rivista anarchica
anno 28 n.249
novembre 1998


L’utopia possibile
Tra ordine e caos

Scriveva Nico Berti nel numero 2/1996 di “Volontà” (Spagna 1936, l’utopia è storia) che “L’anarchismo in Spagna ha messo in luce, contro se stesso, l’autonomia ambigua della politica, nel senso che una parte di questa prescinde dalla valenza ideologica della sua dimensione di dominio”, con ciò sottolineando ancora una volta come uno degli irrisolti nodi teorici, e pratici, dell’anarchismo sia, appunto, quello della politica, intendendo con tale parola/concetto non solo l’ambito dello statuale, ma soprattutto quell’ambito, imprescindibile per qualsiasi convivenza umana, che eccede lo stato ed in cui, dal confronto fra le diverse idee circa la società, si giunge alle decisioni che, regolamentando il suo vivere quotidiano, orientano la società stessa. La problematicità di tale nodo si è poi ulteriormente mostrata dirompente quando la riflessione libertaria ha, soprattutto negli ultimi lustri, dovuto affrontare le questioni, fra loro collegate, dell’insurrezionalismo, della rivoluzione, della libertà e della democrazia. Nel corso delle discussioni su tali problemi, infatti, si è visto chiaramente come la questione della politica sia il punto cruciale da risolvere per un anarchismo che voglia uscire dalle concezioni “classiche”, ormai rivelatesi semplicistiche e, soprattutto, ossificate, quindi non più in grado di guidare un agire che possa significativamente incidere sul mutamento sociale. È forse per la portata e la complessità di questi scogli teorici che la letteratura anarchica più significativa degli ultimi anni ha visto pubblicati soprattutto saggi di taglio storico o che si proponevano una illustrazione introduttiva al pensiero anarchico e libertario, mentre la saggistica più specificamente dedicata alla teoria e alla filosofia politica dell’anarchismo è rimasta decisamente minoritaria. Ultimamente sembra però che la tendenza stia mutando e cominciano ad essere pubblicati testi che, pur diversissimi per intenzione, approccio teoretico, profondità analitica e sbocco propositivo, hanno al loro centro (anche se, a volte, in modo sottaciuto) proprio una riflessione su quale possa essere uno spazio politico compatibile col senso dell’anarchismo, quale debba esserne la filosofia fondante e quali le modalità operative. La strada da percorrere per arrivare ad una formulazione sufficientemente chiara di tali questioni è, ovviamente, assai lunga e proprio testi quali, per citare solo i più importanti e stimolanti, Un’idea esagerata di libertà di Nico Berti, edito da Elèuthera, Dall’assalto al cielo all’alternativa di Alain Bihr, edito dalla Biblioteca Franco Serantini di Pistoia, TAZ e Millenium di Hakim Bey, editi da Shake, Anarchismo e post-strutturalismo di Todd May, recentemente uscito presso Elèuthera, senza dimenticare non pochi numeri della succitata “Volontà” (che, purtroppo, ha ora sospeso le pubblicazioni), mostrano come lo sforzo critico e di tematizzazione debba essere ulteriormente approfondito, cosicché non c’è che da augurarsi che siano sempre più numerosi i libri come Tra ordine e caos di Andrea Papi (edizioni Matzneller, Bolzano 1998, pag. 196, L. 25.000 richiedibile a: Matzneller editions, via Montello 23, 39100 Bolzano, telefono e fax 0471281677), che in questa strada si pongono.
Papi, che è stato a lungo collaboratore di “A”, già con La nuova sovversione, ovvero la rivoluzione delegittimante, edito dalle edizione dell’Archivio Famiglia Berneri nel 1985, si era volto a questo tipo di riflessione ed ora vi torna con un testo animato dalla esigenza di delineare presupposti e modalità di una “politica anarchica” consapevole di sé. Non è quindi a caso che, nel tentativo di chiarire il campo in cui questa intenzione vuole situarsi, il saggio (la cui lettura, almeno in alcune parti, non è aiutata da alcune pesantezze stilistico-linguistiche) si apra con alcuni capitoli specificamente dedicati ad una riflessione di taglio filosofico ed epistemologico il cui filo conduttore, fra psicologismo e razionalismo, approda ad una sorta di “relativismo conoscitivo”, che per Papi ha come conseguenza