rivista anarchica
anno 29 n.251
febbraio 1999


Va’ pensiero (anarchico)...
intervista a Giampietro "Nico" Berti
a cura di Franco Melandri

 

Più di mille pagine sull’anarchismo tra ’700 e ’900. L’ultimo libro di Berti rappresenta una pietra miliare nella riflessione teorica anarchica.

Per i tipi di Piero Lacaita Editore, Giampietro (Nico) Berti ha recentemente pubblicato Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, un’opera che, consapevolmente, si pone come inevitabile punto fermo con cui chiunque voglia occuparsi dell’anarchismo non può non confrontarsi. Nelle sue mille densissime pagine, infatti, non solo viene ripercorso e analizzato, attraverso i suoi pensatori più rappresentativi, il farsi del pensiero anarchico, ma vengono anche tematizzati ed evidenziati i nodi problematici e le questioni aporetiche che le teorizzazione anarchiche non hanno saputo, o potuto, risolvere.
Proprio tenendo sullo sfondo tali questioni si è svolta la conversazione di cui quanto segue è poco più che un frammento
.

F.M.

Il tuo libro è sicuramente l’opera analitica più profonda e completa che sia mai stata dedicata al complesso del pensiero anarchico. Proprio la sua completezza, però, fa nascere un problema, poiché la storia analitica di una data questione è possibile solo quando quella stessa questione ci si presenta come compiuta, per cui la tua storia è, o rischia di essere, anche un epitaffio per il pensiero che esamina...

L’anarchismo che ho analizzato e storicizzato è quell’anarchismo che conclude il suo ciclo al più tardi con la rivoluzione spagnola, anche se fra gli autori che ho esaminato ci sono Caffi, Rizzi, Rocker, che hanno prodotto alcune delle loro cose migliori dopo quel punto di frattura. Questo, però, non vuol dire che il mio libro voglia essere un epitaffio, non ho detto "Questo, e solo questo, è il pensiero anarchico", semplicemente ho analizzato quel pensiero anarchico che normalmente chiamiamo "classico", il quale si è indubbiamente chiuso con la rivoluzione spagnola e la seconda guerra mondiale. Anche se non c’è una vera e propria soluzione di continuità, è infatti indubbio che dopo la seconda guerra mondiale l’anarchismo sia una cosa molto diversa da quello precedente. Fra l’anarchismo postbellico e quello precedente c’è lo stesso rapporto che c’è fra padre e figlio: senza quel padre non ci sarebbe quel figlio, ma il figlio è altro rispetto al padre. L’anarchismo del secondo dopoguerra è sempre anarchismo, certamente, ma non è più quell’anarchismo, non è più l’anarchismo "classico".
Il quale, fra l’altro, forse ha concluso il suo ciclo storico ancor prima della rivoluzione spagnola, cioè con la prima guerra mondiale e soprattutto con la rivoluzione russa, che mise in moto un ciclo rivoluzionario enorme, il quale, però, non era quello sperato dall’anarchismo perché, nonostante le tante speranze che alimentò fra gli anarchici, poco aveva a che fare con le possibilità reali di una rivoluzione anarchica.
Quindi, anche se dopo la seconda guerra mondiale si continua a parlare di Bakunin e Malatesta, quello di cui anche noi siamo partecipi è un anarchismo "altro" rispetto a quello di Bakunin e Malatesta, è un’altra cosa ed è impossibile non tenerne conto. Questo è uno dei tanti problemi che il mio libro pone e non risolve perché, come tutte le opere che non vogliono essere dogmatiche, non pretende di rispondere a tutti i problemi che apre.

 

Insuperabile contraddizione

L’introduzione - esplicativamente intitolata Sulla natura storica e ideologica dell’anarchismo. (nella storia, ma contro la storia) - è certamente la parte più densa dal punto di vista teorico, ed in essa tu evidenzi come la genesi dell’anarchismo si dia, contemporaneamente, come punta estrema della secolarizzazione e come risposta alla stessa secolarizzazione, come "fuoriuscita" da essa. Ma, come tu dici, qualsiasi uscita dalla secolarizzazione non può che essere in qualche modo religiosa. Questo, indubbiamente, è un dato profondamente contraddittorio, anche se è una contraddittorietà che gli anarchici hanno raramente riconosciuto e tematizzato...

