Per i tipi di Piero Lacaita
Editore, Giampietro (Nico) Berti ha recentemente pubblicato
Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, un’opera
che, consapevolmente, si pone come inevitabile punto fermo con
cui chiunque voglia occuparsi dell’anarchismo non può
non confrontarsi. Nelle sue mille densissime pagine, infatti,
non solo viene ripercorso e analizzato, attraverso i suoi pensatori
più rappresentativi, il farsi del pensiero anarchico,
ma vengono anche tematizzati ed evidenziati i nodi problematici
e le questioni aporetiche che le teorizzazione anarchiche non
hanno saputo, o potuto, risolvere.
Proprio tenendo sullo sfondo tali questioni si è svolta
la conversazione di cui quanto segue è poco più
che un frammento.
F.M.
Il tuo libro è sicuramente l’opera analitica più
profonda e completa che sia mai stata dedicata al complesso
del pensiero anarchico. Proprio la sua completezza, però,
fa nascere un problema, poiché la storia analitica di
una data questione è possibile solo quando quella stessa
questione ci si presenta come compiuta, per cui la tua storia
è, o rischia di essere, anche un epitaffio per il pensiero
che esamina...
L’anarchismo che ho analizzato e storicizzato è quell’anarchismo
che conclude il suo ciclo al più tardi con la rivoluzione
spagnola, anche se fra gli autori che ho esaminato ci sono Caffi,
Rizzi, Rocker, che hanno prodotto alcune delle loro cose migliori
dopo quel punto di frattura. Questo, però, non vuol dire
che il mio libro voglia essere un epitaffio, non ho detto "Questo,
e solo questo, è il pensiero anarchico", semplicemente
ho analizzato quel pensiero anarchico che normalmente chiamiamo
"classico", il quale si è indubbiamente chiuso
con la rivoluzione spagnola e la seconda guerra mondiale. Anche
se non c’è una vera e propria soluzione di continuità,
è infatti indubbio che dopo la seconda guerra mondiale
l’anarchismo sia una cosa molto diversa da quello precedente.
Fra l’anarchismo postbellico e quello precedente c’è
lo stesso rapporto che c’è fra padre e figlio: senza
quel padre non ci sarebbe quel figlio, ma il figlio è
altro rispetto al padre. L’anarchismo del secondo dopoguerra
è sempre anarchismo, certamente, ma non è più
quell’anarchismo, non è più l’anarchismo
"classico".
Il quale, fra l’altro, forse ha concluso il suo ciclo storico
ancor prima della rivoluzione spagnola, cioè con la prima
guerra mondiale e soprattutto con la rivoluzione russa, che
mise in moto un ciclo rivoluzionario enorme, il quale, però,
non era quello sperato dall’anarchismo perché, nonostante
le tante speranze che alimentò fra gli anarchici, poco
aveva a che fare con le possibilità reali di una rivoluzione
anarchica.
Quindi, anche se dopo la seconda guerra mondiale si continua
a parlare di Bakunin e Malatesta, quello di cui anche noi siamo
partecipi è un anarchismo "altro" rispetto
a quello di Bakunin e Malatesta, è un’altra cosa ed è
impossibile non tenerne conto. Questo è uno dei tanti
problemi che il mio libro pone e non risolve perché,
come tutte le opere che non vogliono essere dogmatiche, non
pretende di rispondere a tutti i problemi che apre.
Insuperabile
contraddizione
L’introduzione - esplicativamente intitolata Sulla natura
storica e ideologica dell’anarchismo. (nella storia, ma contro
la storia) - è certamente la parte più densa
dal punto di vista teorico, ed in essa tu evidenzi come la genesi
dell’anarchismo si dia, contemporaneamente, come punta estrema
della secolarizzazione e come risposta alla stessa secolarizzazione,
come "fuoriuscita" da essa. Ma, come tu dici, qualsiasi
uscita dalla secolarizzazione non può che essere in qualche
modo religiosa. Questo, indubbiamente, è un dato profondamente
contraddittorio, anche se è una contraddittorietà
che gli anarchici hanno raramente riconosciuto e tematizzato...
Che l’anarchismo sia, almeno in un certo senso, contraddittorio
è sicuramente vero, ma è una contraddittorietà
che si potrebbe quasi spiegare con una banalità: tutto
quel che è vivo è contraddittorio e l’anarchismo
non può non esserlo proprio perché è un
pensiero vivo.
