abbiamo scoperto che questo ragazzo non c’entrava
niente.
Che fine ha fatto?
Juan si è fatto qui quattordici anni di carcere, poi è tornato
in Cile.
La polizia mi teneva d’occhio perché ero anarchico e perché
partecipavo attivamente alle lotte locali, a Massa Carrara,
per la questione della Farmoplant, dell’inceneritore [le lotte
ambientaliste contro la Farmoplant-Monte-dison cui fa riferimento
Urbano sono ampiamente documentate dalle pagine locali e non
di tutti i quotidiani toscani e nazionali n.d.r.].
Sono andato parecchie volte a tenere dei comizi anche in Val
Bormida [contro l’ACNA di Cengio n.d.r.]...
... Cominciavi quindi ad interessarti delle questioni più
specificatamente italiane...
... Sì, accanto al lavoro di solidarietà con i compagni latino-
americani e di denuncia del governo italiano che non voleva
riconoscergli l’asilo politico, cominciavo ad interessarmi di
quello che succedeva qui.
Dicevamo delle perquisizioni...
Erano gli “anni di piombo”, del terrorismo, e chiunque venisse
sospettato di essere un rivoluzionario veniva inevitabilmente
sottoposto a tutta una serie di provvedimenti.
Hanno incominciato a perquisirmi la casa con il pretesto che
potevo nascondere armi, esplosivi. Con la scusa di indagini
di cui peraltro non ho mai saputo niente. E me ne hanno fatte
parecchie, di perquisizioni... Senza risultato.
Dai processi che ti sono stati intentati per la tua partecipazione
politica alle lotte ambientaliste di Massa Carrara sei uscito
sempre a testa alta: una volta con un non luogo a procedere
per non aver commesso i fatti che ti erano stati imputati, un’altra
assolto perché il tribunale di Massa ritenne la protesta tua
e dei tuoi compagni legittima [le date di deposito delle sentenze
risalgono, rispettivamente, al 28.01.’91 e al 28.03.’92 n.d.r.]...
... Alla fine degli anni Ottanta, quando mi era già stato
intentato il processo per la questione della Farmoplant e mentre
prendevo i primi contatti con un gruppo di immigrati di Alessandria,
la Digos di Massa preparò un dossier a mio carico da inviare
al procuratore della repubblica di Genova.
Secondo loro, io e i compagni che avevano partecipato alle lotte
ambientaliste eravamo dei facinorosi, degli istigatori, dei
terroristi.
... A due giorni dal famoso incidente, c’erano stati in piazza,
a Massa, scontri violentissimi: dopo averli provocati, la polizia
aveva caricato i manifestanti.
Si trattava di un centinaio di persone che si erano ritrovate
davanti alla prefettura per chiedere conto di quello che era
successo ai ministri che stavano dentro.
Una televisione locale - Tele Toscana Nord - riprese e mandò
in onda in diretta il pestaggio. Il che fece infuriare ancora
di più la gente. Alle tre del mattino eravamo in tremila...
... E questa battaglia è stata vinta.
Ed è servita parecchio. Perché ha dimostrato che la gente non
ne poteva più, non ne voleva più sapere di questa fabbrica.
Le manifestazioni continuarono, fu dichiarato lo sciopero generale.
Dopo gli scontri con la polizia davanti alla prefettura siamo
arrivati ad essere anche in diecimila.
Abbiamo occupato il Comune, la Ferrovia, l’Aurelia.
A questo punto il governo di Roma ha dato ordine alla polizia
di ritirarsi, di non cercare più lo scontro. La cosa gli stava
sfuggendo di mano, avrebbero potuto esserci dei morti.
A Massa ci siamo presi il Comune per quarantacinque giorni...
Urbano (a destra, con i baffi) in una foto recente.
Impegno antirazzista
... Poi me ne sono venuto ad Alessandria dove ho continuato
a partecipare alle lotte ambientaliste in Valle Bormida.
Ma piano piano le cose sono cambiate. Cominciava ad esserci
molta partecipazione da parte dei Comuni, dei sindaci. A livello
istituzionale insomma.
La lotta si svuotava di contenuti... La partecipazione si è
talmente affievolita che quella fabbrica è ancora aperta.
Intanto avevi incominciato ad occuparti degli immigrati...
Avevamo creato un comitato per i diritti dei lavoratori immigrati.
Volevamo denunciare le condizioni non solo di lavoro, ma anche
di vita, alle quali era costretta la maggior parte degli extracomunitari
ad Alessandria.
Dormivano alla stazione, sulle panchine, in case fatiscenti.
Oppure erano costretti a pagare affitti esorbitanti - gente
poverissima che stava qui per aiutare le famiglie nei paesi
d’origine...
Era un’ingiustizia palese, un sistema di sfruttamento inumano.
Abbiamo cominciato a parlarne pubblicamente nell’87, ‘88.
Io giravo per tutta la provincia, dovunque ci fossero delle
conferenze, e prendevo la parola a nome degli immigrati indipendentemente
dal tema dell’incontro.
Una volta capitò che il ministro Goria venisse ad un convegno
organizzato, mi pare, dalle ACLI. Erano presenti anche diversi
extracomunitari, i sindacati, il vescovo.
