rivista anarchica
anno 28 n.250
dicembre 1998 / gennaio 1999


 

 

Un'estate al fresco

Dopo la pubblicazione, nel numero di giugno di "A" Rivista anarchica (n.246), di un ampio servizio dedicato ai temi del carcerario, sono giunte in Redazione per tutta l'estate numerose lettere di detenuti che raccontano le condizioni della loro vita reclusa. Nonostante le differenze, ciascuna di queste narrazioni ha il pregio della concretezza: i problemi e i veri e propri abusi che spesso vengono perpetrati ai danni dei prigionieri sono esposti con lucidità e forza d'animo.
Nel dar voce a chi ha voluto finora scriverci, ci proponiamo di gettare un ponte tra chi è dentro e chi è fuori in modo che l'aberrazione delle istituzioni totali emerga in tutto il suo orrore. Anche agli occhi di chi, sul carcere, si è finora accontentato di facili luoghi comuni.

Un nutrito gruppo di detenuti - venticinque - del carcere di Fossombrone - Sezioni Speciali di Levante ci ha inviato copia di un documento che è stato inoltrato anche "alle varie Autorità competenti".
Accanto a problemi che possono essere considerati comuni per la gran parte degli istituti penitenziari italiani, da Fossombrone ci arriva l'opportunità di cominciare a parlare di una condizione della vita detentiva del tutto particolare, della quale i media raramente si occupano: la reclusione nelle sezioni di A.S. (Alta Sorveglianza).
"Nonostante vi siano detenuti che hanno già scontato il reato associativo e mantenuto buona condotta durante il periodo della loro detenzione, essi non vengono declassificati", leggiamo.
I reclusi dell Sezioni Speciali di Levante vanno a mettere il dito nella piaga perché la mancata declassificazione di chi è sottoposto al regime di A.S. significa, tradotto in soldoni, il veto di usufruire di permessi di qualsiasi tipo; significa l'impossibilità di essere ammessi al regime di semilibertà; significa dover accantonare l'ipotesi di un lavoro oltre le mura del carcere. Per esempio.
Insomma: "... una punizione continua", come sintetizza molto efficacemente Carmelo Musumeci, condirettore del periodico Liberarsi, egli stesso in A.S. nel carcere di Parma.
Che fine fa, in questi casi, il millantato programma di reinserimento dei detenuti nella società previsto dalla legge Gozzini?, ci chiediamo. Al di là di questa considerazione resta il fatto che il prigioniero, privato a tempi indefiniti di ogni prospettiva esterna, è ridotto a uno stato di continua sofferenza. Che non soltanto gli "crea seri scompensi psicologici", come scrivono i firmatari del documento di Fossombrone, ma anche lo espone, desumiamo, ai rischi di una gestione arbitraria delle sue sorti carcerarie, e quindi della sua vita.
Interessanti ci sono sembrati anche quei rilievi che i detenuti delle Sezioni Speciali di Levante hanno mosso in merito alla retribuzione delle attività lavorative all'interno del penitenziario, soprattutto perché non hanno trascurato di circostanziare l'ammontare di alcuni "stipendi" corrisposti.
"... il più elevato è di circa 400.000 lire (spesino al sopravvitto), il barbiere e lo scrivano si devono accontentare di circa 80.000 lire, il jolly di circa 150.000 lire, lo scopino di 250.000 lire e il portavitto di 220.000 lire circa...".
"... senza contare", aggiungono, "che tali mansioni vengono effettuate saltuariamente e parte dello 'stipendio' viene usato per l'acquisto di cose che altre Amministrazioni carcerarie concedono ai detenuti semplicemente a proprio carico".
Ma sia in merito agli acquisti all'interno del carcere e alla qualità del vitto, che in merito al rispetto del diritto alla salute del detenuto, le notizie che ci sono giunte un pò da tutti i penitenziari della penisola sono allarmanti.
Ci è stata segnalata, per esempio, una carenza di farmaci all'interno della Casa Circondariale di Monte Acuto (Ancona). Anche qui, come altrove, si accederebbe invece con discreto successo agli psico-farmaci.
"... così sedando i detenuti, li tengono buoni e li sopraffanno", ci ha scritto da Monte Acuto Emidio Paolini.
La sua lettera dà conto, inoltre, di un'altra deficienza istituzionale piuttosto diffusa negli "istituti di prevenzione e di pena": la latitanza - è proprio il caso di dirlo - dei magistrati di sorveglianza.
"Altro punto, e questo è molto grave", racconta Paolini," è che il Magistrato di Sorveglianza ha delegato la direttrice (del carcere di Monte Acuto n.d.r.) a fare le sue veci, e non viene in istituto come prevede l'O.P. (Ordina-mento Penitenziario n.d.r.)...".
Nella casa circondariale di Parma i prigionieri, da qualche tempo a questa parte, non possono tenere con sé più di 25 fotografie.
