"È una parte di me che se
ne va, un pezzo della mia vita che ho perso per sempre"
ha detto una nostra compagna ai microfoni di chissà quale
televisione, che la intervistava davanti alla chiesa, fuori
dalla chiesa genovese in cui mercoledì 13 gennaio si
sono svolte le esequie di Fabrizio De André. E tanta
gente che conosco - di tanti "tipi" diversi - si è
riconosciuta e si riconosce in quelle parole.
Certo, non bisogna sottovalutare la potenza dei media, la
loro capacità di coinvolgimento, fino a provocare vere
e proprie ondate di commozione collettiva. Eppure le reazioni
che ho sentito e percepito - all’indomani della morte di Fabrizio
- mi hanno profondamente colpito per il loro spessore, oltre
che per la loro quantità.
Siamo stati in tanti a renderci conto, pienamente, solo a morte
avvenuta di ciò che la sua opera ha rappresentato: non
tanto per i momenti significativi della vita di ciascuno di
noi che le sue canzoni hanno accompagnato e segnato (ognuno
ha la sua: per me è la "Canzone dell’amore perduto"
la colonna sonora di quei momenti), quanto per l’impronta indelebile
sul piano culturale e socio-politico che la sua opera ha marchiato
- in tante, tantissime persone e, di conseguenza, nella società
italiana di questi ultimi decenni.
Sono convinto che - forse - solo De André sia riuscito
a uscire dal mondo della "canzonette" e dai suoi piani
alti (quelli abitati dai cantautori doc) per penetrare - grazie
alle parole ed alla musica - nel tessuto profondo dell’umanità,
nei cuori e nei cervelli di tantissima gente. Che lo abbia fatto
lui, irriducibile cavaliere libertario, nemico delle convenzioni
e delle ipocrisie, antimilitarista, amico e studioso delle culture
"altre", dissacratore del sacro istituzionale (leggi
Chiesa cattolica) - che lo abbia fatto lui, orgogliosamente
anarchico, è un dato di fatto per noi importante. E fa
di lui, ancora oggi, un nostro compagno nel senso più
profondo del termine: non quello di una comune "militanza
politica" (che non c’è mai stata, in senso stretto,
anche se ci ha sempre fiancheggiato, ha bazzicato gli ambienti
libertari e si è spesso circondato di collaboratori che
c’entravano con l’anarchismo), ma quello - ben più pregnante
- del comune "sentire libertario", della ribellione
contro le ingiustizie sociali, del riferimento emotivo e culturale
all’utopia di un mondo senza dogmi né guerre, dello stare
sempre e comunque "dall’altra parte" rispetto al potere,
a tutti i poteri.
Un
mito in meno
Il nostro primo incontro fu all’hotel Cavour, nell’omonima
piazza del centro di Milano. Eravamo nei primissimi anni ‘70
e da mesi noi della rivista cercavamo di metterci in contatto
con Fabrizio De André, che in più di un’occasione
e di un’intervista si era definito "anarchico". Ed
in quegli anni di grande entusiasmo e di grandi necessità
economiche questo era più che sufficiente per scatenarci
come segugi alla ricerca di contatti più diretti, con
il fine - nemmeno tanto nascosto - di "strappare"
un concerto di finanziamento.
C’eravamo riusciti alla grande con Francesco De Gregori.
La serata con lui al Teatro Uomo ci aveva visto fare il servizio
d’ordine per impedire l’entrata alla folla straboccante che
si accalcava fuori: se li avessimo fatti entrare, i vigili del
fuoco avrebbero sospeso il concerto. E sul palco era salito,
inaspettatamente presente tra il pubblico, anche Giorgio Gaber,
in un’improvvisato trio - con la nostra Paola Nicolazzi - di
"Addio Lugano bella".
Ci saremmo riusciti di lì a poco con Franco Battiato,
con una serata il cui ricavato avrebbe dovuto andare alla solidarietà
con la Spagna anti-franchista (dico "avrebbe dovuto"
perché Battiato era allora ai primi passi ed il pubblico
non accorse numeroso).
Dopo mesi di tampinamento della press-agent della sua casa
discografica, riuscimmo a fissare un appuntamento con Fabrizio:
proprio con lui, quello della ballate antimilitariste e dissacratorie,
che già allora per molti di noi era il cantautore più
amato ed ascoltato. Mi ricordo che mi batteva il cuore mentre,
con il registratore pronto per l’intervista che contavo di fargli,
percorrevo i lunghi corridoi del lussuoso albergo.