Il pensiero anarchico non si è costituito a tavolino,
quasi sempre, anzi, è stato l’espressione di un movimento
storico sociale forte, almeno in alcuni paesi, e quindi ha dovuto
mediarsi con le istanze di quegli stessi movimenti.
Non dimentichiamoci che se, dal lato prettamente teorico,
l’anarchismo è equidistante dal liberalismo e dal socialismo,
dall’altro lato, cioè da quello storico, esso è
stato profondamente partecipe del movimento socialista, cioè
del movimento che si costituisce soprattutto sulla richiesta
di uguaglianza. Questa contraddittorietà costitutiva
si manifesta nel fatto che l’anarchismo si sostanzia attraverso
un’analisi critica estremamente razionale e disincantata, è
cioè la punta estrema della secolarizzazione, che, però,
è motivata dall’esigenza, eminentemente a - razionale,
di dare senso a ciò che critica e discute. L’esigenza
di senso è per sua natura a - razionale perché
ogni senso, se vuole avere una valenza forte, al suo fondo è
religioso, anche se la religiosità non necessariamente
è quella dottrinaria e teologica delle religioni rivelate.
La religiosità che l’anarchismo esprime è perciò
una religiosità che, fedele all’etimo della parola -
religione deriva da relegere, che vuol dire "raccogliere,
mettere insieme" -, ricerca soprattutto un afflato, un
sentire forte, che accomuni.
Costituendosi attorno a questi nodi concettuali contraddittori,
l’anarchismo non può che presentarsi, anche nel suo "nocciolo
duro", duplice ed è sempre per questo che esso è,
come dico da tempo, "nella storia, ma contro la storia".
La consapevolezza della contraddittorietà esistente
fra l’essere disincantati e contemporaneamente partecipi di
un ethos forte è, secondo me, molto visibile in
Malatesta, che è stato un pensatore di eccezionale statura
teoretica, per vari aspetti molto superiore a Kropotkin, ed
è il teorico che più di tutti ha portato l’anarchismo
all’estrema sintesi. In Malatesta, soprattutto nel Malatesta
della maturità, è sempre ben visibile quel "pessimismo
della ragione e ottimismo della volontà" che bene
rispecchia la contraddizione che sta alla base dell’anarchismo,
così come è visibile la volontà di non
risolvere tale contraddizione, ma di renderla positivamente
agente. Malatesta si rende conto che, come già aveva
detto Proudhon, questa contraddizione è insuperabile,
perché l’esperienza umana è sempre contraddittoria,
non si dà mai in modo univoco, ma proprio l’assumere
consapevolmente questa impossibilità come fondante è
fonte di ricchezza. Questa contraddittorietà, infatti,
fa sì che l’anarchismo non sia mai racchiudibile in una
dottrina codificata e questo sicuramente è più
un bene che un male, perché non esiste una società,
neanche quella anarchica, che sia fondata semplicemente sulla
critica distruttiva di un principio, nello specifico il principio
di autorità. Le società hanno bisogno di principi
a - razionali per vivere, come dirà anche Castoriadis
settant’anni dopo Malatesta. L’"immaginario sociale"
di cui parla Castoriadis non vuol certo dire il credere alla
befana, semplicemente vuol dire partecipare a un sentire comune
e credere a dei valori comuni che sono a - razionali perché
non sono fondabili razionalmente.
La secolarizzazione è però anche quel processo
che, mostrando come ogni concettualizzazione metafisica sia
insostenibile alla luce della ragione, fa sì che anche
la politica - cioè l’ambito, determinato e definito dal
potere, in cui la società viene ordinata - si liberi
da tutte le pastoie di ordine etico e religioso che fino ad
allora l’avevano, almeno formalmente, determinata. In questo
modo, tuttavia, la politica non solo si rivela irriducibile
a qualsiasi altro ambito, ma diventa anche lo spazio in cui,
ineludibilmente, chiunque voglia occuparsi del vivere sociale
deve scendere. Ancora una volta, però, questo evidenzia
una contraddizione dell’anarchismo: essendo figlio della modernità
non può che porsi come movimento politico, ma negando,
- in un afflato di tipo religioso -, ogni potere il modo in
cui lo fa è quello di negare in toto la politica, che
vede principalmente come ambito del potere inteso come dominio.
Così facendo, però, l’anarchismo si autopreclude
ogni sorta di altra comprensione della politica, non cerca cioè
di capire se essa sia solo l’ambito del potere/dominio, o possa
essere anche l’ambito di modi libertari di gestione delle relazioni
umane...
