Un'estate
al fresco
Dopo la pubblicazione, nel numero di giugno di "A" Rivista
anarchica (n.246), di un ampio servizio dedicato ai temi del
carcerario, sono giunte in Redazione per tutta l'estate numerose
lettere di detenuti che raccontano le condizioni della loro
vita reclusa. Nonostante le differenze, ciascuna di queste narrazioni
ha il pregio della concretezza: i problemi e i veri e propri
abusi che spesso vengono perpetrati ai danni dei prigionieri
sono esposti con lucidità e forza d'animo.
Nel dar voce a chi ha voluto finora scriverci, ci proponiamo
di gettare un ponte tra chi è dentro e chi è fuori in modo che
l'aberrazione delle istituzioni totali emerga in tutto il suo
orrore. Anche agli occhi di chi, sul carcere, si è finora accontentato
di facili luoghi comuni.
Un nutrito gruppo di detenuti - venticinque - del carcere di
Fossombrone - Sezioni Speciali di Levante ci ha inviato
copia di un documento che è stato inoltrato anche "alle varie
Autorità competenti".
Accanto a problemi che possono essere considerati comuni per
la gran parte degli istituti penitenziari italiani, da Fossombrone
ci arriva l'opportunità di cominciare a parlare di una condizione
della vita detentiva del tutto particolare, della quale i media
raramente si occupano: la reclusione nelle sezioni di A.S. (Alta
Sorveglianza).
"Nonostante vi siano detenuti che hanno già scontato il reato
associativo e mantenuto buona condotta durante il periodo della
loro detenzione, essi non vengono declassificati", leggiamo.
I reclusi dell Sezioni Speciali di Levante vanno a mettere il
dito nella piaga perché la mancata declassificazione di chi
è sottoposto al regime di A.S. significa, tradotto in soldoni,
il veto di usufruire di permessi di qualsiasi tipo; significa
l'impossibilità di essere ammessi al regime di semilibertà;
significa dover accantonare l'ipotesi di un lavoro oltre le
mura del carcere. Per esempio.
Insomma: "... una punizione continua", come sintetizza molto
efficacemente Carmelo Musumeci, condirettore del periodico Liberarsi,
egli stesso in A.S. nel carcere di Parma.
Che fine fa, in questi casi, il millantato programma di reinserimento
dei detenuti nella società previsto dalla legge Gozzini?, ci
chiediamo. Al di là di questa considerazione resta il fatto
che il prigioniero, privato a tempi indefiniti di ogni prospettiva
esterna, è ridotto a uno stato di continua sofferenza. Che non
soltanto gli "crea seri scompensi psicologici", come scrivono
i firmatari del documento di Fossombrone, ma anche lo espone,
desumiamo, ai rischi di una gestione arbitraria delle sue sorti
carcerarie, e quindi della sua vita.
Interessanti ci sono sembrati anche quei rilievi che i detenuti
delle Sezioni Speciali di Levante hanno mosso in merito alla
retribuzione delle attività lavorative all'interno del penitenziario,
soprattutto perché non hanno trascurato di circostanziare l'ammontare
di alcuni "stipendi" corrisposti.
"... il più elevato è di circa 400.000 lire (spesino al sopravvitto),
il barbiere e lo scrivano si devono accontentare di circa 80.000
lire, il jolly di circa 150.000 lire, lo scopino di 250.000
lire e il portavitto di 220.000 lire circa...".
"... senza contare", aggiungono, "che tali mansioni vengono
effettuate saltuariamente e parte dello 'stipendio' viene usato
per l'acquisto di cose che altre Amministrazioni carcerarie
concedono ai detenuti semplicemente a proprio carico".
Ma sia in merito agli acquisti all'interno del carcere e alla
qualità del vitto, che in merito al rispetto del diritto alla
salute del detenuto, le notizie che ci sono giunte un pò da
tutti i penitenziari della penisola sono allarmanti.
Ci è stata segnalata, per esempio, una carenza di farmaci all'interno
della Casa Circondariale di Monte Acuto (Ancona). Anche
qui, come altrove, si accederebbe invece con discreto successo
agli psico-farmaci.
"... così sedando i detenuti, li tengono buoni e li sopraffanno",
ci ha scritto da Monte Acuto Emidio Paolini.
