Che cosa significa per te fare musica?
Fino a non molto tempo fa significava soprattutto divertirmi:
era un modo per distrarsi, per occuparsi di qualche cosa. Che
sia poi una necessità di comunicazione con gli altri,
questo è tutto da vedere. Direi che soprattutto è
una necessità di comunicazione con se stessi.
Già dalle tue prime canzoni ti sei occupato di problemi
sociali. Perché?
Mi interessava raccontare storie di gente comune per capire
di più il mondo in cui vivevo. Era una specie di autoanalisi.
Poi ho trovato coinvolte in questo altre persone, prima quattro,
poi quaranta, poi quattromila.
Come mai ti autoanalizzavi sui problemi sociali degli emarginati,
delle puttane, o su problemi come quello dell’antimilitarismo
(penso a "La guerra di Piero")?
Come mai si diventa libertari? O hai frequentato
un ambiente libertario, cosa che ho fatto fin dai diciotto anni,
o altrimenti perché hai un impulso a pensare che il mondo
debba essere giusto, che tutti debbano avere come minimo le
stesse condizioni di opportunità per potersi esprimere
ed evolvere. Mi ricordo del mio atteggiamento nei confronti
della microsocietà in cui vivevo in campagna, quando
avevo quattro anni. Ero sempre dai contadini, assimilavo molto
più da loro che dai miei genitori, ero in mezzo alle
bestie, volevo bene sia ai contadini sia alle bestie, ci stavo
bene, li sentivo parte di me, più veri. Il discorso poi
si è evoluto quando ho cominciato a chiacchierare con
persone che erano dichiaratamente di fede anarchica.
Che influenza hanno avuto questi tuoi contatti?
Sicuramente decisiva per la mia formazione culturale, di
tipo appunto libertario. In più mio padre mi portava
incautamente i primi dischi di George Brassens perché
lui aveva diversi contatti con la Francia. E Brassens era anche
lui un libertario, le sue canzoni scavavano nel sociale. Brassens
non è stato solo un maestro dal punto di vista didattico,
per quello che può essere la tecnica per fare una canzone,
è stato anche un maestro di pensiero e di vita. Mi ha
insegnato per esempio a lasciare correre i ladri di mele, come
diceva lui. Mi ha insegnato che in fin dei conti la ragionevolezza
e la convivenza sociale autentica si trovano di più in
quella parte umiliata ed emarginata della nostra società
che non tra i potenti.
E ci sono altri che tu riconosci come maestri oltre a Brassens?
Direi di no. Ci sono sporadiche e momentanee attenzioni
per altri grandi autori, come Jacques Brel. Anche lui ha fatto
molte canzoni sociali, basti pensare a "Les bourgeois".
Ma ho avuto interesse, più di tipo estetico che sociopolitico,
anche per Bob Dylan e Leonard Cohen.
Rispetto alle tue prime canzoni, che cos’è
cambiato nel De André del 1993. Vedi delle grosse differenze?
Dal punto di vista dei contenuti direi che non è
cambiato assolutamente niente. Dal punto di vista formale sicuramente
mi sono evoluto, perché ho frequentato nel frattempo
dei musicisti di rilievo. Ho cominciato con Giampiero Reverberi,
che era già un ottimo musicista, ho continuato con Nicola
Piovani, che adesso sta facendo le migliori musiche per film
che escono in Italia, e poi Mauro Pagani che non è un
musicista da conservatorio, come gli altri due, però
è un musicista molto creativo.
Che significato ha la tua collaborazione con Mauro Pagani?
Con Pagani ho dato vita al desiderio di ritornare a parlare
in maniera etnica. Abbiamo usato una lingua in disuso, con strumenti
che erano in disuso. Penso a "Creuza de mä"
e a quei quattro pezzi di matrice etnica che si trovano in "Nuvole".
Cercando di non confondere la musica etnica con quella folkloristica,
perché la musica folkloristica è quella che fa
il popolo per divertire le classi sociali più elevate.
