rivista anarchica
anno 28 n.250
dicembre 1998 / gennaio 1999



a cura di Marco Pandin (marcpan@tin.it)

 

Blackbird

Lalli e Stefano, due storie distinte, eppure per lunghi tratti parallele se non incrociate, annodate. Due storie diverse, eppure troppo simili per essere tutta colpa del caso. Due nomi che su queste pagine hanno più volte trovato casa, a volte assieme, a volte ciascuno per proprio conto. Come questa volta.

Tempo di vento

Devo ammetterlo: mi ha fatto un certo effetto trovare in edicola il primo cd da solista di Lalli "Tempo di vento", pubblicato poco dopo la metà dello scorso settembre dal Manifesto.
Mi ha fatto piacere, ecco. Abituato come sono all'universo dei bassifondi della marginalità musicale, fatto di negozietti di dischi usati, bancarelle improvvisate e mailorder sotterranei, ho visto in questa collaborazione un primo e concreto passo in avanti rispetto alla precarietà tipica dell'editoria indipendente: e sto parlando del giro "nostro", beninteso.
In questi anni ho acquistato molte delle iniziative discografiche del Manifesto.
Nonostante gli inevitabili alti e bassi (hanno saputo alternare opere pregevoli - Assalti Frontali, Daniele Sepe, la raccolta "Trasmigrazioni" tanto per fare i primi nomi che mi vengono in mente - a cose francamente scadenti, di cui mi sono sbarazzato) mi sembra si possano identificare alcuni tratti comuni: sono dischi relativamente facili da reperire, sono realizzazioni che volando bassi potremmo definire "più che dignitose" dal punto di vista tecnico, e - cosa che non guasta - il prezzo (12mila lire) è più che accettabile.
Andando più a fondo, l'impressione generale positiva dell'inizio è sostanzialmente confermata dall'ascolto. E' chiaro che con "Tempo di vento" Lalli non è stata costretta a compromessi di alcun tipo: non avrebbe mai accettato un rapporto costrittivo pur di veder pubblicata una sua opera. Lalli no. E, davvero, non credo neppure che al Manifesto abbiano i pruriti tipici dei piccoli editori discografici indipendenti nostrani: lo si desume dall'eterogeneità dei titoli pubblicati, da quel comune senso di "progetto editoriale" dai confini troppo larghi per riuscire ad imprigionare le varie uscite in gabbie di target a seconda del genere o dello stile espressivo.
Ma veniamo più specificatamente a questo lavoro. Lalli ci ha da sempre abituato a canzoni dai testi tesi e vibranti, parole mai messe a caso ma dipinte sopra alla musica a formare memorie, sensazioni, ricordi. Succede che attraverso la sua voce si riesca a sentire il rumore della neve di Mostar, il crepitio dei fucili partigiani in montagna, il fruscio del tessuto di quel "famoso impermeabile azzurro" tanto caro al poeta Leonard Cohen, il primo profumo che accarezza il nostro naso e che non riusciamo a scordare mai (una breve parentesi personale: nell'ascoltare l'ultima canzone di questo cd mi sono improvvisamente reso conto di quanto sia triste e doloroso non avvertirne la presenza).
Pur trovandomi in una posizione privilegiata rispetto all'ascoltatore "normale" di questo album (nel senso che, oltre a conoscere l'autrice, ho avuto modo di ascoltare mesi fa quasi tutti i pezzi in una versione "work in progress") non posso non dirmi sorpreso del risultato. Piacevolmente sorpreso, ad essere precisi. Non c'è una canzone più bella dell'altra: direi che tutte sono di notevole valore, direi che tutte riescono a colpire al cuore. Mi piacciono i testi, come ho già detto, e sono rimasto affascinato dalle melodie di queste canzoni. Anche gli arrangiamenti sono di pregio: lontani dal gusto rockitaliano ufficiale, dalla citazione colta a tutti i costi, dalle somiglianze e dagli omaggi obbligatori.
Se non fossi ateo, mi sentirei più tranquillo nello scrivere questa frase: Lalli canta divinamente.
Già in una dimensione "di gruppo" (Franti, Ishi, Howth Castle, Environs) la sua voce, ricca di sfumature e colori, si sapeva trasformare in urlo e sussurro, sapeva volare alta nel cielo e giù nel profondo del mare: qui questa voce stupenda ha "osato" e si è spinta ancora più in avanti.
Lalli si è giocata tutto: in questo album ha messo tutta se stessa, generosamente e senza rimorsi nè pudore, ed è riuscita ad aggiungere un qualche cosa di tutto suo a quello che di lei già si sapeva attraverso le "vecchie" cose. Un tocco di femminilità profumata che, ad esempio, non c'era in Franti. Un velo sensuale di intimità che, ad esempio, non c'era in Ishi. Una sensibilità interpretativa che con Howth Castle ed Environs lei aveva solo lasciato intravedere appena.
In conclusione, con "Tempo di vento" non uno, ma molti passi in avanti: è un capolavoro da ascoltare e riascoltare. Grande, bella, emozionante Lalli: il suo è un regalo d'amore che dura ben oltre l'ultima nota che si disperde nell'aria.

 

Le stesse cose ritornano

Stefano Giaccone voleva lasciare un segno. L'ha fatto come è stato capace, cioè offrendo una manciata di canzoni che attraversano la testa e lasciano sempre qualcosa dentro, ad ogni passaggio.
Non sono vere canzoni, secondo me. Potrebbero essere più propriamente "poesie" messe in musica. Non che la dimensione melodica e musicale sia in second'ordine, tutt'altro: forse in nessun'altra sua realizzazione si sono eguagliati i vertici di questo "Le stesse cose ritornano" (pubblicato dalla piccola indie ligure On/Off), accreditato ufficialmente a un certo Tony Buddenbrook, uno pseudonimo volutamente pasticciato attorno al nome della protagonista di un'opera di Thomas Mann. Resta il fatto che il fuoco dell'attenzione è violentemente spostato sui testi, sulle parole, e sui silenzi - grevi di significato - che le separano.
Sono parole che raccontano le difficoltà del sentirsi fuori posto, del ritrovarsi a disagio nello scorrere del tempo (di questo tempo). Sono cronache di incontri che si sarebbero voluti diversi, di ricordi scomodi, di presenze forzate in luoghi che non si è voluto visitare. Sono biglietti d'addio - mai scritti - ad amici che non si vuol lasciar andare, dilatazioni del momento in cui ci si accorge che sono rimaste due dita di vino nel bicchiere ed è ora di andare via.
E' questa un tipo di malinconia che si fa riconoscere anche come nostra compagna e diviene contagiosa, proprio perché Stefano/Tony è riuscito a descrivere benissimo tutte le sfumature del grigio. Le stesse cose ritornano: dal ritmo del respiro si sviluppano cicli d'esistenza, pensieri ed emozioni che secondo questi cicli si accendono per poi affievolirsi e nascondersi dietro ad altri pensieri ed emozioni.
Un lavoro inquietante, da non ascoltare a cuor leggero o - peggio - con distrazione: un viaggio nelle strade buie della nostra testa, seguendo un itinerario di parole che porta proprio a quei ricordi che avevamo chiuso in soffitta assieme a una fuga vigliacca, a un conto non pagato, a una bugia e a un silenzio di cui ci vergognamo ancora.
Alcune copie di questi cd sono disponibili nella lista "Musica per A/Rivista Anarchica": grazie a Lalli e Stefano per la rinnovata generosità.

Marco Pandin