Io credo che la concezione più calzante della politica
sia quella espressa dalla tradizione machiavellica e, in parte,
dalla tradizione liberale. Per questa tradizione la politica
è quell’ambito in cui interessi di tutti i tipi -politici,
economici, sociali, estetici, etici, sessuali, ideologici, religiosi-
si scontrano nella lotta per il potere. Contrariamente a quanto
dice il marxismo, pertanto, la politica non è solo lo
specchio della lotta di classe, della lotta sul terreno economico,
ma è il luogo del conflitto come tale che, proprio per
quel che dicevo prima, non è mai compiutamente eliminabile.
Considerando tutto questo, è indubbio che nella modernità
la politica si ponga come il luogo privilegiato in cui, attraverso
le istituzioni, questi conflitti interumani possono trovare
una composizione lasciando, contemporaneamente, che le teorie
che interpretano e rappresentano questi conflitti continuino
a misurasi fra loro.
Se questa, in generale, è la politica, l’anarchismo
si rapporta ad essa da un lato come un’ennesima teoria su questi
conflitti, ma, contemporaneamente, anche come quel movimento
che ritiene di avere la risposta che farebbe scomparire i conflitti
più laceranti. Per l’anarchismo, infatti, in una società
anarchica non scompariranno i conflitti intesi come dinamica
vitale, ma scompariranno i conflitti che fanno nascere la politica
come ambito separato, come ambito del potere.
In
Spagna per esempio
Questa visione, però, pone fra parentesi la questione
della sovranità. Il Principe di Machiavelli, certo già
libero da giustificazioni di tipo etico e religioso, rimane
tuttavia l’incarnazione della sovranità; ed è
questa sovranità esibita, riconoscibile, che la modernità
mette in discussione. Non a caso, con le democrazie moderne,
la sovranità viene astrattamente posta "nel popolo",
che in tal modo formalmente la detiene, mentre praticamente
si ritrova sottomesso ad una sovranità senza nome, che
si cela e quasi si nega come sovranità, così diventando,
di fatto, puro arbitrio.
Considerando tutto questo, l’anarchismo vive una condizione
paradossale: essendo un movimento politico con una sua visione
del mondo non può che cercare di attuare la sovranità
di cui, all’atto pratico, è portatore, contemporaneamente,
però, nega questo suo essere portatore di una sovranità
specifica, col risultato o di attribuirla meccanicamente all’insieme
degli esseri umani, con ciò finendo o nello stesso paradosso
delle democrazie o nella negazione tout court della sovranità,
la qual cosa renderebbe impossibile anche il reggersi di una
futura società anarchica...
Indubbiamente la questione della politica è
la questione della sovranità, la qual cosa permette di
cogliere bene le differenze che intercorrono tra liberalismo,
anarchismo e democrazia.
La domanda fondamentale della politica, che sicuramente
la modernità contribuisce a chiarire, è "Chi
decide e come?", una domanda alla quale il democratico
risponde che a decidere deve essere la maggioranza del popolo,
mentre il liberale "bypassa" tale domanda, in quanto
la questione fondamentale che si pone è "Come dobbiamo
controllare chi decide?", senza preoccuparsi più
di tanto chi sia poi a decidere. Pur nella notevole diversità
- il democratico è sicuramente più incline al
repubblicanesimo parlamentare, mentre ci sono società
liberali che sono monarchiche o in cui il presidente della repubblica
ha poteri enormi -, sia la concezione democratica che quella
liberale implicano quindi che comunque ci debba essere qualcuno
di specifico che decide, mentre la domanda che l’anarchico si
pone è "Come dobbiamo fare perché tutti gli
uomini possano decidere?" e "tutti" in questo
caso non significa "il popolo", cioè i cittadini
maggiorenni, significa proprio "tutti". Alla domanda
che lui stesso pone, perciò, l’anarchismo risponde che
tutti potranno decidere solo quando sarà abolito il potere
come sovranità separata, quindi quando sarà abolita
la politica.
È considerando tutto questo che la rivoluzione spagnola
diventa veramente un caso paradigmatico dell’anarchismo "classico",
perché è lì che l’anarchismo si trova a
dover fare i conti con se stesso.