La musica etnica invece è quella che fa il popolo per
se stesso. Dal punto di vista musicale Mauro aveva questo bagaglio
culturale, perché era un ricercatore. Invece io sono
un ricercatore del linguaggio e in più il genovese lo
so da bambino per cui mi è stato abbastanza facile.
Che cosa ti proponevi facendo "Creuza de mä",
che in fondo è stato uno dei tuoi più grossi successi?
Da un punto di vista delle vendite direi che è stato
il più scarso, perché noi puntavamo alle cinquantamila
copie per sopravvivere. In effetti ne sono state vendute fino
a oggi più di trecentocinquantamila, ma è stato
un allargarsi a macchia d’olio. Lì per li è stato
un impatto terribile. Mi ricordo che l’agente della Ricordi
in Liguria mi ha incontrato e mi ha detto: ma che cosa hai fatto?
Quel disco non lo capiscono neanche i genovesi.
Se ricordo bene "Creuza de mä" è
stato premiato come miglior disco degli anni Ottanta.
È stato premiatissimo dalla critica. Ho avuto un
diluvio di pacche sulle spalle. L’intendimento era inventare
una musica etnica, con un linguaggio e strumenti sicuramente
di matrice etnica. Solo questo. Non avevamo più voglia
di seguire la traccia degli americani, del mondo anglofono e
anche della loro musica. E quindi volevamo dare una svolta che
in parte c’è stata. Perché dopo quel disco, molti
hanno cominciato a suonare musica etnica con linguaggi locali,
soprattutto nel sud.
Quindi è stata anche la riscoperta di un linguaggio
autentico e autonomo rispetto a quella che è la globalizzazione
della società?
Sì, è stata la voglia di sottrarsi alla dipendenza
culturale di chi ha più fiato per suonare le trombe della
pubblicità.
Nell’ultimo disco, "Nuvole", del 1991,
c’è una canzone particolarmente pessimista o disperante,
"La domenica delle salme". Perché l’avete
scritta?
Volevamo esprimere il nostro disappunto nei confronti
della democrazia che stava diventando sempre meno demo crazia.
Democrazia reale non lo è mai stata, ma almeno si poteva
sperare che resistesse come democrazia formale e invece si sta
scoprendo che è un’oligarchia. Lo sapevamo tutti, però
nessuno si peritava di dirlo. È una canzone disperata
di persone che credevano di poter vivere almeno in una democrazia
e si sono accorte che questa democrazia non esisteva più.
È dunque un atto d’accusa.
Sicuramente, e lo è anche nei nostri confronti.
C’è una tirata contro i cantautori che avevano una voce
potente per il vaffanculo, e invece non l’hanno fatto a tempo
debito. Io credo che in qualche maniera la canzone possa influire
sulla coscienza sociale, almeno a livello epidermico. Noto che
ci sono tante persone che vengono nel camerino alla fine di
ogni spettacolo e che mi dicono: siamo cresciuti con le tue
canzoni e abbiamo fatto crescere i nostri figli con le tue canzoni.
E non so fino a che punto sia una cosa giusta. Credo che in
qualche misura le canzoni possano orientare le persone a pensare
in un determinato modo e a comportarsi di conseguenza. A me
è successo con Brassens, non vedo perché agli
altri non possa succedere.
Oggi, se tu dovessi dare una definizione di
De André, che cosa diresti, a livello musicale, politico
e sociale.
Ho degli ideali precisi, quelli libertari che ho sempre avuto,
solo che direi che sto aspettando che si verifichi almeno il
decentramento del potere, per poter gestire in piccolo questo
potere fino a creare isole di libertarismo. Dare una definizione
è difficile perché sono tante cose; sono anche
un allevatore di bestiame, sono una persona innamorata degli
alberi, dell’acqua pulita.
In che misura il tuo essere libertario ha influito sul tuo
fare musica?
Ma probabilmente per l’attenzione che ho avuto per il sociale.
Mi sono reso conto delle grandi differenze che esistevano. Ho
sempre tentato di giustificare e di scusare socialmente certe
azioni che manifestamente erano magari delinquenziali per il
fatto che le persone che le commettevano non avevano avuto quell’opportunità
di poter essere uguali agli altri, soprattutto dal punto di
vista economico, ma anche per l’impossibilità di studiare.