Che l’anarchismo sia, almeno in un certo senso, contraddittorio è sicuramente vero, ma è una contraddittorietà che si potrebbe quasi spiegare con una banalità: tutto quel che è vivo è contraddittorio e l’anarchismo non può non esserlo proprio perché è un pensiero vivo.
Il pensiero anarchico non si è costituito a tavolino, quasi sempre, anzi, è stato l’espressione di un movimento storico sociale forte, almeno in alcuni paesi, e quindi ha dovuto mediarsi con le istanze di quegli stessi movimenti.
Non dimentichiamoci che se, dal lato prettamente teorico, l’anarchismo è equidistante dal liberalismo e dal socialismo, dall’altro lato, cioè da quello storico, esso è stato profondamente partecipe del movimento socialista, cioè del movimento che si costituisce soprattutto sulla richiesta di uguaglianza. Questa contraddittorietà costitutiva si manifesta nel fatto che l’anarchismo si sostanzia attraverso un’analisi critica estremamente razionale e disincantata, è cioè la punta estrema della secolarizzazione, che, però, è motivata dall’esigenza, eminentemente a - razionale, di dare senso a ciò che critica e discute. L’esigenza di senso è per sua natura a - razionale perché ogni senso, se vuole avere una valenza forte, al suo fondo è religioso, anche se la religiosità non necessariamente è quella dottrinaria e teologica delle religioni rivelate. La religiosità che l’anarchismo esprime è perciò una religiosità che, fedele all’etimo della parola - religione deriva da relegere, che vuol dire "raccogliere, mettere insieme" -, ricerca soprattutto un afflato, un sentire forte, che accomuni.
Costituendosi attorno a questi nodi concettuali contraddittori, l’anarchismo non può che presentarsi, anche nel suo "nocciolo duro", duplice ed è sempre per questo che esso è, come dico da tempo, "nella storia, ma contro la storia".
La consapevolezza della contraddittorietà esistente fra l’essere disincantati e contemporaneamente partecipi di un ethos forte è, secondo me, molto visibile in Malatesta, che è stato un pensatore di eccezionale statura teoretica, per vari aspetti molto superiore a Kropotkin, ed è il teorico che più di tutti ha portato l’anarchismo all’estrema sintesi. In Malatesta, soprattutto nel Malatesta della maturità, è sempre ben visibile quel "pessimismo della ragione e ottimismo della volontà" che bene rispecchia la contraddizione che sta alla base dell’anarchismo, così come è visibile la volontà di non risolvere tale contraddizione, ma di renderla positivamente agente. Malatesta si rende conto che, come già aveva detto Proudhon, questa contraddizione è insuperabile, perché l’esperienza umana è sempre contraddittoria, non si dà mai in modo univoco, ma proprio l’assumere consapevolmente questa impossibilità come fondante è fonte di ricchezza. Questa contraddittorietà, infatti, fa sì che l’anarchismo non sia mai racchiudibile in una dottrina codificata e questo sicuramente è più un bene che un male, perché non esiste una società, neanche quella anarchica, che sia fondata semplicemente sulla critica distruttiva di un principio, nello specifico il principio di autorità. Le società hanno bisogno di principi a - razionali per vivere, come dirà anche Castoriadis settant’anni dopo Malatesta. L’"immaginario sociale" di cui parla Castoriadis non vuol certo dire il credere alla befana, semplicemente vuol dire partecipare a un sentire comune e credere a dei valori comuni che sono a - razionali perché non sono fondabili razionalmente.

La secolarizzazione è però anche quel processo che, mostrando come ogni concettualizzazione metafisica sia insostenibile alla luce della ragione, fa sì che anche la politica - cioè l’ambito, determinato e definito dal potere, in cui la società viene ordinata - si liberi da tutte le pastoie di ordine etico e religioso che fino ad allora l’avevano, almeno formalmente, determinata. In questo modo, tuttavia, la politica non solo si rivela irriducibile a qualsiasi altro ambito, ma diventa anche lo spazio in cui, ineludibilmente, chiunque voglia occuparsi del vivere sociale deve scendere. Ancora una volta, però, questo evidenzia una contraddizione dell’anarchismo: essendo figlio della modernità non può che porsi come movimento politico, ma negando, - in un afflato di tipo religioso -, ogni potere il modo in cui lo fa è quello di negare in toto la politica, che vede principalmente come ambito del potere inteso come dominio. Così facendo, però, l’anarchismo si autopreclude ogni sorta di altra comprensione della politica, non cerca cioè di capire se essa sia solo l’ambito del potere/dominio, o possa essere anche l’ambito di modi libertari di gestione delle relazioni umane...