La sua lettera dà conto, inoltre, di un'altra deficienza istituzionale
piuttosto diffusa negli "istituti di prevenzione e di pena":
la latitanza - è proprio il caso di dirlo - dei magistrati di
sorveglianza.
"Altro punto, e questo è molto grave", racconta Paolini," è
che il Magistrato di Sorveglianza ha delegato la direttrice
(del carcere di Monte Acuto n.d.r.) a fare le sue veci, e non
viene in istituto come prevede l'O.P. (Ordina-mento Penitenziario
n.d.r.)...".
Nella casa circondariale di Parma i prigionieri, da qualche
tempo a questa parte, non possono tenere con sé più di 25 fotografie.
"...in questo istituto... si divertono a giocare impedendoci
di avere normali vestiti (niente lacci delle tute, niente bottoni).
Proibiscono di dare una caramella ai bambini durante i colloqui,
ma questa volta hanno superato se stessi, il buon senso e la
ragione: ci proibiscono di tenere in cella più di 25 fotografie
dei nostri famigliari", ci informa Carmelo Musumeci.
"Ho provato a misurare un centinaio di fotografie: misurano
180 centimetri quadrati per uno spessore di 2 centimetri. All'incirca
come un quaderno".
Per alcuni reclusi le fotografie sono pressoché l'unico legame
con gli affetti e la vita di fuori, una vita che peraltro
continua a riguardarli - non dimentichiamo che molti sono genitori,
mogli, mariti. Perché portargliele via? Forse perché queste
immagini riguardano i sentimenti, i desideri, le emozioni dei
detenuti, ciò che ne svela l'umanità a dispetto di qualsiasi
galera?
In quale misura il nuovo provvedimento adottato dal direttore
del carcere di Parma si inscrive in quella prospettiva di recupero
alla vita sociale della persona-detenuto che ispira l'art.1
del vigente Ordinamento Penitenziario?
("...Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere
attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso
i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale
degli stessi" art.1, Tit.I - Trattamento penitenziario - Capo
I n.d.r.).
Intanto il gruppo di lavoro per una "Carta europea delle comunità
carcerarie" ha reso noti i risultati di una prima analisi degli
elaborati prodotti, sia singolarmente che collettivamente, dai
prigionieri del carcere di San Vittore (MILANO).
Sono stati presi in considerazione 200 contributi.
Viste le caratteristiche di ciascun reparto il quadro della
situazione si presenta molto articolato.
La specificità delle osservazioni pervenute dal reparto femminile
del penitenziario milanese consente di affrontare un argomento
costantemente oscurato, vale a dire la sofferenza di quanti,
parenti e amici, si trovano a condividere la sorte dei reclusi.
Nell'immaginario comune il carcerato, uomo o donna che sia,
non ha passato, non ha diritto ad un presente, gli si augura
di non avere futuro. In questo modo scrollarsi di dosso tutta
una serie di problemi risulta molto più facile.
In un Paese come il nostro, apparentemente così sensibile ai
valori della famiglia, che ne è, per esempio, dei figli dei
detenuti?
Forse non tutti lo sanno, ma i piccoli al di sotto dei tre anni
di età che vivono dietro le sbarre con la madre sono a loro
volta dei piccoli reclusi.
Vengono perquisiti prima di ogni colloquio; sono costretti in
spazi angusti; il loro universo è quasi esclusivamente al femminile...
Tutto questo fino al terzo anno di vita, fino a quando, cioè,
il distacco traumatico dalla madre non li catapulta in un nuovo
contesto sociale. Per loro completamente sconosciuto. Spaventoso.
Qualche volta ostile.
Nei loro interventi, le detenute di San Vittore propongono per
le madri di bambini così piccoli la concessione della "carcerazione
alternativa", ossia la possibilità di scontare la pena agli
arresti domiciliari o presso una comunità. Per condanne lievi,
anche la depenalizzazione.
Non molto diversa, nella sostanza, la situazione degli altri
figli, quelli che vivono fuori dal carcere.
Non più reclusi essi stessi, i bambini e i ragazzini sono comunque
sottoposti alle regole, ferree, dell'istituzione totale.
Che prevedono il "controllo" dell'affettività, il "controllo"
del corpo prima di ogni incontro con i genitori.