Sempre nelle "Nuvole" c’è una canzone
in cui parli di un secondino. Dai voce al carceriere e c’è
una nota di simpatia per lui.
Sicuramente sì, anche perché è un po’
analfabeta, infatti mi esprimo nella canzone in un napoletano
maccheronico. Penso che anche lui sia una vittima delle circostanze
politiche.
Una posizione un po’ diversa da quella espressa in un’altra
canzone, del disco "Storia di un impiegato",
in cui dici: "Di respirare la stessa aria di un secondino
non mi va".
Con la differenza che in questo caso il secondino si rivolge
a un boss della camorra, nell’altro caso era un militante dell’estrema
sinistra che si rivolgeva a un secondino. Le posizioni sono
completamente rovesciate. Là era il non potere che si
rivolgeva al potere; in questo caso invece il potere vero appartiene
al galeotto, il secondino non ne ha. È comunque divertente
che il secondino sia in ogni caso un rappresentante dello stato.
Ed è lo stato che si rivolge a un’organizzazione delinquenziale
per ottenere dei favori. Questo è da sottolineare.
Però si tratta dell’ultimo gradino del potere statale.
Adesso viene fuori che lo si faceva anche ad alti livelli,
non solo da parte di un povero secondino.
Quello che sta succedendo in Italia, incriminazione sia
dei vertici della politica, sia dei vertici dell’industria,
che cosa ti ispira? Farai una canzone su Tangentopoli?
Non credo proprio, anche perché non mi va di accoltellare
i cadaveri. Non mi piace infierire.
Qual è la tua opinione su ciò che sta accadendo?
È un grande repulisti che ci fa soltanto bene. Il problema
è di duplice natura: a forza di vedere la gente che entra
ed esce dalla galera può accadere che non ci si faccia
più caso, andare in galera diventerà probabilmente,
nella memoria, collettiva, un fatto normale. In secondo luogo,
il fatto di mettere in galera queste persone che hanno commesso
crimini non è che ricostituisca una morale, è
semplicemente un deterrente. Una morale la si ricostruisce in
un centinaio di anni. Ormai c’è una nuova morale che
si fonda su valori perversi: l’arricchimento immediato, il non
guardare in faccia a nessuno pur di accumulare capitali.
Non sei molto ottimista per il futuro.
Non molto. Mi pare che adesso stiano semplicemente facendo
ricerche su persone che hanno avuto a che fare con gli appalti
pubblici, ma se dovessero andare a scavare, io credo che il
50-60 per cento degli italiani abbia commesso reati di questo
tipo, cioè si è arricchita indebitamente. Le regole
che pensavamo fossero alla base del vivere civile sono saltate,
per ricostituirle ci vorrà probabilmente un periodo molto
lungo. E con la nuova crisi economica rispunterà la povertà
e attraverso la povertà forse si riscopriranno i valori
della solidarietà.
Sarà possibile?
Probabilmente no, perché non arriveremo così
in fondo da poter ricostituire il tessuto sociale su valori
convincenti.
Però bisogna riconoscere che quello che ha fatto
un giudice in un anno non è stato ottenuto con decenni
di opposizione politica e questo ridà fiducia a un potere
dello stato.
Il problema è che questo mutamento non è venuto
da un largo movimento di massa ma da un potere dello stato.
I giudici sono semplicemente delegati a usare questo potere
deterrente che non ricostituisce la morale. Il giudice è
un tecnico pagato dallo stato che applica il codice, fatto dai
vertici dello stato, per comminare una pena. Il compito della
sinistra dovrebbe essere quello di ricostruire una morale. (...)
Tu non sei un musicista che pubblica a getto continuo. Hai
in progetto qualcosa di nuovo?