l’impossibilità di una fondazione oggettiva delle proposte teorico-politiche. A partire da queste considerazioni l’autore passa poi ad analizzare quelli che definisce, per usare gli esplicativi titoli dei capitoli, il “problema politico e i suoi sensi”, le sue “categorie concettuali” (potere, governo, autorità, gerarchie, dominio) e quelle “teleologiche” (libertà, giustizia, uguaglianza), interrogandosi quindi sullo stato, sulla democrazia e sull’anarchia, per giungere infine al tentativo di identificare in una “democrazia anarchica” l’orizzonte di un’”utopia possibile”. Seguendo questo percorso -nel quale Papi mette in luce come i modi di intendere tali questioni possano avere un senso ben diverso da quello loro normalmente attribuito- viene sottolineato come nessuna società possa fare a meno dello spazio politico, inteso come spazio delle decisioni dotato di una sua autonomia e specificità, e, conseguentemente, come non sia possibile evitare che vi sia un “potere” che prenda tali decisioni. Contrariamente a quanto è avvenuto nella teoria e nella pratica politica occidentale, però, Papi vuole mostrare come tale “spazio” e tale “potere” non necessariamente debbano essere luoghi attraverso cui passa e si solidifica il dominio di una minoranza sulla maggioranza, mentre possono essere agiti da tutti i componenti la società, oggi in gran parte eterodiretti, come luoghi di autodirezione. È appunto da questo percorso che scaturisce la proposta della “democrazia anarchica”, vista come la creazione di uno spazio politico che, facendo a meno dello stato, cioè del luogo che storicamente è servito ad accentrare le decisioni nelle mani di una minoranza (un luogo che in tal modo è diventato ambito del dominio, come ha sempre messo in luce la critica anarchica “classica”), si riveli invece luogo di confronto/ricerca/decisione a tutti aperto e da tutti agito. In questo sforzo di riflessione, che dichiaratamente vede nel “senso” dell’anarchismo il suo punto di riferimento, Papi si pone al di là di alcune problematiche (come l’idea di rivoluzione/insurrezione o la questione del “movimento militante”) che, già affrontate nel libro precedente, considera ormai superate o decisamente antitetiche al senso della sua riflessione e della sua proposta, sottolineando invece come consideri necessario il “ripensamento” complessivo dell’immaginario che in vario modo anima tutti i componenti la società.
L’enormità dei temi affrontati in questo testo, testimoniata anche dalla sterminata letteratura depositata da secoli di riflessione filosofico-politica, è di quelle che spaventerebbero chiunque, ed è un indubbio merito di Papi quello di affrontarli cercando di darne una visione/interpretazione “panoramica”, ma è proprio questo il campo in cui il suo testo, che certo stimola a pensare in profondità, rivela alcuni aspetti discutibili. Se sul piano dell’approccio filosofico, infatti, si sente la mancanza di una tematizzazione delle numerose riflessioni che, come quelle di impronta fenomenologica e heideggeriana o quelle “post-strutturaliste”, negli ultimi anni hanno contribuito a mettere alquanto in discussione gli approcci di taglio razionalistico-relativistico e psicologistico, è però sul piano della teoria e della filosofia politiche che più pesa la mancanza di un confronto diretto con alcuni temi che, indubitabilmente, sono centrali per il pensiero politico stesso. È questo il caso sia di questioni che Papi sfiora solamente, quali la sovranità e la comunità -recentemente affrontate da testi fondamentali come Homo sacer di Giorgio Agamben e Communitas di Roberto Esposito (ambedue editi da Einaudi)-, sia delle riflessioni e delle ricerche, inerenti uno spazio politico che vada oltre alle teorizzazioni liberali senza cadere nel rischio del totalitarismo, che hanno occupato la vita e l’opera di una pensatrice quale Hannah Arendt.
Pur con queste carenze, tuttavia, non si può non riconoscere a Tra ordine e caos il merito di tentare un approccio non conformista alla vastità del problema politico cercando, nel contempo, di delineare delle proposte non scontate per un mutamento dell’esistente in senso libertario. Non è certo poco.

