Mentre sto scrivendo i riflettori della
stampa internazionale si sono di nuovo rivolti al Kosovo. "Oggi
vi occupate di noi perché si spara!" diceva già
mesi fa la gente del Kosovo. Ci sono dei morti, ci sono profughi
che tentano di arrivare sulle coste italiane, c’è da
chiacchierare sul bombardare con gli aerei NATO o sospirare
su un nuovo possibile accordo diplomatico. Ma è amaro
che 10 anni di lotta non violenta albanese non sia considerata,
che le iniziative di pace come "I Care" cui abbiamo
partecipato non siano viste, ed è tragico per la gente
dover arrivare a considerare le armi, l’UCK (l’esercito di liberazione
albanese), la guerra come l’unica via d’uscita. Ci abbiamo provato
e ci proveremo, ad agire sulle cause, a prevenire, a conoscere
direttamente con il contatto umano, a informare, a intervenire
con il pacifismo attivo, con l’interposizione non violenta.
L’azione di pace "I care" (mi importa) è stato
questo; come già in Bosnia con "Mir Sada",
siamo andati, insieme ad altri 220 non violenti, nella capitale
Prishtina il 9 e 10 dicembre, in occasione del 50 anniversario
della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, lì
dove questi diritti non sono che un pezzo di carta, neanche
degno di entrare in un giornale. Non solo un gesto simbolico,
ma concreto, un modo di intendere l’ONU dei popoli, la società
civile attiva, ciò che forse, ad di là delle impostazioni
ideologiche, può rispondere allo strapotere degli interessi
militari (e sempre economici), all’ONU degli Stati; una società
civile si mobilita internazionalmente, mentre il potere economico
e militare diventa globale e l’ONU degli Stati ne è schiavizzata.
Torniamo a terra, 220 non violenti italiani. Malgrado la
mobilitazione sia internazionale solo gli italiani possono entrare
in Serbia senza visto. Organizzati per sottogruppi, o gruppi
di affinità, formati attraverso i training preparatori
non violenti; noi 10 "cronopietti" milanesi (altri
5 si aggiungeranno a Bari), affini per amicizia e per assonanze
libertarie, ci mischiamo agli altri gruppi di I Care
a Bari il 6 dicembre. "Mischiamoci non violenti" diventa
il nostro slogan, non solo messaggio verso l’esterno (qualcosa
di più di convivenza), ma anche intento all’interno:
gli organizzatori di I care sono infatti i Beati i
costruttori di pace (già di Mir Sada),
Pax Cristi e l’associazione Papa Giovanni XXIII (organizza
il Progetto colomba, quello dei ragazzi che vanno ad
abitare nei villaggi), insomma un ambiente cattolico, non usuale
per noi, ma che ha dimostrato negli anni apertura, capacità
sulla formazione, e determinazione su questo tipo di azioni.
Dopo una fiaccolata a Bari, il viaggio in traghetto e poi
in pullman attraverso il Montenegro, arriviamo la sera dell’8
dicembre a Prishtina, dove ci sistemiamo in una casa (una nuova
costruzione non terminata, offerta dagli albanesi) che la polizia
serba non gradisce, tanto che ci impedisce di uscire e di prendere
contatti con gli abitanti. Gli albanesi di Prishtina sanno del
nostro arrivo e ci accolgono con calore e con speranza; verremo
poi a sapere che quella casa era sede della facoltà clandestina
albanese di medicina, per cui il giorno dopo veniamo spostati
nel palazzetto dello sport, a fianco di un centro di profughi
serbi delle kraijne.