"...in questo istituto... si divertono a giocare impedendoci di avere normali vestiti (niente lacci delle tute, niente bottoni). Proibiscono di dare una caramella ai bambini durante i colloqui, ma questa volta hanno superato se stessi, il buon senso e la ragione: ci proibiscono di tenere in cella più di 25 fotografie dei nostri famigliari", ci informa Carmelo Musumeci.
"Ho provato a misurare un centinaio di fotografie: misurano 180 centimetri quadrati per uno spessore di 2 centimetri. All'incirca come un quaderno".
Per alcuni reclusi le fotografie sono pressoché l'unico legame con gli affetti e la vita di fuori, una vita che peraltro continua a riguardarli - non dimentichiamo che molti sono genitori, mogli, mariti. Perché portargliele via? Forse perché queste immagini riguardano i sentimenti, i desideri, le emozioni dei detenuti, ciò che ne svela l'umanità a dispetto di qualsiasi galera?
In quale misura il nuovo provvedimento adottato dal direttore del carcere di Parma si inscrive in quella prospettiva di recupero alla vita sociale della persona-detenuto che ispira l'art.1 del vigente Ordinamento Penitenziario?
("...Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi" art.1, Tit.I - Trattamento penitenziario - Capo I n.d.r.).
Intanto il gruppo di lavoro per una "Carta europea delle comunità carcerarie" ha reso noti i risultati di una prima analisi degli elaborati prodotti, sia singolarmente che collettivamente, dai prigionieri del carcere di San Vittore (MILANO).
Sono stati presi in considerazione 200 contributi.
Viste le caratteristiche di ciascun reparto il quadro della situazione si presenta molto articolato.
La specificità delle osservazioni pervenute dal reparto femminile del penitenziario milanese consente di affrontare un argomento costantemente oscurato, vale a dire la sofferenza di quanti, parenti e amici, si trovano a condividere la sorte dei reclusi.
Nell'immaginario comune il carcerato, uomo o donna che sia, non ha passato, non ha diritto ad un presente, gli si augura di non avere futuro. In questo modo scrollarsi di dosso tutta una serie di problemi risulta molto più facile.
In un Paese come il nostro, apparentemente così sensibile ai valori della famiglia, che ne è, per esempio, dei figli dei detenuti?
Forse non tutti lo sanno, ma i piccoli al di sotto dei tre anni di età che vivono dietro le sbarre con la madre sono a loro volta dei piccoli reclusi.
Vengono perquisiti prima di ogni colloquio; sono costretti in spazi angusti; il loro universo è quasi esclusivamente al femminile... Tutto questo fino al terzo anno di vita, fino a quando, cioè, il distacco traumatico dalla madre non li catapulta in un nuovo contesto sociale. Per loro completamente sconosciuto. Spaventoso. Qualche volta ostile.
Nei loro interventi, le detenute di San Vittore propongono per le madri di bambini così piccoli la concessione della "carcerazione alternativa", ossia la possibilità di scontare la pena agli arresti domiciliari o presso una comunità. Per condanne lievi, anche la depenalizzazione.
Non molto diversa, nella sostanza, la situazione degli altri figli, quelli che vivono fuori dal carcere.
Non più reclusi essi stessi, i bambini e i ragazzini sono comunque sottoposti alle regole, ferree, dell'istituzione totale.
Che prevedono il "controllo" dell'affettività, il "controllo" del corpo prima di ogni incontro con i genitori.
Che prevedono lunghe e stressanti attese fuori da San Vittore - magari in orari che dovrebbero essere di scuola.
Impensabile poi pranzare con la madre o il padre, detenuti, in occasione di una particolare festività.
Inimmaginabile incontrarli in un unico colloquio, insieme, qualora siano entrambi reclusi. Almeno fino ad oggi.
Anche in questo caso dal reparto femminile di San Vittore giungono delle proposte. Di semplice buonsenso.
Trattasi della richiesta di un prolungamento delle visite, del rispetto della privacy; trattasi della richiesta di mangiare qualche volta con i propri figli, di potergli telefonare più spesso.
Trattasi soprattutto della legittima richiesta di vedere rispettata la loro infanzia, la loro adolescenza.
Il carico di sofferenza che le detenute madri e i loro figli sono costretti a portare diventa disperazione nel caso delle detenute madri straniere.
Il disinteresse dei consolati e delle autorità competenti, talvolta l'incuria dei famigliari, costruiscono intorno a queste donne un'ulteriore muro di cinta. Sono lasciate sole.
La possibilità, così irrisoria, di telefonare non gli serve: non sanno dove né a chi.
Come si può pensare di infliggere una punizione così devastante a un essere umano?
Una di queste donne non ha retto. Nel ricordarla, le detenute di San Vittore l'hanno assimilata a una "farfalla" che ha "avuto la forza di volare, / di passare di fiore in fiore" (da Magazine 2, giornale di San Vittore).
Questa "farfalla" si chiamava Ferida Ahmetovic.
Si è suicidata nel penitenziario milanese il 3 febbraio scorso.