In Spagna, grazie alla loro forza e alla prontezza della
loro risposta al golpe franchista, gli anarchici si sono
trovati nella condizione di poter determinare le cose, cioè
di, non bisogna spaventarsi per la parola, "prendere il
potere", ma non l’hanno fatto perché vi erano impediti
dalle loro stesse concezioni. Quello che gli anarchici non hanno
capito è che "prendere il potere" non significa
solo prendere il Palazzo d’inverno, cioè impadronirsi
delle istituzioni e usarle, e neanche significa che devi costringere
la gente a fare quello che vuoi tu. "Prendere il potere"
semplicemente significa esercitare tutta la forza che si è
capaci di esercitare, quindi esplicitare al massimo i rapporti
di forza, la qual cosa in Spagna avrebbe significato che gli
anarchici non impedivano a nessuno di fare una certa cosa, ma
impedivano ad altri di esercitare un potere su di loro.
Per spiegare quello che voglio dire mettiamo che, come si
vede anche nel film Terra e libertà, ci fosse
un villaggio in cui erano stati cacciati i padroni e i rappresentanti
del governo. Ovviamente, subito comunisti, collettivisti ed
individualisti, avrebbero dovuto confrontarsi per decidere che
fare ed è in tale confronto che gli anarchici dovevano
far sì che nessuno impedisse all’individualista di fare
quello che voleva, così come l’individualista non poteva
impedire ai comunisti anarchici di fare il comunismo. Agendo
in questo modo non ci sarebbe stata una maggioranza che si impone
ad una minoranza, come accade con la democrazia, ma un inizio
di anarchia, ed in un’anarchia gli anarchici perseguono il loro
ideale, gli altri che facciano quello che vogliono, quello che
conta è che nessuno si imponga agli altri. In Spagna,
però, gli anarchici non hanno tentato di agire in questo
modo, non hanno veramente tentato di fare l’anarchia, neanche
laddove c’erano le collettività anarchiche. A Barcellona
la maggioranza dei rivoluzionari era anarchica e doveva imporre
la sua forza, non sedersi, in una logica suicida, allo stesso
tavolo con le altre forze repubblicane, che di forza ne avevano
molta meno, e decidere che ogni organizzazione contava un voto
e la maggioranza dei voti vinceva. Quella fu una decisone demenziale:
ai comunisti marxisti, ai repubblicani, bisognava solo riconoscere
il potere che realmente detenevano e regolare i rapporti sulla
base di esso, non dargli, in omaggio all’uguaglianza democratica,
un potere che non avevano. Prendere una strada simile a quella
che sto cercando di delineare avrebbe significato che non si
impediva loro di fare quanto ritenevano giusto, ma certo si
sarebbe impedito loro di obbligare, come poi è successo,
gli anarchici a fare quello che volevano loro. Fare in questo
modo probabilmente significa praticare un potere, ma un potere
che permette di fare, non un potere che impedisce di fare o
obbliga a fare. Se infatti, ritornando all’esempio del villaggio,
la minoranza, pur potendolo, non fosse stata in grado di fare
quello che desiderava, non era un problema della maggioranza.
Questo almeno in teoria, perché nella pratica c’erano
altri diecimila problemi: nel 1936 Barcellona aveva un milione
di abitanti che necessitavano di derrate alimentari, trasporti,
abiti, eccetera...
Il dramma dell’anarchismo spagnolo, comunque, è stato
innanzitutto quello di non avere una teoria politica, la qual
cosa ha permesso ai comunisti di giocare tutto sul loro terreno.
Se gli anarchici spagnoli avessero fatto come dici tu avrebbero
comunque esercitato una sovranità, avrebbero cioè
creato e delimitato uno spazio in cui certe cose erano permesse
e altre no. Anche permettere alla minoranza individualista di
non collettivizzare la terra, per rimanere al tuo esempio, ha
comunque come condizione di possibilità sia che padroni
e governanti se ne siano andati - cioè che si crei una
mancanza di sovranità -, sia che venga impedita l’imposizione
di un sistema diverso, cioè che una nuova sovranità
venga esercitata. Qui sta, a mio parere, una delle aporie delle
teorie anarchiche classiche: il mancato riconoscimento della
inevitabilità della sovranità come atto in un
certo modo arbitrario. Anche creare una società il più
possibile libera, infatti, altro non è che la creazione
di una sovranità, di uno spazio in cui certe regole e
fini sono ammessi ed altri no...
Quel che dici è vero, ma rendere possibile che ci
si organizzi come meglio si crede non è imporre un potere/dominio:
come diceva Malatesta, una volta fatta la rivoluzione noi non
imponiamo niente a nessuno, basta che nessuno imponga niente
a noi. In Spagna non si poteva fare l’anarchia, non tutti erano
anarchici, si poteva però avviare una rivoluzione anarchica,
cioè avviare un processo entro il quale la stragrande
parte dell’opinione pubblica della Catalogna fosse orientata,
almeno a grandi linee, verso le idealità anarchiche.