Io credo che la concezione più calzante della politica sia quella espressa dalla tradizione machiavellica e, in parte, dalla tradizione liberale. Per questa tradizione la politica è quell’ambito in cui interessi di tutti i tipi -politici, economici, sociali, estetici, etici, sessuali, ideologici, religiosi- si scontrano nella lotta per il potere. Contrariamente a quanto dice il marxismo, pertanto, la politica non è solo lo specchio della lotta di classe, della lotta sul terreno economico, ma è il luogo del conflitto come tale che, proprio per quel che dicevo prima, non è mai compiutamente eliminabile. Considerando tutto questo, è indubbio che nella modernità la politica si ponga come il luogo privilegiato in cui, attraverso le istituzioni, questi conflitti interumani possono trovare una composizione lasciando, contemporaneamente, che le teorie che interpretano e rappresentano questi conflitti continuino a misurasi fra loro.
Se questa, in generale, è la politica, l’anarchismo si rapporta ad essa da un lato come un’ennesima teoria su questi conflitti, ma, contemporaneamente, anche come quel movimento che ritiene di avere la risposta che farebbe scomparire i conflitti più laceranti. Per l’anarchismo, infatti, in una società anarchica non scompariranno i conflitti intesi come dinamica vitale, ma scompariranno i conflitti che fanno nascere la politica come ambito separato, come ambito del potere.

In Spagna per esempio

Questa visione, però, pone fra parentesi la questione della sovranità. Il Principe di Machiavelli, certo già libero da giustificazioni di tipo etico e religioso, rimane tuttavia l’incarnazione della sovranità; ed è questa sovranità esibita, riconoscibile, che la modernità mette in discussione. Non a caso, con le democrazie moderne, la sovranità viene astrattamente posta "nel popolo", che in tal modo formalmente la detiene, mentre praticamente si ritrova sottomesso ad una sovranità senza nome, che si cela e quasi si nega come sovranità, così diventando, di fatto, puro arbitrio.
Considerando tutto questo, l’anarchismo vive una condizione paradossale: essendo un movimento politico con una sua visione del mondo non può che cercare di attuare la sovranità di cui, all’atto pratico, è portatore, contemporaneamente, però, nega questo suo essere portatore di una sovranità specifica, col risultato o di attribuirla meccanicamente all’insieme degli esseri umani, con ciò finendo o nello stesso paradosso delle democrazie o nella negazione tout court della sovranità, la qual cosa renderebbe impossibile anche il reggersi di una futura società anarchica...