In questo momento avrei un progetto per qualcosa di nuovo,
però è talmente fumoso e disordinato che prima
di parlarne bisogna che faccia ordine nella mia testa. E poi
in questo momento sono impegnato in concerti che faccio con
fatica, con un certo timore reverenziale nei confronti del pubblico,
nel timore di sbagliare. E un’attività che mi stanca
molto e non mi lascia il tempo per pensare tranquillamente.
Quindi è prevedibile che passerà ancora qualche
anno.
Almeno due anni, direi. Perché non penserò subito
a un disco nuovo: non sono un pollo da allevamento. Spero di
riuscire a pensare ad altre cose che mi permettano di evolvermi
in altre direzioni. Non mi va di pensare che la mia vita debba
essere fatta semplicemente dallo scrivere canzoni e andare sul
palcoscenico. Ho un’azienda agricola, amici, interessi diversi.
Delle tendenze musicali contemporanee, quale ti interessa
di più?
Direi che in questo momento c’è ben poco. C’è
per esempio il metal, io sono poco portato verso questa musica
che si può cantare poco. Direi che sono più portato
ad ascoltare giovani che stanno recuperando antiche tradizioni
popolari, soprattutto in Puglia. Attraverso una musica che in
certi casi è rap, quindi d’importazione, ma in altri
casi ha radici nella cultura musicale. Alcuni giovani stanno
raccontando storie di tutti i giorni nella loro lingua originale.
Ce ne sono un po’ dappertutto e questa forse è la cosa
più interessante. E bisogna tenere presente che una canzone
per essere riuscita dovrebbe avere due possibilità di
lettura. Quindi canzoni che lì per lì possono
sembrare canzoni di evasione, di amore, scavando puoi trovare
anche il sociale. Magari chi l’ha scritta, l’ha fatto inconsciamente.
Puoi fare qualche esempio riferendoti a tue canzoni?
Per esempio la Canzone di Marinella. Non è nata
per caso, semplicemente perché volevo raccontare una
favola d’amore. È tutto il contrario. È la storia
di una ragazza che a sedici anni ha perduto i genitori, una
ragazza di campagna dalle parti di Asti. È stata cacciata
dagli zii e si è messa a battere lungo le sponde del
Tanaro e un giorno ha trovato uno che le ha portato via la borsetta
dal braccio e l’ha buttata nel fiume e non potendo fare niente
per restituirle la vita, ho cercato di cambiarle la morte. Così
è nata la "Canzone di Marinella", che
se vogliamo ha anch’essa delle motivazioni sociali, nascostissime.
Ho voluto completamente mistificare la sorte di Marinella. Non
ha altra chiave di lettura se non quella di un amore disgraziato;
se tu non racconti il retroscena è impossibile che uno
pensi che all’origine c’era una gravissima problematica sociale.
Certi fatti della realtà, soprattutto quand’ero giovane,
mi davano un grande fastidio, allora cercavo di mutare la realtà.
a cura di Luciano Lanza
(Tratto da Volontà "Note di rivolta",
1993)
Un blasfemo
dietro ogni blasfemo c’è un giardino incantato
Mai più mi chinai, e nemmeno su un fiore,
più non arrossii nel rubare l’amore
dal momento che inverno mi convinse che Dio
non sarebbe arrossito rubandomi il mio.
Mi arrestarono un giorno per le donne e il vino,
non avevano leggi per punire un blasfemo,
non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte,
mi cercarono l’anima a forza di botte.
Perché dissi che Dio imbrogliò il primo
uomo,
lo costrinse a viaggiare una vita da scemo,
nel giardino incantato lo costrinse a sognare,
a ignorare che al mondo c’è il bene e c’è
il male.
Quando vide che l’uomo allungava le dita
a rubargli il mistero d’una mela proibita
per paura che ormai non avesse padroni
lo fermò con la morte, e inventò le stagioni.
... mi cercarono l’anima a forza di botte...
E se furon due guardie a fermarmi la vita,
è proprio qui sulla terra la mela proibita,
e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato.
da: "Non al denaro non all’amore, né
al cielo" 1971
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Le foto del dossier sono di Reinhold Kohl.
Ringraziamo per la collaborazione anche Gianfranco
Aresi e Bruno Sconocchia.
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