Detto questo rimane vero il fatto che nella tradizione anarchica
classica una riflessione sulla sovranità manca...
Ma una tale riflessione - che implica necessariamente, per
quel che si diceva sopra, anche una riflessione sulla politica
- può essere compatibile con il senso che l’anarchismo
esprime?
Io penso di sì, o meglio: sono convinto della necessità
che l’anarchismo "post seconda guerra mondiale", l’anarchismo
contemporaneo, si interroghi su questo punto, ma questo è
un compito che deve essere affrontato dai teorici.
Giampietro Berti in una caricatura
del figlio Francesco
Ma
quale rivoluzione?
Prima hai detto una delle parole - cardine dell’anarchismo:
rivoluzione. È attraverso l’idea della rivoluzione che,
come sottolinei nel libro, l’anarchismo ha cercato di eliminare
la contraddizione che cercavo di mettere in luce prima. L’anarchismo,
infatti, pensa la rivoluzione come l’evento che permette il
ritorno di tutti gli esseri umani ad una naturalità sostanzialmente
armoniosa che la storia e la società avrebbero traviato.
Anche il Malatesta che critica il meccanicismo armonicista di
Kropotkin non riesce a cogliere che, se la "natura"
umana non esiste o, ed è praticamente la stessa cosa,
è tutto e il contrario di tutto, la rivoluzione altro
non è, e non può che essere, un atto di sovranità
politica che va come tale riconosciuto e agito...
Questa è sicuramente una questione aperta.
Certamente, come diceva Malatesta, l’anarchia si fa dove
ci sono gli anarchici, ma se si intende la libertà come
spontaneità sociale, come l’anarchismo ha spesso fatto,
una volta che la rivoluzione viene messa in atto occorre che
essa lasci libero corso a questa stessa spontaneità,
la quale, però, va dove vuole, non si può pretendere
che vada là dove desiderano gli anarchici.
Il problema che sta al fondo di tale questione è
che non è possibile avere nessuna idea di società
se, contemporaneamente, non si ha anche un’idea della natura
umana. Ogni idea di società, infatti, per sua stessa
natura implica una proiezione di valori e una configurazione
di che cosa dev’essere l’uomo. Senza questa operazione non è
possibile immaginare, neanche in modo embrionale, nessuna società,
e finché, sulla scorta dell’illuminismo e del positivismo,
l’anarchismo ha potuto pensare che l’essere umano fosse non
solo un essere sociale, ma soprattutto un essere la cui socialità
tenderebbe ad una solidarietà di fondo, è stato
possibile pensare rivoluzione e anarchismo come momenti di uno
stesso processo.
Questo è l’anarchismo cui Kropotkin, con tante ingenuità
ma anche con intuizioni geniali, ha dato la veste teoricamente
più articolata che, fra l’altro, ha influenzato tutta
una parte della sociologia e dell’urbanistica odierne. Per Kropotkin,
semplificando, natura - uomo - società sono tre elementi
diversi di una stessa configurazione, nella quale, come recita
uno dei suoi libri più famosi, l’elemento cardine è
il mutuo appoggio, la solidarietà, anche se, nel caso
dell’uomo, la naturale tendenza alla solidarietà, per
essere operativa, deve essere riconosciuta come tale e fatta
oggetto della volontà.
Oggi certo questa concezione armonicistica e positivistica
non può più essere sostenuta, ed è qui
che si evidenzia la frattura fra la rivoluzione e l’anarchismo.
Se infatti non è più possibile pensare la rivoluzione
come rottura delle costruzioni sociali che impedivano l’esplicarsi
della solidarietà umana, la questione della sovranità
diventa centrale, come diventa centrale la questione della politica,
che non può più, come in passato, essere risolta
nell’etica. Per l’anarchismo, perciò, è oggi importante
ritornare a interrogarsi su cosa è l’essere umano. Su
questo terreno, come dicevo, gran parte delle idee di Kropotkin
sicuramente non sono più sostenibili, ma io penso non
si possa neanche accettare in pieno quanto, per esempio, sosteneva
Foucault, per il quale non si può tanto parlare di "uomini",
ma di "strutture dell’umano", del tutto storiche e
plasmabili a piacere. Non sono uno specialista di Foucault,
ma mi pare che, per dirla in termini filosofici, in delle concezioni
ontologiche indefinite non sia possibile trovare delle valenze
libertarie che, invece, necessitano al loro fondo di un’idea
libertaria della persona, dell’uomo.