Tutta la giornata del 9 viene dedicata all’incontro, divisi
per gruppi di affinità, con tutte le realtà che
rappresentano la società civile e le istituzioni della
città, quindi uno specchio delle parti in causa. Con
l’intenzione di assumere un posizione di ascolto, abbiamo quindi
pacificamente invaso giornali, centri media, associazioni, entità
politiche, religiose, di solidarietà e della cooperazione
internazionale. Noi del gruppo Cronopios in particolare
abbiamo incontrato i due centri media (Media Centar Pristina
serbo e Kosova Information Center albanese), un giornale
serbo (Jedinstvo) e infine una associazione artistico
- culturale di ragazzi albanesi (post - pessimisti). La città
aveva un’aria normale, ma tutti quanti abbiamo sentito crescere
l’impressione di un muro invisibile, una separazione dentro
la quale affluivano tutte le tensioni: il dialogo impossibile
- gli albanesi vogliono l’indipendenza e accreditano l’UCK,
i serbi dicono che non ci sono problemi salvo le bande di terroristi
albanesi; in mezzo le associazioni di solidarietà che
non sanno più come fare - nessun segno del movimento
non violento albanese. Quando la sera dopo abbiamo fatto il
giro dei pub albanesi e serbi, abbiamo scavalcato questo muro
invisibile, passando dagli studenti albanesi, infervorati come
dei carbonari, alla tensione (aggressività e paura) dei
ragazzoni serbi.
Segni di un muro. Al giornale serbo, in un’atmosfera di
regime (è l’organo di stampa ufficiale del governo serbo)
ci traducevano frasi come: "la stampa estera dice solo
il falso", "quando le grandi potenze smetteranno di
appoggiare il terrorismo, noi faremo vedere come si trattano
le minoranze".
Il presidente del KIC (agenzia di stampa del governo parallelo
albanese) raccontava di aver partecipato al funerale della violenza
e poi di aver visto la strage di Drenica; no, non ci sono divisioni
tra albanesi violenti e non. Poi chiedeva aiuto all’Italia e
all’Europa. "L’acquisto di Telecom delle linee telefoniche
kosovare col governo Dini ha dato al governo serbo un mucchio
di soldi ora usati per la repressione".
Il centro media serbo vuole un’immagine del Kosovo all’estero
che attiri gli imprenditori, per cui "serve obiettivamente"
i media della stampa internazionale: "dagli accordi il
90% delle notizie fresche è sui terroristi".
In questa atmosfera un respiro più umano e aperto
è venuto sia dai post - pessimisti, ragazzi che si trovano
per attività artistiche e sociali, sia dagli studenti
incontrati il giorno dopo nell’università albanese, durante
il simposio "Tutti i diritti umani per tutti". L’aula
era piena e anche fuori c’era una grande voglia di parlarsi,
specie da parte degli studenti più impegnati politicamente,
membri dell’Unione studenti. Ragazzi in gamba, colti,
senza nessuna prospettiva di lavoro, con una grande decisione
all’indipendenza. Nel pomeriggio, per ricordare l’anniversario
della carta dei diritti umani, abbiamo sfilato per la città
in un corteo silenzioso, ostacolato e frazionato dalla polizia
serba, mentre in una piazza del centro un buddhista (di I
Care) pregava solo, dando un segnale di pace molto più
forte.
Questa azione di pace è piena di limiti, lo sappiamo:
limiti organizzativi, nella capacità di informare, nella
capacità di coinvolgere le molte persone che sono disposte
ad agire, limiti di incidenza. Che cosa sono 220 non violenti
per due giorni a Prishtina in confronto a centinaia di migliaia
di fuggiaschi albanesi, in confronto alle forze degli interessi
economici e politici? Nulla. Eppure, come già in Bosnia,
la nostra sensazione è di una grande potenzialità,
persone di grande umanità e valore. Alcuni sono ancora
là, ora, mentre sta per scoppiare la guerra, con il Progetto
colomba, "corpo civile nonviolento di pace"; come
in Chiapas, loro semplicemente vivono nei villaggi, favoriscono
il dialogo umano, condividono le condizioni difficili, proteggono
con la loro presenza, anche dopo le 17, quando l’ONU, gli OCSE,
le ONG e gli aiuti vanno via, quando inizia la paura.
"Il mondo di oggi ha bisogno di persone che abbiano
amore e lottino per la vita almeno con la stessa intensità
con cui altri si battono per la distruzione e la morte."
Gandhi
Dario Sabbadini
per il gruppo cronopios
Contattiamoci
Dario,
Paolo, Matteo del gruppo "cronopios"
coop. Alekos, via Plana, 49 Milano tel. 02-39264592
e-mail: alekos@spinnet.it;
www.spinnet.it/alekos/
in collaborazione con Gianna Nannini abbiamo realizzato
un video (4’) su "I Care".