Franco Melandri

 

Troppo breve
Quell’estate

Le squallide polemiche di questi mesi tra “ex” fascisti ed “ex” stalinisti sulla guerra civile spagnola (a proposito, caro Signor Romano: non le è mai sorto il dubbio che a permettere al partito comunista spagnolo -fino al luglio del 1936 risibile per numero e incidenza politica- di accrescere la propria nefasta influenza sia stata proprio l’insurrezione militare capitanata da quel galantuomo liberaldemocratico quale era secondo Lei Francisco Franco?) hanno restituito attualità alla storia controversa e drammatica di quegli anni spagnoli. Sotto questo profilo, torna utile la lettura di un libro come quello di Enzesberger (La breve estate dell’anarchia. Vita e morte di Buenaventura Durruti, Milano 1997, pp. 298, £ 15.000), da poco ristampato dai tipi della Feltrinelli.

 

Si tratta della terza edizione in lingua italiana (a distanza di 20 anni dall’ultima), di questa interessante ricostruzione storica della vita di Buenaventura Durruti (1896-1936), leggendaria figura dell’anarchismo spagnolo, operaio metallurgico, leader della CNT e della FAI, espropriatore di banche, organizzatore sindacale, protagonista della insurrezione popolare del 19 luglio a Barcellona, comandante dell’omonima colonna di miliziani che tentò invano di liberare Saragozza, morto infine nella difesa di Madrid il 21 novembre 1936.
Il testo ripercorre tutte le più significative tappe della vita di Durruti, rendendo chiara la comprensione del contesto politico, culturale, economico e sociale in cui essa ebbe a compiersi.
La scelta dell’autore di far parlare direttamente i protagonisti (i compagni, gli amici, gli avversari) e i documenti di quella stagione politica rende la lettura avvincente e piacevole, e ci restituisce la figura di Durruti in tutta la sua umanità: esilarante l’episodio di Durruti casalingo preso in giro da alcuni compagni per quel ruolo così apparentemente lontano dall’immaginario guerriero e machista per il quale era conosciuto allora ed è poi passato ai posteri.
Al di là di questi ed altri curiosi aneddoti, il libro di Enzesberger è decisamente affascinante soprattutto per un altro aspetto: rispetto a molte questioni su cui si sono scontrate (e continuano a scontrarsi) scuole storiografiche e ideologiche diverse (il ruolo dei comunisti nella guerra civile; le conquiste rivoluzionarie; la scelta della militarizzazione delle milizie; i combattimenti di Barcellona del luglio del 1937, ecc.), Enzensberger propone punti di vista diversi, non solo libertari, alcune volte in palese contraddizione gli uni con gli altri: la “verità” storica esce faticosamente dal confronto-scontro di varie tesi, spesso opposte, ma alla fine risulta più credibile e meno ideologica. La storia è infatti per l’autore “un’invenzione cui la realtà arreca i propri materiali. Non un’invenzione arbitraria, però” (p. 12). E il punto di vista dell’autore risulta infatti sufficientemente chiaro dal modo in cui questi documenti (interviste soprattutto) sono assemblati tra di loro.
Alcuni capitoli sono preceduti da una glossa storica dell’autore, nella quale vengono proposte interpretazioni delle vicende storiche nelle quali si svolge la vita di Durruti (le radici dell’anarchismo spagnolo, la storia spagnola dal 1917 al 1936): in tal modo questo affresco storico tocca tutti i più importanti temi in cui si è dibattuta la rivoluzione spagnola: il rapporto dell’anarchismo col potere, il problema della violenza rivoluzionaria, il ruolo controrivoluzionario degli stalinisti (denunciato da Enzesberger).
Nonostante alcune lacune (molto spazio viene dedicato alle ricostruzioni belliche, molto poco alla trasformazione rivoluzionaria della Catalogna e dell’Aragona; molto discutibile la tesi secondo cui l’errore fondamentale degli anarchici spagnoli sarebbe stato quello di non essere scesi a compromessi col potere dello stato repubblicano), il libro, a distanza di 20 anni si legge ancora con piacere, e si conclude con un commovente omaggio agli anarchici spagnoli in esilio in Francia (all’epoca regnava ancora il “democratico” garrotatore Franco).