Oltre a questo, poi, mi pare che nella paura di dare delle
chiare definizioni dell’uomo si nasconda una sorta di "fondamentalismo
neo ideologico" perché, rifiutandosi di dire quello
che l’uomo deve essere, si finisce, in una sorta di gnosi rovesciata,
per darne una definizione ontologica negativa che non rispecchia
certo quel che tanti esseri umani sono. È per tutto questo
che continuo a pensare che l’anarchismo non debba spaventarsi
di avere delle idee precise, anche perché avere delle
idee chiare, definite, non significa meccanicamente essere dogmatici
e rifiutare il confronto e la ricerca.
Dicendo questo, però, tu ti stai conformando alla
classica concezione anarchica per cui la storia sarebbe di fatto
sempre aperta al "farsi della libertà", per
dirla con le tue parole.
Nel libro, però, sottolinei come l’anarchismo, ponendosi
nella luce di questo "farsi", di fatto elimini il
portato determinante cui la storia ci costringe, cioè
la politica, che infatti, come dicevamo prima, non viene come
tale agita dagli anarchici...
Io penso che la storia, come diceva anche Tolstoj, non
solo non sia razionale, ma neanche spiegabile, perché
se fosse razionale e spiegabile tutti potrebbero dire che cosa
capiterà domani mattina, fra un mese o fra dieci anni.
Il fatto che la storia non sia razionalmente prevedibile non
vuole però dire che, a posteriori, noi non possiamo cercare
di spiegare in modo razionale quello che è capitato ieri
o un anno fa.
Compiendo questa operazione non è certo storicistico,
non è teleologico, mostrare che non poteva che andare
così come è andata, perché guardando all’indietro
diventiamo consapevoli di elementi che, nel vivo della situazione,
non erano visibili o non sembravano avere il peso che, invece,
hanno poi assunto. Noi non abbiamo strumenti sufficienti per
spiegare completamente come è stata selezionata la combinazione
che ha portato al fascismo, così come non potremo mai
veramente sapere perché quelli che allora sembravano
dei possibili esiti alternativi al fascismo siano andati persi,
possiamo solo studiare e interrogarci continuamente. Però
attenzione: dire che non possiamo mai veramente sapere come
e perché funziona la storia non significa dire che tutto
è possibile, non dobbiamo cadere in una forma di possibilismo
rivoluzionario: se, da un lato, nella storia continuamente si
danno delle possibilità di mutarne il corso, dall’altro
queste possibilità non sono infinite, sono anch’esse
determinate. È in questo sapere che ci sono delle determinate
possibilità e non altre che la storia mostra, se così
si può dire, la sua "dimensione libera".
Nell’analisi che fai del "nocciolo duro" dell’anarchismo,
cioè nell’analisi dell’idea di "anarchia",
tu sottolinei che al centro della configurazione dei valori
anarchici non solo c’è, ovviamente, la libertà,
ma evidenzi anche che essa, alla fin fine, risulta impensabile
come tale, indefinibile...
La libertà è il detto e non detto di Stirner,
e come universale è, in effetti, indefinibile. Ogni definizione
della libertà, infatti, non può che riferirsi
alla libertà in un dato contesto, ma non può mai
cogliere l’universale della libertà, la libertà
in sé, perché la libertà in sé è
quella definizione che sfugge a ogni definizione. Questo non
è un gioco di parole, perché se io dico: "Questa
è la libertà" tu puoi sempre ribattere che
non posso negarti la libertà di definire in modo diverso
cosa è per te la libertà. Conseguentemente gli
anarchici possono dire cosa loro intendono per libertà
- e la loro è forse la definizione più completa,
più esaustiva, quella più vicina all’essenza della
libertà -, ma questo non può far dimenticare che,
proprio perché stiamo parlando della libertà,
anche la loro definizione non è universale, valida per
tutti, e quindi occorre accettare anche le altre definizioni
della libertà. Certamente queste altre definizioni, per
poter essere considerate "libertà", sono accettabili
solamente se sono compatibili con una definizione neutra e formale
della libertà, cioè con una definizione in grado
di poterle comprendere tutte. È per questo che, ad esempio,
la libertà non può mai essere quella di chi vuole
distruggere la libertà perché, anche ammettendo
concettualmente che questa sia una libertà, è
una libertà che non può essere inscritta nella
definizione neutra e formale della libertà stessa. In
questo senso l’anarchismo partecipa dell’accezione liberale
della libertà, cioè partecipa della libertà
in senso kantiano, ma anche la supera perché, mentre
i liberali non vanno oltre alla concezione neutro - formale
della libertà, l’anarchismo cerca di tenerla sempre aperta
a quanto non è formale. Questo, fra l’altro, è
uno degli elementi che distingue l’anarchismo dal marxismo,
che ha una concezione "sostanzialistica" della libertà
in quanto la fa coincidere con l’uguaglianza economica. Diversamente
dal liberalismo e dal marxismo, e proprio perché sa che
la libertà non è in sé definibile, l’anarchismo
ritiene che ci sia libertà solo là dove tutti
gli esseri umani sono ugualmente liberi, cioè dove possono
esprimere la loro personalità, in una situazione in cui
non vi è una definizione che a priori stabilisce cos’è
la libertà in pratica, perché sono gli individui
che, sbarazzatisi di ogni principio d’autorità, costantemente
concorrono a determinare l’"esserci" della libertà
stessa.