Che prevedono lunghe e stressanti attese fuori da San Vittore
- magari in orari che dovrebbero essere di scuola.
Impensabile poi pranzare con la madre o il padre, detenuti,
in occasione di una particolare festività.
Inimmaginabile incontrarli in un unico colloquio, insieme, qualora
siano entrambi reclusi. Almeno fino ad oggi.
Anche in questo caso dal reparto femminile di San Vittore giungono
delle proposte. Di semplice buonsenso.
Trattasi della richiesta di un prolungamento delle visite, del
rispetto della privacy; trattasi della richiesta di mangiare
qualche volta con i propri figli, di potergli telefonare più
spesso.
Trattasi soprattutto della legittima richiesta di vedere rispettata
la loro infanzia, la loro adolescenza.
Il carico di sofferenza che le detenute madri e i loro figli
sono costretti a portare diventa disperazione nel caso delle
detenute madri straniere.
Il disinteresse dei consolati e delle autorità competenti, talvolta
l'incuria dei famigliari, costruiscono intorno a queste donne
un'ulteriore muro di cinta. Sono lasciate sole.
La possibilità, così irrisoria, di telefonare non gli serve:
non sanno dove né a chi.
Come si può pensare di infliggere una punizione così devastante
a un essere umano?
Una di queste donne non ha retto. Nel ricordarla, le detenute
di San Vittore l'hanno assimilata a una "farfalla" che ha "avuto
la forza di volare, / di passare di fiore in fiore" (da Magazine
2, giornale di San Vittore).
Questa "farfalla" si chiamava Ferida Ahmetovic.
Si è suicidata nel penitenziario milanese il 3 febbraio scorso.
a cura di
Emanuela Scuccato
Un
uomo e un archivio
Aurelio Chessa è scomparso circa due anni fa, nell'ottobre
del `1997. Gli anarchici lo ricordano come militante pignolo
e piuttosto severo (con marcate punte scorbutiche, mi raccontano).
Soprat-tutto era noto come curatore dell'Archivio Famiglia Berneri
e come editore di opere rilevanti riguardanti l'anarchismo e
il movimento anarchico (di Rocker, Borghi, Camillo e Maria Luisa
Berneri, e altri). Non l'ho mai conosciuto personalmente, anche
se mi stavo preparando a incontrarlo poche settimane prima della
morte, già convinto - dai commenti di chi lo conosceva - di
andare incontro al disastro. Ho tuttavia avviato con lui una
specie di relazione postuma, nel senso che, avendo avuto occasione
di lavorare nel "suo" archivio e tra le "sue" carte, ne ho scoperto
metodi e atteggiamenti. Sono per esempio stato estremamente
divertito - e anche un po' scandalizzato - dal fatto che ai
suoi collaboratori, anche se impegnati in lavori rilevanti,
raramente concedeva la visione dei documenti originali, passando
loro solo copie da lui personalmente dattiloscritte. Un significativo
gesto di gelosia professional-culturale da un lato, e di "accentramento"
filologico dall'altro.
Del resto, nonostante il nome, il suo archivio era nato molto
prima che gli eredi di Giovanna Berneri gli lasciassero le importantissime
carte di famiglia. Di fatto nacque il 25 aprile del 1945, raccontò
Aurelio a una radio ligure nel 1978: «Quando mi capitavano tra
le mani pubblicazioni, soprattutto anarchiche, cercai di conservarle
gelosamente, e così via via mi sono ritrovato con una
certa quantità di pubblicazioni da sistemare e da tenere in
maniera che non si deteriorassero. Ho unito alle mie raccolte
quelle di un mio zio che mi aveva avviato all'anarchismo» (il
corsivo è mio). Unendo il suo archivio a quello della famiglia
Berneri, Aurelio cominciò "a divulgarne l'esistenza già dal
1963-1964. ... All'invito risposero docenti e studenti", che
si affollarono in un "piccolo locale" di Sampierdarena, dando
vita a una tradizione "accademica - quante tesi discusse sulla
base del materiale del Berneri! - che continua a tutt'oggi,
con l'archivio a Reggio Emilia e affidato alle cure della figlia
Fiamma. E' anche opportuno ricordare che il nome dell'archivio
non fu scelto perché la documentazione della famiglia Berneri
era preponderante, ma "in memoria dei compagni scomparsi, a
ricordo, cioè, di loro che tanto dettero al movimento".