Quando mi sono alzato per fare il mio intervento, sono subito
entrato in polemica con il ministro. Goria sosteneva che l’Italia,
purché gli stranieri avessero i mezzi di sostentamento, era
apertissima. Io l’ho accusato di cinismo; gli ho ricordato lo
sfruttamento secolare da parte degli europei delle risorse dell’America
latina; gli ho rammentato la politica di colonizzazione dell’Occi-dente
nei confronti dei paesi del Terzo mondo... Finché il vescovo
si è alzato dandomi ragione.
A proposito di vescovi... Quale fu l’atteggiamento della
chiesa cilena nei vostri confronti?
Molto ambiguo, perché le gerarchie ecclesiastiche sono sempre
state a destra.
In America latina la chiesa ha incominciato ad occuparsi di
diritti umani quando le dittature c’erano già.
E la famosa teologia della liberazione?
I vescovi cileni non erano affatto d’accordo. I pochi preti
di base che partecipavano alle nostre riunioni erano puntualmente
sconfessati.
Invece il vescovo di Alessandria ti ha dato ragione...
In quell’occasione il vescovo di Alessandria disse che dopo
aver tanto preso era ormai tempo di restituire...
Il lavoro del comitato che avevate messo in piedi, le iniziative
che avete intrapreso hanno avuto una grossa eco. I mezzi di
informazione se ne sono occupati spesso, sia per la determinazione
con la quale vi ponevate nei confronti del territorio e dell’opinione
pubblica sia per la novità di trovarsi di fronte ad un gruppo
di lavoratori extracomunitari politicamente consapevoli.
Qui in provincia la nostra organizzazione era diventata capillare.
Nonostante che i sindacati avessero creato degli appositi coordinamenti,
gli immigrati facevano riferimento a noi - allora eravamo alla
Camera del Lavoro.
Ad un certo punto però, visto che non eravamo disposti a farci
mettere il cappello, la situazione si fece insostenibile.
Che anno era?
Era l’89. Siamo rimasti alla Camera del Lavoro ancora qualche
mese, poi ce ne siamo andati. Avevamo ottenuto che il Comune
ci assegnasse dei locali per insegnare l’italiano agli stranieri
ed è partita una scuola autogestita. Ma soprattutto avevamo
ancora un luogo per ritrovarci, per continuare a portare avanti
il nostro discorso...
... E le forze dell’ordine?
La polizia era sempre lì, fuori dalla scuola.
Nel ‘90, contemporaneamente all’inizio della guerra del Golfo,
abbiamo deciso di fare una manifestazione. Volevamo scendere
in piazza per dare visibilità alla nostra protesta. Volevamo
rendere pubblica la denuncia del lavoro nero, della mancanza
di case. Volevamo che la nostra presenza fosse riconosciuta.
Come reagiva il sindacato confederale alle vostre iniziative?
I sindacati erano contrari perché ci vedevano concorrenti.
Per la nostra prima uscita pubblica scegliemmo lo slogan “casa,
lavoro, giustizia, libertà”, in ricordo di uno slogan che era
stato della rivoluzione di Zapata.
La manifestazione ebbe un risalto incredibile...
... Ma la vostra scuola venne bruciata. Da chi?
Non lo abbiamo mai saputo. Almeno ufficialmente. Comunque
nel ‘91, mentre eravamo in trattative con il Comune per ottenere
un centro di accoglienza, decidemmo di scendere in piazza ancora,
questa volta con una manifestazione per il primo maggio.
Fummo gli unici, ad Alessandria, a sfilare in corteo. Le iniziative
dei sindacati erano al chiuso, nei cinema.
La manifestazione riuscì molto bene. Bella. L’avevamo preparata
a lungo, pubblicizzata con cura.
Il comitato esiste ancora?
No. Ad un certo punto il comitato si è trasformato in associazione,
ma adesso non esiste più nemmeno questa.
Io me ne sono andato nel ‘93, altri prima o dopo. Ci siamo dispersi
per ragioni di lavoro, per motivi di sopravvivenza.
In ogni caso, in Alessandria e provincia, la situazione degli
immigrati era migliorata.
Alcuni risultati, per esempio il diritto alla casa, li avevamo
ottenuti.
A quelle prime due manifestazioni importanti ne erano seguite
delle altre: contro la repressione - perché con la scusa della
droga la polizia perquisiva a tappeto la città ed espelleva
i clandestini; contro gli interventi della socialista Margherita
Boniver, che pretendeva che gli immigrati avessero un contratto
di lavoro, il modello 101. Figurati!
“Il 101 non ce l’ha nessuno”, le rispondemmo dalla piazza.
Intanto a Cremona era nata un’associazione parallela alla nostra:
“l’assemblea degli immigrati”. Eravamo in contatto, ci appoggiavamo
a vicenda. Gli extracomunitari venivano da tutte le provincie
vicine, dalla Liguria...
Se
23 anni vi sembrano pochi
Quand’è che hai pensato di chiedere la cittadinanza italiana?