"I Care" e altre iniziative sul Kosovo:
www.peacelink.it/care
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Prevenire, intervenire
1) "entro primavera scoppierà una
guerra" ci dicevano a Prishtina; già mentre
scrivo il conflitto sta esplodendo, e diventa ancora più
urgente EVITARE LA GUERRA, con tutte le mediazioni possibili,
con la politica internazionale, con le azioni di pace
come questa, con i media, con la presenza stabile delle
persone.
2) in generale, come in Kosovo, occorre prevenire
lo scontro invece che preoccuparsene dopo con la solidarietà,
gli aiuti e la cooperazione. La vendita di armi e la ricostruzione
dei territori che hanno avuto conflitti è un gigantesco
business che occorre fermare.
3) creare sensibilità e partecipazione attorno
al concetto di INTERPOSIZIONE NONVIOLENTA o di pacifismo
attivo, (che non aspetta), è quello che troviamo
sensato per evitare i conflitti. I popoli toccati dalla
guerra conservano inevitabilmente divisioni, rancori,
odio... e non c’è nessuna forma di cooperazione
che può risolvere sentimenti così profondi.
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In due righe il Kosovo
Il Kosovo è una regione
della Jugoslavia, confinante con l’Albania, a grande maggioranza
albanese. Su circa 2 milioni di abitanti, 9 su 10 sono
albanesi, nella ex - Repubblica Federale di Jugoslavia
il Kosovo era, come Provincia Autonoma, una delle unità
costituenti ed ogni grado di istruzione era impartito
in lingua albanese. Il governo della regione è
attualmente completamente in mano ai serbi, che attribuiscono
una grande importanza alla zona per motivi storici ed
economici; agli albanesi è vietato studiare ed
esprimersi nella propria lingua: i giornali, le case editrici,
radio, TV sono stati chiusi e ci sono stati licenziamenti
in massa di albanesi da ospedali, uffici pubblici, università.
Nel 1992 dal Kosovo è partita l’escalation nazionalistica
che ha portato alla dissoluzione della Jugoslavia ed alla
guerra in Croazia e Bosnia.
Oggi, nonostante una forte risposta non violenta della
popolazione albanese, la situazione sta precipitando per
il tentativo del governo di Belgrado di risolvere militarmente
il problema della richiesta di libertà degli albanesi
e perché si stanno affacciando alla ribalta anche
gruppi armati albanesi.
È importante ricordare che per la sua posizione
il Kosovo è una zona nevralgica ed un conflitto
minaccerebbe di coinvolgere Albania, Macedonia, Grecia,
con conseguenze difficilmente immaginabili.
Numeri di una voragine
partealbanese:
• 90% popolazione di lingua, etnia e cultura albanese
• 40% della popolazione albanese fuggita
• 1827 persone uccise (serbi e albanesi) 1998
• 761 arrestati e scomparsi
• 1200 persone sotto processo
• 432 villaggi, 12.000 case distrutti
• 1 poliziotto ogni 70 persone (140 in Croazia, 290 in
Ungheria)
• notizie: Kosova Information Center: www.kosova.com
parteserba:
• Il kosovo è una regione cuore della serbia
• 219 persone uccise (serbi e albanesi), tutti per mano
dei terroristi
• il separatismo è un problema interno serbo
• i media stranieri dicono il falsounità Europea,
e che gli interessi dei singoli paesi a dividersi il mercato
dei Balcani portando avanti esclusivamente la propria
politica di affari (che sembra trasparire dalla velocità
con cui molti paesi si sono affrettati a riconoscere la
R.F.Y. senza che il problema del Kossovo venisse prima
risolto), siano per un momento messi a tacere, e predomini
invece l’interesse collettivo ad una pace giusta ed alla
prevenzione dei conflitti armati. E che questo porti a
farli intervenire rapidamente ed in modo risolutivo in
una situazione che merita il loro appoggio, e che essi
non confermino l’opinione di molti albanesi che la comunità
internazionale, e l’Europa in particolare, capisce solo
il linguaggio delle armi (e, si potrebbe aggiungere, degli
interessi economici) e non quello della pace e della nonviolenza.
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