Totalitarismi
e libertà
Quello che tu delinei, e che certo descrive la concezione
della libertà condivisa dagli anarchici, mette però
in luce il paradosso di un principio informatore che non si
dà mai in quanto nasce dal tentativo di applicarlo. In
questo senso, perciò, la libertà resta sempre
altra anche rispetto alla libertà di un’eventuale anarchia.
A me pare, però, che una concezione di questo genere
non solo svilisca le "esperienze della libertà"
possibili, ma soprattutto resti sul classico terreno della metafisica,
per cui ci sarebbe un "qualcosa" che, per quanto sia
indefinibile, comunque necessita che ad esso ci si conformi...
Certamente la libertà è un’idea letteralmente
meta - fisica, cioè al di là della concreta realtà
e della possibilità di concettualizzazione. Il platonismo,
che sta alla base della metafisica, dice che, per esempio, esiste
un’idea della "caninità" in sé data,
definibile, ma noi, per i motivi che dicevo sommariamente prima,
non possiamo avere un’idea compiuta di cosa sia la libertà.
È per questo che, alla fin fine, la libertà è
soprattutto una tensione metafisica, non un’idea data, perché,
se fosse possibile avere un’idea completa della libertà,
vorrebbe dire che ci sarebbe un archetipo della libertà
stessa che ti permetterebbe poi di dire: "Questa, e solo
questa, è la libertà".
Questa dinamica della libertà è quel che ha
fatto del pensiero anarchico una micidiale bomba teorica (della
quale, fra l’altro, gli anarchici raramente sono stati veramente
consapevoli), perché il nocciolo della libertà
anarchica è di essere quella libertà che riesce
a criticare se stessa.
Da questa dinamica della libertà, però, derivano
anche due elementi non poco problematici. Una libertà
che rimane sempre indefinibile, infatti, comporta che nessuna
esperienza possa in fondo essere definita come realmente "libera",
la qual cosa a sua volta rimanda al fatto che, alla luce di
questa libertà sempre "ulteriore", nessuna
creazione, nessuna esperienza, sia poi valutata per come si
dà. Questa, fra l’altro, mi sembra la dinamica che si
è impostata nel movimento anarchico - che non a caso
tu definisci come "un soggetto etico che si muove in senso
politico all’interno di un corpo sociale" - per il quale,
poiché la libertà è sempre "altra",
le concrete libertà vengono di fatto svilite e scarsamente
agite. Questa tensione è certo accettabile dal punto
di vista dell’etica individuale, mentre, dal punto di vista
dei rapporti sociali, il muoversi "politico" che vuole
risolvere la politica nell’etica non solo è la negazione
della politica, cioè della sua stessa concreta condizione
di possibilità, ma soprattutto è la negazione
della pluralità che gli esseri umani esibiscono nel loro
vivere quotidiano, la qual cosa porta al fondamentalismo e al
totalitarismo. Sono infatti i totalitarismi che vogliono risolvere
la politica/pluralità dell’"essere" nell’unicità
dell’etica, cioè nell’unicità del "dover
essere"...
