Premessa. Il Vero, da lungi, è
il valore per eccellenza. È la contropartita linguistica
del Reale. Chi dimostra il Vero detiene il sapere e, conseguentemente,
come minimo, serve il potere. La filosofia lo fa derivare da
un impossibile confronto fra l’ordo idearum e l’ordo
rerum. Così si demanda alla Natura o a qualche suo
demiurgo privilegiato, la responsabilità di chi percepisce
e di chi racconta. Rinunciando alla filosofia - e all’illusorio
fondamento di cui fornirebbe il sapere -, si potrebbe considerare
il vero come il risultato di un confronto tra i risultati di
due serie di operazioni: quando risulta una differenza, invece,
parliamo di falso. Negare il valore di verità - dire
"non è vero" -, a volte, può essere
salutare, può far aprire gli occhi a chi sonnecchia nel
conformismo; ma guai a pensare che la soluzione dei nostri problemi
stia semplicemente nel dire "è falso". La rivoluzione
sociale può avvenire solo a patto di fare a meno delle
categorie in uso nel mondo che va rovesciato. Dunque, è
alla coppia del vero e del falso valorizzati che occorre saper
rinunciare.
Ciò premesso, posso snocciolare qualche caso esemplare.
Nel 1972, in vista delle elezioni americane, il Wall Street
Journal pubblicò un’intera pagina di pubblicità
pagata dal "Comitato per la rielezione di Richard Nixon".
Avrebbe dovuto essere abbellita da un contorno di bandierine
americane, ma qualcuno provvide ad alternare le bandierine con
piccole svastiche. Qualcuno che, evidentemente, aveva idee chiare
su Nixon e sull’America e che, il giorno dopo, a quanto spiegò
la direzione del giornale, scoperto e individuato in tipografia,
venne licenziato.
Un altro caso è quello della vigilia di Natale del 1996
a Udine. Alcuni negozi del centro cittadino non poterono aprire,
perché qualcuno - qualcuno che aveva le idee chiare sulla
funzione mercantile delle feste religiose - aveva versato colla
al silicone nelle serrature.
Sono casi contro i quali una società ben organizzata
si protegge - con norme per governare i contratti di lavoro
e con la polizia.
Un
punto in alto
Appendere invece un biglietto, per esempio, ad un ramo di un
albero in un parco o in un luogo poco frequentato della città
- un biglietto su cui è scritto: "Chiudi gli occhi
e immagina di vedere un quadrato di colore giallo limone/ il
quadrato è ghiacciato/ al centro ha una rosa/ questa
rosa è rosso fuoco/ profuma intensamente/ da essa esce
un vermetto/ un vermetto lilla/ con la testa di una papera/
Ora alza le mani in alto/ e chiudi bene la bocca che stiamo
per rapinarti" - appenderlo, in fin dei conti, dovrebbe
esser del tutto legittimo e nessuno dovrebbe importunare chi
avesse avuto la simpatica idea di appenderlo. Una dichiarazione
poetica di rapina è una cosa, e tutt’altra cosa è
una rapina e, forse, tutt’altra cosa è anche una rapina
previa dichiarazione poetica.
Anche se ci mettiamo d’accordo in tre o quattro a fermarci per
la strada, fissare un punto in alto, sul caseggiato di fronte,
e ogni tanto indicare con la mano, non dovrebbe farci incorrere
nei rigori della legge. Lassù non succede alcunché
e i passanti saranno indotti a fermarsi e a guardare anch’essi
- secondo un modello evolutivo epidemiologico -, magari chiedendo
cosa sta succedendo, ma lo spostamento dell’attenzione altrui
non è ancora un reato.
Un altro modo più incisivo di invadere il pensiero altrui
è quello di avvicinarsi ad un’automobile parcheggiata
e, sveltamente, infilare sotto il parabrezza un bigliettino
di scuse. Ci si scusa con il proprietario per aver urtato la
sua auto e gli si lascia anche il numero di telefono per gli
eventuali danni. Il fatto che l’auto sia perfettamente integra
creerà un bel tipo di problema al proprietario. L’ordine
delle cose gli apparirà d’improvviso rovesciato e, per
qualche minuto o qualche ora, vivrà con preoccupazione
lo spaesamento della novità. C’è una Verità
ormai abituale che viene disattesa.
Sono tutti esempi che ho tratto da Non è vero,
un bel libro di Edoardo De Falchi edito da Odradek. È
un libro dedicato alla disordinazione sociale, ovvero a quel
che ciascuno di noi può fare per indurre il proprio prossimo
ad una riconsiderazione critica delle norme implicite e della
relative segnaletiche che governano la nostra vita associata.
Si tratta di proporre un momento di consapevolezza in alternativa
all’automatismo demente con cui eseguiamo il nostro spartito
nel ripetitivo palinsesto della vita quotidiana. Nella maggior
parte dei casi non si tratta neppure di mettere a rischio il
posto di lavoro o di commettere reati, eppure si tratta di gesti
coraggiosi. Coraggiosi perché mettono in crisi le minutaglie
scontate della viltà sociale di tutti i giorni - farsi
largo tra la folla obbediente e dire che "non è
vero".
Città, ragazza al volante, coda terrificante, traffico
pressoché bloccato. Abbiamo imparato ad accettare supinamente
questo scandalo quotidiano. Al semaforo. Extracomunitario propone
lavata di vetri e fregandosene del rifiuto della ragazza lava
lo stesso. Dietro suonano ripetutamente il clacson. Abbiamo
anche imparato ad accettare supinamente che alle ragazze al
volante si possa suonare e risuonare clacson di rimproveri rimanendo
impuniti. Il clacson diventa più violento se alla ragazza
si aggiunge l’extracomunitario. Due oggetti di violenza libera
e, in più, apparentemente in combutta fra loro (anzi:
agli occhi del maschilista, perennemente in combutta fra loro).
A questo punto la ragazza spegne il motore dell’auto e scende.
Il suonatore di clacson urla e bestemmia rimanendo al sicuro
nel suo tabernacolo. Arriva in compenso un altro, che non ha
capito. Dice: "signorina, le si è fermata l’auto,
dia qui le chiavi che ci penso io". Il presupposto del
maschio è tuttora quello dell’inettitudine della femmina.
Lei gli dice: "no, guardi, non è la macchina che
non funziona, a me i colpi di clacson fanno male e, a questo
punto, non funziono più io".
Anche un episodio come questo può stare fra i necessari
prolegomeni della critica al sistema di valori.
Felice Accame
P.S. Non è vero è un libro utile non solo
per le tesi che sostiene, ma anche per alcune sue strane pagine
conclusive. Provvede il lettore, infatti, di adesivi perché
- come un "piccolo chimico" della vita sociale - promuova
le sue personali disordinazioni sul posto di lavoro, per la
strada, al supermercato o in altri luoghi pubblici dell’anonimato
collettivo. C’è l’adesivo che dice semplicemente "Vergogna",
c’è quello che dice "Questa affissione è
vietata ai sensi dell’art. 663 C.P.", oppure "Non
è vero". A me personalmente piacciono "Premere
con forza qui" e "Fuori servizio": l’ideale per
bancomat e per apparecchi telefonici.
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