Indubbiamente la questione della politica è la questione della sovranità, la qual cosa permette di cogliere bene le differenze che intercorrono tra liberalismo, anarchismo e democrazia.
La domanda fondamentale della politica, che sicuramente la modernità contribuisce a chiarire, è "Chi decide e come?", una domanda alla quale il democratico risponde che a decidere deve essere la maggioranza del popolo, mentre il liberale "bypassa" tale domanda, in quanto la questione fondamentale che si pone è "Come dobbiamo controllare chi decide?", senza preoccuparsi più di tanto chi sia poi a decidere. Pur nella notevole diversità - il democratico è sicuramente più incline al repubblicanesimo parlamentare, mentre ci sono società liberali che sono monarchiche o in cui il presidente della repubblica ha poteri enormi -, sia la concezione democratica che quella liberale implicano quindi che comunque ci debba essere qualcuno di specifico che decide, mentre la domanda che l’anarchico si pone è "Come dobbiamo fare perché tutti gli uomini possano decidere?" e "tutti" in questo caso non significa "il popolo", cioè i cittadini maggiorenni, significa proprio "tutti". Alla domanda che lui stesso pone, perciò, l’anarchismo risponde che tutti potranno decidere solo quando sarà abolito il potere come sovranità separata, quindi quando sarà abolita la politica.
È considerando tutto questo che la rivoluzione spagnola diventa veramente un caso paradigmatico dell’anarchismo "classico", perché è lì che l’anarchismo si trova a dover fare i conti con se stesso.
In Spagna, grazie alla loro forza e alla prontezza della loro risposta al golpe franchista, gli anarchici si sono trovati nella condizione di poter determinare le cose, cioè di, non bisogna spaventarsi per la parola, "prendere il potere", ma non l’hanno fatto perché vi erano impediti dalle loro stesse concezioni. Quello che gli anarchici non hanno capito è che "prendere il potere" non significa solo prendere il Palazzo d’inverno, cioè impadronirsi delle istituzioni e usarle, e neanche significa che devi costringere la gente a fare quello che vuoi tu. "Prendere il potere" semplicemente significa esercitare tutta la forza che si è capaci di esercitare, quindi esplicitare al massimo i rapporti di forza, la qual cosa in Spagna avrebbe significato che gli anarchici non impedivano a nessuno di fare una certa cosa, ma impedivano ad altri di esercitare un potere su di loro.
Per spiegare quello che voglio dire mettiamo che, come si vede anche nel film Terra e libertà, ci fosse un villaggio in cui erano stati cacciati i padroni e i rappresentanti del governo. Ovviamente, subito comunisti, collettivisti ed individualisti, avrebbero dovuto confrontarsi per decidere che fare ed è in tale confronto che gli anarchici dovevano far sì che nessuno impedisse all’individualista di fare quello che voleva, così come l’individualista non poteva impedire ai comunisti anarchici di fare il comunismo. Agendo in questo modo non ci sarebbe stata una maggioranza che si impone ad una minoranza, come accade con la democrazia, ma un inizio di anarchia, ed in un’anarchia gli anarchici perseguono il loro ideale, gli altri che facciano quello che vogliono, quello che conta è che nessuno si imponga agli altri. In Spagna, però, gli anarchici non hanno tentato di agire in questo modo, non hanno veramente tentato di fare l’anarchia, neanche laddove c’erano le collettività anarchiche. A Barcellona la maggioranza dei rivoluzionari era anarchica e doveva imporre la sua forza, non sedersi, in una logica suicida, allo stesso tavolo con le altre forze repubblicane, che di forza ne avevano molta meno, e decidere che ogni organizzazione contava un voto e la maggioranza dei voti vinceva. Quella fu una decisone demenziale: ai comunisti marxisti, ai repubblicani, bisognava solo riconoscere il potere che realmente detenevano e regolare i rapporti sulla base di esso, non dargli, in omaggio all’uguaglianza democratica, un potere che non avevano. Prendere una strada simile a quella che sto cercando di delineare avrebbe significato che non si impediva loro di fare quanto ritenevano giusto, ma certo si sarebbe impedito loro di obbligare, come poi è successo, gli anarchici a fare quello che volevano loro. Fare in questo modo probabilmente significa praticare un potere, ma un potere che permette di fare, non un potere che impedisce di fare o obbliga a fare. Se infatti, ritornando all’esempio del villaggio, la minoranza, pur potendolo, non fosse stata in grado di fare quello che desiderava, non era un problema della maggioranza. Questo almeno in teoria, perché nella pratica c’erano altri diecimila problemi: nel 1936 Barcellona aveva un milione di abitanti che necessitavano di derrate alimentari, trasporti, abiti, eccetera...
Il dramma dell’anarchismo spagnolo, comunque, è stato innanzitutto quello di non avere una teoria politica, la qual cosa ha permesso ai comunisti di giocare tutto sul loro terreno.

Se gli anarchici spagnoli avessero fatto come dici tu avrebbero comunque esercitato una sovranità, avrebbero cioè creato e delimitato uno spazio in cui certe cose erano permesse e altre no. Anche permettere alla minoranza individualista di non collettivizzare la terra, per rimanere al tuo esempio, ha comunque come condizione di possibilità sia che padroni e governanti se ne siano andati - cioè che si crei una mancanza di sovranità -, sia che venga impedita l’imposizione di un sistema diverso, cioè che una nuova sovranità venga esercitata. Qui sta, a mio parere, una delle aporie delle teorie anarchiche classiche: il mancato riconoscimento della inevitabilità della sovranità come atto in un certo modo arbitrario. Anche creare una società il più possibile libera, infatti, altro non è che la creazione di una sovranità, di uno spazio in cui certe regole e fini sono ammessi ed altri no...