Il totalitarismo è quella modalità del pensiero
e dell’azione che vuole fondere etica e politica in istituti
che rappresentino e racchiudano totalmente la vita degli individui,
la qual cosa significa la costruzione di un potere totale. Anche
l’anarchismo, se interpretato in un certo modo, può indubbiamente
assumere una valenza integralistica proprio perché si
pone come soggetto etico e il suo agire politico è determinato
e finalizzato da un’etica. Se si finisce in una interpretazione
integralistica dell’anarchismo, però, si tradisce l’anarchismo
stesso perché non si tiene in conto che, come dico proprio
in apertura del libro, l’etica dell’anarchismo, quindi l’anarchismo
stesso, si risolve nell’anarchia, cioè in una società
(o nella tensione ad una società) in cui, non essendoci
un potere, un arché, a cui tutti devono conformarsi,
il rapporto tra l’individuo e la società - che altro
non è se non il rapporto tra libertà e morale
- rimane costantemente aperto e provvisorio. In mancanza di
un potere/arché che definisca a priori un "dovere
essere", infatti, il rapporto fra libertà e morale
non può che articolarsi nella dialettica fra l’etica
della libertà e la libertà dell’etica. È
per questo che l’anarchismo, se concepito conseguentemente coi
suoi contenuti e con le dinamiche che ad essi afferiscono, ha
un’autocorrezione intrinseca e non può avere un esito
totalitario.
Tutto questo, però, come dicevo prima, non vuol dire
che degli anarchici militanti non abbiano potuto vivere il loro
anarchismo in modo, più che fondamentalistico, integralistico.
Molti anarchici (per certi aspetti i migliori) hanno infatti
vissuto la loro fede politica in senso completo, in modo totalizzante,
ma questo, più che uno spirito fondamentalistico o totalitario,
sta a testimoniare semplicemente l’esigenza di una estrema coerenza
fra la loro vita individuale e la loro visione del mondo.
Tornando alla ricostruzione della storia del pensiero anarchico
che fai nel libro, mi ha colpito che tu sostenga che né
Bakunin né Proudhon sarebbero da soli bastati a costituire
l’anarchismo, perché in tale costituzione il pensiero
cardinale è quello di Stirner, fondamentale al punto
che lo scontro profondo che passa nella 1° Internazionale non
è tanto quello fra Bakunin e Marx, ma quello fra Marx
e Stirner...
Nella 1° Internazionale il dibattito politico fu
fra Bakunin e Marx, ma quello teorico fu indubbiamente fra Marx
e Stirner. Il dibattito politico è sicuramente altrettanto
importante di quello teorico, ci mancherebbe altro, ma il dibattito
teorico vero, forte, fra marxismo e anarchismo è quello
tra Marx, cioè il marxismo puro, e Stirner, cioè
l’anarchismo puro. Senza Stirner l’anarchismo non sarebbe stato
possibile e la storia dell’anarchismo e del marxismo sono già
tutte contenute rispettivamente nell’Unico e nell’Ideologia
tedesca perché la critica che Stirner fa al comunismo
è una critica cui Marx e i marxisti sono stati incapaci
di rispondere seriamente. Non a caso L’ideologia tedesca,
scritta da Marx ed Engels soprattutto per replicare a Stirner,
non venne pubblicata dagli stessi Marx ed Engels e fu pubblicata
postuma. Stirner era l’ossessione di Marx, perché la
critica stirneriana al comunismo è talmente radicale,
ficcante e centrata che non è possibile né ribattervi,
né superarla. Sulla critica al comunismo nessuno è
riuscito ad andare oltre Stirner: non c’è riuscito Marx,
non c’è riuscito Weber, non c’è riuscito il pensiero
liberale, perché Stirner, con una genialità stupefacente,
intuisce quello che poi il comunismo realizzato sarà
e non potrà non essere. Non a caso Stirner, quasi ottant’anni
prima della rivoluzione russa, scrive che nel comunismo i dissidenti
dovranno finire nei manicomi o nei gulag perché
il comunismo è l’estrema espressione della forma religiosa
del pensiero umano. Stirner non critica la dittatura del proletariato
perché Marx non ne ha ancora parlato, ed infatti sarà
Proudhon a farlo per primo, ma nei fondamenti teorici è
impossibile andare oltre Stirner che, come è stato riconosciuto
in un convegno filosofico napoletano a lui dedicato due anni
fa, è sicuramente uno dei maggiori pensatori degli ultimi
due secoli. Nel solo libro che Stirner ha scritto c’è
un’intera enciclopedia filosofica: oltre alla critica all’idealismo
e al comunismo c’è l’analisi critica del linguaggio,
viene anticipato Freud...
L’unico rimane un testo seminale, che per quanto
esplorato non finisce mai di dare delle nuove aperture...
Franco Melandri
Sul prossimo numero pubblicheremo
due interventi - rispettivamente di
Massimo La Torre e Salvo Vaccaro -
sul libro di Berti. |
|