Fabrizio ci accolse con grande simpatia, presentandoci Dori
- che avremmo avuto modo di conoscere meglio ed apprezzare negli
anni successivi. L’impatto, per me, fu forte. Era - forse -
la prima volta in vita mia che conoscevo quello che per me poco
più che ventenne era un Mito. Non ricordo bene che cosa
mi aspettassi, ricordo però benissimo che uscii dopo
qualche ora da quella stanza d’albergo con un Mito in meno ed
un amico in più.
Fabrizio ci spiegò, senza alcuna supponenza, il suo
anarchismo, fatto di un originale impasto di simpatia (nel senso
etimologico del termine) per gli esclusi, le vittime del potere
e delle ingiustizie, i diversi, i vinti e di puntuale conoscenza
del patrimonio di pensiero e storico dell’anarchismo. Aveva
letto - e a volte amava citare - soprattutto Malatesta, ma anche
Stirner, Bakunin, Kropotkin, la storia della makhnovicina scritta
da Arscinov. Aveva ben presente la polemica tra comunisti autoritari
e libertari, lo scontro Marx-Bakunin, le persecuzioni anti-anarchiche
dei bolscevichi in Russia dopo il ‘17 e degli stalinisti in
Spagna dopo il ‘36. Ci parlò di alcuni compagni che conosceva,
alcuni conosciuti nella storica sede anarchica di piazza Embriaci
(tuttora aperta), altri - a noi del tutto ignoti - da lui conosciuti
in chissà quali taverne o carruggi.
C’era di sicuro, in lui, una visione "romantica"
dell’anarchismo, identificato a volte tout court con la marginalità,
con i reietti di questo pianeta. Ma non c’era solo quella. Fabrizio
conosceva la nostra storia, la conosceva bene e se ne sentiva
parte: a suo modo, come ciascuno di noi. Anche se la parola
mi suona oggi un po’ retorica e aiuta solo in piccola parte
a capire l’uomo ed il personaggio pubblico, sentii che era un
compagno.
La chiacchierata andò avanti a lungo, volle sapere
della nostra attività politica, della rivista. Eravamo
certamente molto diversi per formazione, stile di vita, frequentazioni.
Eppure la voglia di comunicare fu tale che il registratore rimase
spento: l’intervista non si fece, non era cosa. Nacque quella
sera qualcosa di più importante: un’intesa che si sarebbe
trasformata in amicizia.
Ribelle e anarchico
Da allora, per un quarto di secolo, ci siamo visti e rivisti
- a tratti frequentemente, a volte mai per anni ed anni. La
sua vita frenetica, le sue abitudini, la sua professione, una
predisposizione - così almeno la penso io - alla precarietà
e alla discontinuità, hanno fatto della nostra amicizia
una cosa decisamente strana. Ma il rapporto c’era ed era forte.
Fabrizio riceveva regolarmente la rivista, non poche volte
se la ficcava in tasca, in modo visibile, durante i concerti.
Me lo ricordava qualche giorno fa Vittorio, un compagno di Cremona,
che lo notò una prima volta nel ‘74 durante un concerto
a Casalmaggiore.
"Io non so se questa città ci sia un gruppo
anarchico, se c’è lo saluto e invito i suoi componenti
a venirmi a trovare in camerino dopo il concerto". Questa
e tante altre dichiarazioni di adesione e di simpatia per l’anarchismo
e per gli anarchici in carne ed ossa Fabrizio era solito fare
dal palco. Giorgio di Arezzo mi parlava di un concerto a Firenze
durante il quale De André, ad un certo punto, salutò
"l’anarchico Barsella", un compagno ferroviere che
aveva avuto modo di conoscere. Non il comunista tal dei tali
o il democristiano vattelappesca. No, l’anarchico.
E, tra i non pochi uomini di spettacolo che mi è
capitato di sapere (o leggere) collegati all’anarchismo, Fabrizio
è certamente tra i pochissimi che, come Leo Ferré
e Julian Beck, ha voluto legare il suo nome al sostegno di concrete
iniziative anarchiche. Fabrizio ha fatto concerti dichiaratamente,
pubblicamente a sostegno della stampa anarchica; ha dato soldi;
ha seguito con interesse e partecipazione alcune nostre iniziative.
E lo ha fatto - me ne resi conto già quella prima volta
all’hotel Cavour - con modestia, con profondo rispetto per il
nostro impegno militante, sempre respingendo al mittente i nostri
"grazie!" con la precisazione che al caso era lui
che avrebbe dovuto ringraziare noi per il nostro operato.