Quel che dici è vero, ma rendere possibile che ci si organizzi come meglio si crede non è imporre un potere/dominio: come diceva Malatesta, una volta fatta la rivoluzione noi non imponiamo niente a nessuno, basta che nessuno imponga niente a noi. In Spagna non si poteva fare l’anarchia, non tutti erano anarchici, si poteva però avviare una rivoluzione anarchica, cioè avviare un processo entro il quale la stragrande parte dell’opinione pubblica della Catalogna fosse orientata, almeno a grandi linee, verso le idealità anarchiche.
Detto questo rimane vero il fatto che nella tradizione anarchica classica una riflessione sulla sovranità manca...

Ma una tale riflessione - che implica necessariamente, per quel che si diceva sopra, anche una riflessione sulla politica - può essere compatibile con il senso che l’anarchismo esprime?

Io penso di sì, o meglio: sono convinto della necessità che l’anarchismo "post seconda guerra mondiale", l’anarchismo contemporaneo, si interroghi su questo punto, ma questo è un compito che deve essere affrontato dai teorici.


Giampietro Berti in una caricatura
del figlio Francesco

 

Ma quale rivoluzione?

Prima hai detto una delle parole - cardine dell’anarchismo: rivoluzione. È attraverso l’idea della rivoluzione che, come sottolinei nel libro, l’anarchismo ha cercato di eliminare la contraddizione che cercavo di mettere in luce prima. L’anarchismo, infatti, pensa la rivoluzione come l’evento che permette il ritorno di tutti gli esseri umani ad una naturalità sostanzialmente armoniosa che la storia e la società avrebbero traviato. Anche il Malatesta che critica il meccanicismo armonicista di Kropotkin non riesce a cogliere che, se la "natura" umana non esiste o, ed è praticamente la stessa cosa, è tutto e il contrario di tutto, la rivoluzione altro non è, e non può che essere, un atto di sovranità politica che va come tale riconosciuto e agito...

Questa è sicuramente una questione aperta.
Certamente, come diceva Malatesta, l’anarchia si fa dove ci sono gli anarchici, ma se si intende la libertà come spontaneità sociale, come l’anarchismo ha spesso fatto, una volta che la rivoluzione viene messa in atto occorre che essa lasci libero corso a questa stessa spontaneità, la quale, però, va dove vuole, non si può pretendere che vada là dove desiderano gli anarchici.
Il problema che sta al fondo di tale questione è che non è possibile avere nessuna idea di società se, contemporaneamente, non si ha anche un’idea della natura umana. Ogni idea di società, infatti, per sua stessa natura implica una proiezione di valori e una configurazione di che cosa dev’essere l’uomo. Senza questa operazione non è possibile immaginare, neanche in modo embrionale, nessuna società, e finché, sulla scorta dell’illuminismo e del positivismo, l’anarchismo ha potuto pensare che l’essere umano fosse non solo un essere sociale, ma soprattutto un essere la cui socialità tenderebbe ad una solidarietà di fondo, è stato possibile pensare rivoluzione e anarchismo come momenti di uno stesso processo.
Questo è l’anarchismo cui Kropotkin, con tante ingenuità ma anche con intuizioni geniali, ha dato la veste teoricamente più articolata che, fra l’altro, ha influenzato tutta una parte della sociologia e dell’urbanistica odierne. Per Kropotkin, semplificando, natura - uomo - società sono tre elementi diversi di una stessa configurazione, nella quale, come recita uno dei suoi libri più famosi, l’elemento cardine è il mutuo appoggio, la solidarietà, anche se, nel caso dell’uomo, la naturale tendenza alla solidarietà, per essere operativa, deve essere riconosciuta come tale e fatta oggetto della volontà.
Oggi certo questa concezione armonicistica e positivistica non può più essere sostenuta, ed è qui che si evidenzia la frattura fra la rivoluzione e l’anarchismo. Se infatti non è più possibile pensare la rivoluzione come rottura delle costruzioni sociali che impedivano l’esplicarsi della solidarietà umana, la questione della sovranità diventa centrale, come diventa centrale la questione della politica, che non può più, come in passato, essere risolta nell’etica. Per l’anarchismo, perciò, è oggi importante ritornare a interrogarsi su cosa è l’essere umano. Su questo terreno, come dicevo, gran parte delle idee di Kropotkin sicuramente non sono più sostenibili, ma io penso non si possa neanche accettare in pieno quanto, per esempio, sosteneva Foucault, per il quale non si può tanto parlare di "uomini", ma di "strutture dell’umano", del tutto storiche e plasmabili a piacere. Non sono uno specialista di Foucault, ma mi pare che, per dirla in termini filosofici, in delle concezioni ontologiche indefinite non sia possibile trovare delle valenze libertarie che, invece, necessitano al loro fondo di un’idea libertaria della persona, dell’uomo.
Oltre a questo, poi, mi pare che nella paura di dare delle chiare definizioni dell’uomo si nasconda una sorta di "fondamentalismo neo ideologico" perché, rifiutandosi di dire quello che l’uomo deve essere, si finisce, in una sorta di gnosi rovesciata, per darne una definizione ontologica negativa che non rispecchia certo quel che tanti esseri umani sono. È per tutto questo che continuo a pensare che l’anarchismo non debba spaventarsi di avere delle idee precise, anche perché avere delle idee chiare, definite, non significa meccanicamente essere dogmatici e rifiutare il confronto e la ricerca.