a cura di
Emanuela Scuccato

 

Un uomo e un archivio

Aurelio Chessa è scomparso circa due anni fa, nell'ottobre del `1997. Gli anarchici lo ricordano come militante pignolo e piuttosto severo (con marcate punte scorbutiche, mi raccontano). Soprat-tutto era noto come curatore dell'Archivio Famiglia Berneri e come editore di opere rilevanti riguardanti l'anarchismo e il movimento anarchico (di Rocker, Borghi, Camillo e Maria Luisa Berneri, e altri). Non l'ho mai conosciuto personalmente, anche se mi stavo preparando a incontrarlo poche settimane prima della morte, già convinto - dai commenti di chi lo conosceva - di andare incontro al disastro. Ho tuttavia avviato con lui una specie di relazione postuma, nel senso che, avendo avuto occasione di lavorare nel "suo" archivio e tra le "sue" carte, ne ho scoperto metodi e atteggiamenti. Sono per esempio stato estremamente divertito - e anche un po' scandalizzato - dal fatto che ai suoi collaboratori, anche se impegnati in lavori rilevanti, raramente concedeva la visione dei documenti originali, passando loro solo copie da lui personalmente dattiloscritte. Un significativo gesto di gelosia professional-culturale da un lato, e di "accentramento" filologico dall'altro.
Del resto, nonostante il nome, il suo archivio era nato molto prima che gli eredi di Giovanna Berneri gli lasciassero le importantissime carte di famiglia. Di fatto nacque il 25 aprile del 1945, raccontò Aurelio a una radio ligure nel 1978: «Quando mi capitavano tra le mani pubblicazioni, soprattutto anarchiche, cercai di conservarle gelosamente, e così via via mi sono ritrovato con una certa quantità di pubblicazioni da sistemare e da tenere in maniera che non si deteriorassero. Ho unito alle mie raccolte quelle di un mio zio che mi aveva avviato all'anarchismo» (il corsivo è mio). Unendo il suo archivio a quello della famiglia Berneri, Aurelio cominciò "a divulgarne l'esistenza già dal 1963-1964. ... All'invito risposero docenti e studenti", che si affollarono in un "piccolo locale" di Sampierdarena, dando vita a una tradizione "accademica - quante tesi discusse sulla base del materiale del Berneri! - che continua a tutt'oggi, con l'archivio a Reggio Emilia e affidato alle cure della figlia Fiamma. E' anche opportuno ricordare che il nome dell'archivio non fu scelto perché la documentazione della famiglia Berneri era preponderante, ma "in memoria dei compagni scomparsi, a ricordo, cioè, di loro che tanto dettero al movimento".
Le vicende successive dell'archivio - con successivi spostamenti a Pistoia, Iglesias, Genova, Canosa, Cecina e infine Reggio Emilia - sembrano una vera e propria odissea in minore. Colpisce l'attaccamento di Chessa al "suo" archivio, con il quale pareva infine identificarsi totalmente, al punto di spostarsi ripetutamente - in tarda età, non scordiamolo - da un capo all'altro della penisola pur di mantenerlo in vita. Inoltre, il suo anarchismo era tutt'altro che ingenuo. Non che si trattasse di un "intellettuale" (categoria per la quale doveva nutrire una certa antipatia). Dalla già citata intervista del 1978 si ricava l'impressione di un convinto malatestiano, secondo il quale l'inevitabile "rivoluzione" delle "moltitudini" avrebbe segnalato l'avvento di un nuovo spirito umanitario e solidaristico. E tuttavia non si sarebbe trattato dell'evento cui molti (nel 1978) pensavano: "Da tante parti si parla di rivoluzione, credo pensando alla rivoluzione armata, quella violenta finora conosciuta, ma vi è nel sottobosco sociale una rivoluzione che sta avanzando a grandi passi il progresso tecnologico le sta dando la spinta finale". Membro dei GIA e dichiarato "antiorganizzatore", nell'intervista del 1978 Aurelio coglieva con tagliente semplicità e in modo esemplare il dilemma centrale nel pensiero anarchico, quello tra autonomia dell'individuo e dimensione comunitaria: "Tutti gli esseri viventi sono individualisti, cioè tendono a essere se stessi, non potendosi configurare in altre persone. Assodato che siamo tutti individualisti, bisogna chiarire che ciò nonostante, e forse in conseguenza di questo motivo, gli esseri umani sono solidali, tendenti cioè a salvaguardare la propria personalità anche col concorso del proprio simile. Ne deriva che gli uomini e le donne tendono a raggrupparsi liberamente con quanti non facciano sforzo a sentirsi amici e compagni". "Quindi in quale posizione mi colloco dentro la società?", chiedeva infine Aurelio, fornendo una risposta di disarmante lucidità: "Nella sfera di quanti che, pur desiderando di vivere insieme, non vogliono sopraffarmi, rispettando la mia personalità e la mia individualità, nella maniera in cui io rispetto gli altri. Ne deriva che mi associerò con quanti non m'imporranno un metodo di vita costrittiva". E' una conclusione che credo oggi molti condividano.

Pietro Adamo
(Milano)

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni: Marco Breschi (Prato), 200.000; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Alfonso Failla, 1.000.000; Salvo Pappalardo (Mestre), 20.000; Albino Trucano (Borgiallo), 20.000; Rocco Tannoia (Settimo Milanese), 10.000; Tony Gei (Caltrano), 20.000; Carmelo Musumeci (Parma), 20.000; Giuliano e suo figlio Valerio (Centobuchi), 10.000; Fabio Santin (Mestre) ricordando Marina Padovese, 500.000; Jean-Jeacques Gandini (Montpellier - Francia), 20.000; Gaetano Ricciardo (Vigevano), 50.000; Roberto Marchioro (Milano), 20.000; Paolo Mauri (Milano), 50.000; Pasquale Messina (Milano), 50.000; Lucio Brunetti (Campobasso), 10.000; Totale lire 2.000.000.

Nell'elenco delle sottoscrizioni pubblicato sullo scorso numero, é stato erroneamente ripotato il nome del donatore della prima sottoscrizione in elenco. Deve leggersi così: Rino De Michele (Zero Branco) "per ciò che Marina mi ha dato", 100.000".

Abbonamenti Sostenitori: Laura Borgini (Grosseto), 250.000; Stefano Vittori (Latina), 150.000; Nicola Piemontese (Monte Sant'Angelo), 150.000. Totale Lire 550.000.