Ho voluto ricordare questi aspetti, poco noti anche nel
nostro ambiente, perché pur nel grande spazio che giustamente
- inevitabilmente, vorrei dire - i mass-media hanno dedicato
a lui nei giorni della morte e dei funerali, il suo anarchismo
mi pare esser stato presentato sotto una luce decisamente insufficiente,
quando non errata. "Ribelle ed anarchico, ma con sentimento"
- ha titolato a tutta pagina il Corriere della Sera,
che pure nell’articolo di Mario Luzzatto Fegiz ricordava le
sue frequentazioni giovanili (e non solo) dei circoli anarchici
di Genova e Carrara. Invece di quel "ma", andava scritto
"quindi": se non lo si capisce, non si può
comprendere niente degli anarchici e dello stesso De André.
A testa alta
"A forza di essere vento" è il
sottotitolo scelto da Fabrizio per una sua poesia sugli zingari,
in "Anime salve". Mi colpiscono, ancora oggi, dopo
averla ascoltata infinite volte, la densità delle parole
scelte, lo studio attento e soprattutto la comprensione che
dimostrano per le vicende di un popolo quasi sconosciuto alla
nostra cultura e che pure, quando viene citato, è avvolto
in una foschia di retorica e di luoghi comuni. Se ciò
avviene nel mondo della "cultura", figuriamoci in
quello delle canzonette.
A me basta questo canto - e la scelta di affiancare alla
poesia di Fabrizio il coro khorakhané (con la struggente
voce di Dori) - per considerare Fabrizio qualcosa di radicalmente
altro rispetto al mondo dei "cantautori", da cui pure
proveniva, e considerarlo una delle voci più incisive
ed originali della cultura libertaria in Italia.
Altri, ben più preparati del sottoscritto, mi auguro
analizzeranno in profondità il senso profondamente libertario,
anarchico, della sua produzione (come già fa Marco Pandin
nel suo bell’articolo pubblicato dopo questo). Lontano dalle
mode, profondo nella comprensione, con una densità culturale
pari alla finezza del sentimento, De André ha contribuito
a dar vita e dignità a persone, popoli, idee che grazie
a lui - ed ai collaboratori di grande spessore di cui ha saputo
circondarsi - hanno potuto trovare nelle sue poesie in musica
un avvocato difensore, un "propagandista" onesto,
un vendicatore contro i torti della storia.
Sardi, indiani d’America, tossici, drogati, puttane, poeti,
anarchici, detenuti, sofferenti, ribelli, zingari: sono loro
parte di quell’umanità soggiogata ma non doma, forte
spesso solo della propria dignità e coerenza, che attraversano
a testa alta l’intera sua opera. Che si esprimano in genovese
o in italiano, in sardo o in romanesh, sono loro ad avere l’ultima
parola.
E noi, con il nostro impegno editoriale, siamo sulla stessa
lunghezza d’onda. Come il nostro amico, compagno, sostenitore
Fabrizio sentiva e sapeva.
Paolo Finzi
Una mattina prendo la moto
Fabrizio lo conoscevo da più di vent’anni e
dai miei vent’anni. Infatti la prima volta che ci siamo
visti me ne ero appena andata di casa e già vivevo
a Milano. Stavo alle prime incazzature per i dischi...
con la Ricordi, la sua stessa casa discografica e credo
che la prima volta lo vidi proprio lì. In quel
periodo tutti e due piacevamo ai "tedeschi"
e sapevo che anche lui era stato "esportato".
Una mattina prendo la moto e vado a trovarlo in Sardegna,
e attraverso i boschi scopro la sua casa-azienda agricola.
Si beve, si mangia, si scherza, si ride, si parla delle
parole dei suoni della voce. Era l’estate del ‘79...
Per me la sua voce è un "marchio sociale",
una sorta di tatuaggio nell’aria, forse anche per il
modo che ha di dare musicalità alla parola, di
costruirne i segni grafici.
È qualcosa che mi fa pensare alle culture orali,
a Omero. Prima che la cultura diventasse scritta le
espressioni linguistiche che si imparavano di bocca
in bocca valorizzavano la sonorità della parola
che rimaneva nella memoria, proprio perché questa
non si staccava dal suo ambiente fisico. Immagino come,
nel suo instancabile ricercare, Fabrizio non si sia
mai accontentato e abbia continuato a "parassitare"
di rumore le sue parole: dal suo accostamento al rock
con la PFM fino alle scelte dialettali e alla sua meticolosa
quasi rigida ricerca strumentale etnica. Non ho una
conoscenza approfondita del suo repertorio. A me piace
avere davanti la persona, il compagno Fabrizio nel suo
lato più libero del termine. Per chi l’ha saputo
conoscere è stata una fortuna, un ottimo scontro-confronto,
che a me ha dato una forte carica per difendere la musica
in maniera sempre più autonoma e una sincerità
più radicale nel comporre.
Gianna Nannini
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