Dicendo questo, però, tu ti stai conformando alla classica concezione anarchica per cui la storia sarebbe di fatto sempre aperta al "farsi della libertà", per dirla con le tue parole.
Nel libro, però, sottolinei come l’anarchismo, ponendosi nella luce di questo "farsi", di fatto elimini il portato determinante cui la storia ci costringe, cioè la politica, che infatti, come dicevamo prima, non viene come tale agita dagli anarchici...

Io penso che la storia, come diceva anche Tolstoj, non solo non sia razionale, ma neanche spiegabile, perché se fosse razionale e spiegabile tutti potrebbero dire che cosa capiterà domani mattina, fra un mese o fra dieci anni. Il fatto che la storia non sia razionalmente prevedibile non vuole però dire che, a posteriori, noi non possiamo cercare di spiegare in modo razionale quello che è capitato ieri o un anno fa.
Compiendo questa operazione non è certo storicistico, non è teleologico, mostrare che non poteva che andare così come è andata, perché guardando all’indietro diventiamo consapevoli di elementi che, nel vivo della situazione, non erano visibili o non sembravano avere il peso che, invece, hanno poi assunto. Noi non abbiamo strumenti sufficienti per spiegare completamente come è stata selezionata la combinazione che ha portato al fascismo, così come non potremo mai veramente sapere perché quelli che allora sembravano dei possibili esiti alternativi al fascismo siano andati persi, possiamo solo studiare e interrogarci continuamente. Però attenzione: dire che non possiamo mai veramente sapere come e perché funziona la storia non significa dire che tutto è possibile, non dobbiamo cadere in una forma di possibilismo rivoluzionario: se, da un lato, nella storia continuamente si danno delle possibilità di mutarne il corso, dall’altro queste possibilità non sono infinite, sono anch’esse determinate. È in questo sapere che ci sono delle determinate possibilità e non altre che la storia mostra, se così si può dire, la sua "dimensione libera".

Nell’analisi che fai del "nocciolo duro" dell’anarchismo, cioè nell’analisi dell’idea di "anarchia", tu sottolinei che al centro della configurazione dei valori anarchici non solo c’è, ovviamente, la libertà, ma evidenzi anche che essa, alla fin fine, risulta impensabile come tale, indefinibile...

La libertà è il detto e non detto di Stirner, e come universale è, in effetti, indefinibile. Ogni definizione della libertà, infatti, non può che riferirsi alla libertà in un dato contesto, ma non può mai cogliere l’universale della libertà, la libertà in sé, perché la libertà in sé è quella definizione che sfugge a ogni definizione. Questo non è un gioco di parole, perché se io dico: "Questa è la libertà" tu puoi sempre ribattere che non posso negarti la libertà di definire in modo diverso cosa è per te la libertà. Conseguentemente gli anarchici possono dire cosa loro intendono per libertà - e la loro è forse la definizione più completa, più esaustiva, quella più vicina all’essenza della libertà -, ma questo non può far dimenticare che, proprio perché stiamo parlando della libertà, anche la loro definizione non è universale, valida per tutti, e quindi occorre accettare anche le altre definizioni della libertà. Certamente queste altre definizioni, per poter essere considerate "libertà", sono accettabili solamente se sono compatibili con una definizione neutra e formale della libertà, cioè con una definizione in grado di poterle comprendere tutte. È per questo che, ad esempio, la libertà non può mai essere quella di chi vuole distruggere la libertà perché, anche ammettendo concettualmente che questa sia una libertà, è una libertà che non può essere inscritta nella definizione neutra e formale della libertà stessa. In questo senso l’anarchismo partecipa dell’accezione liberale della libertà, cioè partecipa della libertà in senso kantiano, ma anche la supera perché, mentre i liberali non vanno oltre alla concezione neutro - formale della libertà, l’anarchismo cerca di tenerla sempre aperta a quanto non è formale. Questo, fra l’altro, è uno degli elementi che distingue l’anarchismo dal marxismo, che ha una concezione "sostanzialistica" della libertà in quanto la fa coincidere con l’uguaglianza economica. Diversamente dal liberalismo e dal marxismo, e proprio perché sa che la libertà non è in sé definibile, l’anarchismo ritiene che ci sia libertà solo là dove tutti gli esseri umani sono ugualmente liberi, cioè dove possono esprimere la loro personalità, in una situazione in cui non vi è una definizione che a priori stabilisce cos’è la libertà in pratica, perché sono gli individui che, sbarazzatisi di ogni principio d’autorità, costantemente concorrono a determinare l’"esserci" della libertà stessa.