Francesco Berti

Un altro Welfare.
Dal basso

Un libro di grande attualità (Colin Ward, La città dei ricchi e la città dei poveri, ed. e/o, Roma 1998, pp. 119, £ 10.000) quello proposto dalla collana politica delle edizioni e/o, soprattutto alla luce di alcuni avvenimenti sociali che hanno caratterizzato il solleone italiano ‘98.

 

A mesi dalla tragedia di Sarno i finanziamenti e i lavori di ricostruzione devono ancora partire per problemi burocratici dipendenti dal governo centrale? Un paese intero si rivolta e i comitati cittadini occupano il palazzo comunale accusando le autorità: se le cose stanno così, allora ci arrangiamo.
A Napoli il dramma della disoccupazione assume toni esasperati. Disoccupati organizzati e lavoratori socialmente utili danno battaglia rifiutandosi di farsi rappresentare da cgl-cils-uil e si parla già di liste di collocamento autogestite.
Il dramma di Simeone, il bimbo ammazzato dal pescatore di Ostia per pedofilia, attira l’attenzione sul posto dove abitava: un quartiere difficile, fatto di palazzoni fatiscenti occupati da diversi anni da famiglie che così hanno risolto il problema della casa.
Queste realtà vengono criminalizzate come violente, camorristiche, degradate, e i reportages dei media sono a dir poco superficiali o scandalistici.
Su questi fatti il libro di Colin Ward vale più di tutti gli articoli di fondo dei nostri quotidiani. La città dei ricchi e la città dei poveri è una raccolta di lezioni tenute alla London School of Economics, in cui l’autore ripercorre il percorso dei movimenti di abusivismo edilizio, di occupazioni urbane, di autogestione scolastica e sanitaria in Inghilterra a partire dal medioevo fino ai giorni nostri, con un intrigante capitolo finale sul XXI° secolo. Veniamo così a sapere che anche nel 1300 i poveri nella città occupavano le case per risolvere i loro problemi. E solo da quando è nata l’idea di Welfare State centralizzato che lo stato ha cancellato le esperienze di mutuo soccorso che andavano dall’assistenza sanitaria alla costruzione delle scuole popolari, dalla creazione di posti di lavoro collettivi all’organizzazione del tempo libero. Secondo Ward un modello dimenticato di Welfare dal basso, in cui la gente decideva come doveva essere gestita una casa di cura partendo dalle esigenze della comunità e non dalle industrie farmaceutiche in base ai tickets da pagare.
Tra gli esempi di Ward, c’è quello delle società idriche inglesi che fino agli anni ‘70 erano gestite a livello locale. Poi sono state nazionalizzate e centralizzate, con la chiusura di moltissimi piccoli pozzi; infine sotto la Tatcher la società idrica è stata privatizzata. Le conseguenze? Comparando due grandi periodi di siccità, uno a metà degli anni settanta, l’altro all’inizio dei novanta, si vede come nella prima gli utenti si sentissero coinvolti nel superamento della crisi, con un risparmio del consumo domestico pari al 40 %. Nella crisi degli anni ‘90 invece, l’acqua non è più un bene comune ma un bene di consumo, e alla scarsità d’acqua la gente ha reagito con rabbia: se è una merce che paghiamo cara, con quale diritto ci vengono a dire di non consumare?
Se il welfare sta morendo non c’è da intristirsi insomma, ma solo da rimboccarsi le maniche per riportare tutto a una dimensione comunitaria in cui siano gli individui a gestire e non i managers pubblici.

Alessandro Bresolin