Con la fine delle mie traversie giuridiche per le lotte di
Massa, intorno al ‘95.
Cosa ti ha spinto a chiedere la cittadinanza?
Sono sempre stato un pò sindacalista, particolarmente attento
alla questione dei diritti...
Io credo che il diritto alla cittadinanza italiana mi spetti
perché in questo Paese ho lavorato, ho pagato i contributi.
La cosa più vergognosa di questo governo è che non mi concede
la cittadinanza perché sono anarchico.
Però questo non ti è mai stato detto a chiare lettere...
Loro dicono che io sono un pericolo per l’ordine pubblico,
per le istituzioni. Il ministro dell’interno, Giorgio Napolitano,
rispondendo all’interrogazione del senatore Russo Spena [l’interrogazione
parlamentare di Russo Spena risale al 17.09.’97 n.d.r.] ha scritto
che la mia richiesta è stata respinta “essendo emersi nei confronti
dell’interessato motivi ostativi ai fini della sicurezza della
Repubblica”. Addirittura!
Un anarchico può essere astensionista. Può rifiutarsi di partecipare
alla vita istituzionale. Ma nessuno stato può privarlo del suo
diritto ad essere cittadino. Altrimenti bisognerebbe revocare
il diritto di cittadinanza a tutti gli anarchici.
Il diritto alla cittadinanza ti è stato negato l’anno scorso
in base ad una nota del dipartimento della P.S.- Ufficio Stranieri.
Sui contenuti di questo dossier vige il più stretto riserbo...
Per saperne qualcosa, di questa nota, abbiamo scritto anche
al garante della privacy, Stefano Rodotà [in data 28.11.097
n.d.r.]. Al momento non ha ancora risposto.
Il fatto che un’informativa della P.S., un’informativa riguardante
una certa persona, possa essere trasmessa al ministero dell’interno
senza che l’interessato ne conosca i contenuti, neppure dopo
averne fatto esplicita richiesta, è una procedura assurda, da
vero e proprio regime dittatoriale.
Il fatto è che il dossier che la polizia di Massa ha inoltrato
al ministero dell’interno non può essere portato in alcun tribunale.
Perché?
Perché non è legale. Dovrebbero esserci dei riscontri.
E gli unici riscontri che la polizia può tirar fuori sono i
processi che mi sono stati intentati per le lotte ambientaliste.
Processi che si sono conclusi con la mia assoluzione. Con la
nostra vittoria.
Loro si sono riservati il diritto di esprimere lo stesso un
giudizio...
E ora quante sono le probabilità di spuntarla?
Gli avvocati che seguono il mio caso, Luca Gastini e Vincenzo
Giovinazzo, hanno presentato ricorso al TAR. Il problema è che
non sappiamo esattamente di che cosa sono accusato. Cosa contenga
quella famosa nota di P.S..
L’ha richiesta Russo Spena. E gli hanno risposto picche.
Ha presentato un’interpellanza Angelo Muzio; ne hanno presentata
un’altra i parlamentari Lino Rava e Renzo Penna...
Il garante della privacy è stato chiamato in causa proprio per
verificare che non ci sia stato un abuso di potere, una manomissione
dei miei dati personali da parte delle questure...
Quindi tu sei in Italia da ventitré anni con lo status di
rifugiato politico...
... Al quale non rinuncio. Perché questo vorrebbe dire riconoscere
le autorità cilene. Che io invece non voglio riconoscere.
Il Cile è governato ancora oggi con la stessa costituzione varata
dai militari. Non vedo per quale ragione, se sono stato più
di ventitré anni rifugiato all’estero, ho avuto i famigliari
assassinati, sono stato in campo di concentramento, la mia famiglia
conta quindici esiliati, non vedo perché, adesso, dovrei andare
a chiedere i documenti a quel Paese, legale con la legalità
dei militari...
Non lo farò mai, è una questione di principio.
È una questione di principio anche ottenere la cittadinanza
italiana.
In questo momento la mia situazione è particolarmente grave
in Europa. Se io dovessi, per esempio, andare in Francia e fossi
fermato dalla polizia francese per un banale accertamento, potrei
essere arrestato senza alcun motivo. Soltanto perché in Italia
esiste una nota di P.S. che mi dichiara pericoloso.
Sono praticamente ostaggio dell’Italia, è questo il punto. Non
riconoscendomi il diritto alla cittadinanza e dichiarandomi
pericoloso, il governo di questo Paese mi impedisce di circolare
liberamente. Con gli accordi di Schengen, che prevedono lo scambio
di informazioni anche a livello dei controlli di polizia, mi
trovo in una posizione di estrema debolezza. Non posso andare
a trovare i miei famigliari che risiedono in altri Paesi d’Europa,
non posso muovermi per incontrare amici...
Prima di richiedere la cittadinanza italiana eri al corrente
dell’esistenza di una informativa della polizia che ti riguardava?
No, questa cosa è venuta fuori nel ‘97.
Pensa che paradosso: in Cile Pinochet è senatore a vita; invece
io, un rifugiato politico cileno, rappresenterei addirittura
una minaccia per la sicurezza della repubblica italiana!
Emanuela Scuccato
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