Totalitarismi e libertà

Quello che tu delinei, e che certo descrive la concezione della libertà condivisa dagli anarchici, mette però in luce il paradosso di un principio informatore che non si dà mai in quanto nasce dal tentativo di applicarlo. In questo senso, perciò, la libertà resta sempre altra anche rispetto alla libertà di un’eventuale anarchia. A me pare, però, che una concezione di questo genere non solo svilisca le "esperienze della libertà" possibili, ma soprattutto resti sul classico terreno della metafisica, per cui ci sarebbe un "qualcosa" che, per quanto sia indefinibile, comunque necessita che ad esso ci si conformi...

Certamente la libertà è un’idea letteralmente meta - fisica, cioè al di là della concreta realtà e della possibilità di concettualizzazione. Il platonismo, che sta alla base della metafisica, dice che, per esempio, esiste un’idea della "caninità" in sé data, definibile, ma noi, per i motivi che dicevo sommariamente prima, non possiamo avere un’idea compiuta di cosa sia la libertà. È per questo che, alla fin fine, la libertà è soprattutto una tensione metafisica, non un’idea data, perché, se fosse possibile avere un’idea completa della libertà, vorrebbe dire che ci sarebbe un archetipo della libertà stessa che ti permetterebbe poi di dire: "Questa, e solo questa, è la libertà".
Questa dinamica della libertà è quel che ha fatto del pensiero anarchico una micidiale bomba teorica (della quale, fra l’altro, gli anarchici raramente sono stati veramente consapevoli), perché il nocciolo della libertà anarchica è di essere quella libertà che riesce a criticare se stessa.

Da questa dinamica della libertà, però, derivano anche due elementi non poco problematici. Una libertà che rimane sempre indefinibile, infatti, comporta che nessuna esperienza possa in fondo essere definita come realmente "libera", la qual cosa a sua volta rimanda al fatto che, alla luce di questa libertà sempre "ulteriore", nessuna creazione, nessuna esperienza, sia poi valutata per come si dà. Questa, fra l’altro, mi sembra la dinamica che si è impostata nel movimento anarchico - che non a caso tu definisci come "un soggetto etico che si muove in senso politico all’interno di un corpo sociale" - per il quale, poiché la libertà è sempre "altra", le concrete libertà vengono di fatto svilite e scarsamente agite. Questa tensione è certo accettabile dal punto di vista dell’etica individuale, mentre, dal punto di vista dei rapporti sociali, il muoversi "politico" che vuole risolvere la politica nell’etica non solo è la negazione della politica, cioè della sua stessa concreta condizione di possibilità, ma soprattutto è la negazione della pluralità che gli esseri umani esibiscono nel loro vivere quotidiano, la qual cosa porta al fondamentalismo e al totalitarismo. Sono infatti i totalitarismi che vogliono risolvere la politica/pluralità dell’"essere" nell’unicità dell’etica, cioè nell’unicità del "dover essere"...