Le vicende successive dell'archivio - con successivi spostamenti
a Pistoia, Iglesias, Genova, Canosa, Cecina e infine Reggio
Emilia - sembrano una vera e propria odissea in minore. Colpisce
l'attaccamento di Chessa al "suo" archivio, con il quale pareva
infine identificarsi totalmente, al punto di spostarsi ripetutamente
- in tarda età, non scordiamolo - da un capo all'altro della
penisola pur di mantenerlo in vita. Inoltre, il suo anarchismo
era tutt'altro che ingenuo. Non che si trattasse di un "intellettuale"
(categoria per la quale doveva nutrire una certa antipatia).
Dalla già citata intervista del 1978 si ricava l'impressione
di un convinto malatestiano, secondo il quale l'inevitabile
"rivoluzione" delle "moltitudini" avrebbe segnalato l'avvento
di un nuovo spirito umanitario e solidaristico. E tuttavia non
si sarebbe trattato dell'evento cui molti (nel 1978) pensavano:
"Da tante parti si parla di rivoluzione, credo pensando alla
rivoluzione armata, quella violenta finora conosciuta, ma vi
è nel sottobosco sociale una rivoluzione che sta avanzando a
grandi passi il progresso tecnologico le sta dando la spinta
finale". Membro dei GIA e dichiarato "antiorganizzatore", nell'intervista
del 1978 Aurelio coglieva con tagliente semplicità e in modo
esemplare il dilemma centrale nel pensiero anarchico, quello
tra autonomia dell'individuo e dimensione comunitaria: "Tutti
gli esseri viventi sono individualisti, cioè tendono a essere
se stessi, non potendosi configurare in altre persone. Assodato
che siamo tutti individualisti, bisogna chiarire che ciò nonostante,
e forse in conseguenza di questo motivo, gli esseri umani sono
solidali, tendenti cioè a salvaguardare la propria personalità
anche col concorso del proprio simile. Ne deriva che gli uomini
e le donne tendono a raggrupparsi liberamente con quanti non
facciano sforzo a sentirsi amici e compagni". "Quindi in quale
posizione mi colloco dentro la società?", chiedeva infine Aurelio,
fornendo una risposta di disarmante lucidità: "Nella sfera di
quanti che, pur desiderando di vivere insieme, non vogliono
sopraffarmi, rispettando la mia personalità e la mia individualità,
nella maniera in cui io rispetto gli altri. Ne deriva che mi
associerò con quanti non m'imporranno un metodo di vita costrittiva".
E' una conclusione che credo oggi molti condividano.
Pietro Adamo
(Milano)
I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni: Marco Breschi (Prato), 200.000;
Aurora e Paolo (Milano) ricordando Alfonso Failla,
1.000.000; Salvo Pappalardo (Mestre), 20.000; Albino
Trucano (Borgiallo), 20.000; Rocco Tannoia (Settimo
Milanese), 10.000; Tony Gei (Caltrano), 20.000; Carmelo
Musumeci (Parma), 20.000; Giuliano e suo figlio Valerio
(Centobuchi), 10.000; Fabio Santin (Mestre) ricordando
Marina Padovese, 500.000; Jean-Jeacques Gandini (Montpellier
- Francia), 20.000; Gaetano Ricciardo (Vigevano),
50.000; Roberto Marchioro (Milano), 20.000; Paolo
Mauri (Milano), 50.000; Pasquale Messina (Milano),
50.000; Lucio Brunetti (Campobasso), 10.000; Totale
lire 2.000.000.
Nell'elenco delle sottoscrizioni
pubblicato sullo scorso numero, é stato erroneamente
ripotato il nome del donatore della prima sottoscrizione
in elenco. Deve leggersi così: Rino De Michele (Zero
Branco) "per ciò che Marina mi ha dato", 100.000".
Abbonamenti Sostenitori: Laura Borgini (Grosseto),
250.000; Stefano Vittori (Latina), 150.000; Nicola
Piemontese (Monte Sant'Angelo), 150.000. Totale Lire
550.000.
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