Il totalitarismo è quella modalità del pensiero e dell’azione che vuole fondere etica e politica in istituti che rappresentino e racchiudano totalmente la vita degli individui, la qual cosa significa la costruzione di un potere totale. Anche l’anarchismo, se interpretato in un certo modo, può indubbiamente assumere una valenza integralistica proprio perché si pone come soggetto etico e il suo agire politico è determinato e finalizzato da un’etica. Se si finisce in una interpretazione integralistica dell’anarchismo, però, si tradisce l’anarchismo stesso perché non si tiene in conto che, come dico proprio in apertura del libro, l’etica dell’anarchismo, quindi l’anarchismo stesso, si risolve nell’anarchia, cioè in una società (o nella tensione ad una società) in cui, non essendoci un potere, un arché, a cui tutti devono conformarsi, il rapporto tra l’individuo e la società - che altro non è se non il rapporto tra libertà e morale - rimane costantemente aperto e provvisorio. In mancanza di un potere/arché che definisca a priori un "dovere essere", infatti, il rapporto fra libertà e morale non può che articolarsi nella dialettica fra l’etica della libertà e la libertà dell’etica. È per questo che l’anarchismo, se concepito conseguentemente coi suoi contenuti e con le dinamiche che ad essi afferiscono, ha un’autocorrezione intrinseca e non può avere un esito totalitario.
Tutto questo, però, come dicevo prima, non vuol dire che degli anarchici militanti non abbiano potuto vivere il loro anarchismo in modo, più che fondamentalistico, integralistico. Molti anarchici (per certi aspetti i migliori) hanno infatti vissuto la loro fede politica in senso completo, in modo totalizzante, ma questo, più che uno spirito fondamentalistico o totalitario, sta a testimoniare semplicemente l’esigenza di una estrema coerenza fra la loro vita individuale e la loro visione del mondo.

Tornando alla ricostruzione della storia del pensiero anarchico che fai nel libro, mi ha colpito che tu sostenga che né Bakunin né Proudhon sarebbero da soli bastati a costituire l’anarchismo, perché in tale costituzione il pensiero cardinale è quello di Stirner, fondamentale al punto che lo scontro profondo che passa nella 1° Internazionale non è tanto quello fra Bakunin e Marx, ma quello fra Marx e Stirner...

Nella 1° Internazionale il dibattito politico fu fra Bakunin e Marx, ma quello teorico fu indubbiamente fra Marx e Stirner. Il dibattito politico è sicuramente altrettanto importante di quello teorico, ci mancherebbe altro, ma il dibattito teorico vero, forte, fra marxismo e anarchismo è quello tra Marx, cioè il marxismo puro, e Stirner, cioè l’anarchismo puro. Senza Stirner l’anarchismo non sarebbe stato possibile e la storia dell’anarchismo e del marxismo sono già tutte contenute rispettivamente nell’Unico e nell’Ideologia tedesca perché la critica che Stirner fa al comunismo è una critica cui Marx e i marxisti sono stati incapaci di rispondere seriamente. Non a caso L’ideologia tedesca, scritta da Marx ed Engels soprattutto per replicare a Stirner, non venne pubblicata dagli stessi Marx ed Engels e fu pubblicata postuma. Stirner era l’ossessione di Marx, perché la critica stirneriana al comunismo è talmente radicale, ficcante e centrata che non è possibile né ribattervi, né superarla. Sulla critica al comunismo nessuno è riuscito ad andare oltre Stirner: non c’è riuscito Marx, non c’è riuscito Weber, non c’è riuscito il pensiero liberale, perché Stirner, con una genialità stupefacente, intuisce quello che poi il comunismo realizzato sarà e non potrà non essere. Non a caso Stirner, quasi ottant’anni prima della rivoluzione russa, scrive che nel comunismo i dissidenti dovranno finire nei manicomi o nei gulag perché il comunismo è l’estrema espressione della forma religiosa del pensiero umano. Stirner non critica la dittatura del proletariato perché Marx non ne ha ancora parlato, ed infatti sarà Proudhon a farlo per primo, ma nei fondamenti teorici è impossibile andare oltre Stirner che, come è stato riconosciuto in un convegno filosofico napoletano a lui dedicato due anni fa, è sicuramente uno dei maggiori pensatori degli ultimi due secoli. Nel solo libro che Stirner ha scritto c’è un’intera enciclopedia filosofica: oltre alla critica all’idealismo e al comunismo c’è l’analisi critica del linguaggio, viene anticipato Freud...
L’unico rimane un testo seminale, che per quanto esplorato non finisce mai di dare delle nuove aperture...

Franco Melandri

Sul prossimo numero pubblicheremo
due interventi - rispettivamente di
Massimo La Torre e Salvo Vaccaro -
sul libro di Berti.