Oltre la storia dell’anarchismo
di Massimo La Torre
Rispetto ad un libro di più di
mille pagine com’è quello di Nico Berti la reazione non
può che essere d’ammirazione: ammirazione per la vastità
del campo di ricerca e del sapere snocciolato in una prosa d’agevole
lettura, per la enorme capacità di lavoro, per lo sforzo
di completezza. In effetti, non era stata finora tentata, almeno
nell’ambito culturale di lingua italiana, un’opera di questa
mole interamente centrata sul pensiero libertario. L’informazione
di Berti al riguardo è enciclopedica, la sua prospettiva
di studio articolata, il suo interesse oltreché storico
genuinamente teorico. Detto ciò, in queste poche righe
non mi soffermerò sui meriti (indiscutibili) della sua
interpretazione dei "classici" dell’anarchismo (da
Godwin a Malatesta) e degli "irregolari" che possono
ascriversi a questo (Merlino, Caffi, Rizzi), anche se forte
è la tentazione di dire qualcosa per esempio sulla configurazione
teorica attribuita a Merlino. Ma mi trattengo, in considerazione
non solo dello spazio che posso utilizzare qui ma anche del
fatto che tale configurazione dipende dalla più generale
concettualizzazione dell’anarchismo difesa da Berti e presentata
nel primo capitolo del volume.
La tesi di Berti è che l’anarchismo sia un pensiero
ossessionato dalla storia. Però a contrario, per così
dire. "Pur opposti, socialismo e anarchismo - scrive -
partecipano della stessa credenza e vivono dello stesso mito:
la supremazia della storia rispetto alla politica"(p. 23).
E quanto afferma qui Berti è certo, anche se tra il socialismo
(inteso come marxismo) e l’anarchismo v’è un’importante
differenza rispetto al loro atteggiamento rispetto alla storia:
il primo (il socialismo) vuole sempre farsi portare - per così
dire - dalla storia, essere in sintonia con questa, mentre l’anarchismo
di sintonia non vuol proprio saperne ed invece è ostinatamente
proteso ad opporsi alla storia. In questo - e ciò è
ben sottolineato da Berti - entrambi sono ossessive filosofie
della storia e dunque risultano disattenti verso la politica
come presente né causato da un passato né condizione
già sufficiente del futuro. Per il socialismo il presente
ha significato e rilevanza in quanto pegno di futuro, causa
di un effetto che è un tempo successivo. Per l’anarchismo
invece il presente è marchiato sempre e comunque dal
fatto di provenire da un passato, d’avere avuto una causa che
lo ha prodotto. Il socialista può così in parte
riconciliarsi col presente ma solo come attesa di un evento
che verrà. L’anarchico è in perenne lotta col
presente perché questo è figlio del passato. Assistiamo
dunque a ciò che Berti chiama "la supremazia della
storia rispetto alla politica". Nell’anarchico tutto ciò
ha come conseguenza - oggigiorno divenuta tragica - del suo
compiacersi della propria marginalità rispetto al suo
tempo, nel crogiolarsi nello spazio dell’esclusione e dell’insignificanza
politica. Ché - si badi - essere rilevante politicamente
è esserlo nel presente.
Ora, questa interpretazione, insieme a quell’altra per cui
l’anarchismo è ad un tempo momento estremo del processo
di secolarizzazione e nondimeno reazione a questo e così
fusione di etica e politica, questo prisma interpretativo è
acuto, equilibrato, corretto. Esso però vale solo - e
qui, io credo, Berti è meno sorretto dalla sua abituale
sensibilità storico-teorica - per una parte dell’anarchismo,
quella romantica, quella che muove da Bakunin e si afferma con
la vulgata di Kropotkin e Malatesta. Ma - checché ne
dica Berti - questo non è tutto l’anarchismo, ne è
l’anarchismo "paradigmatico". Il mito insurrezionale
è estraneo ai più raffinati teorici del pensiero
libertario: Godwin, Stirner e Proudhon. Bakunin vi aggiunge
certo la potenza della sua personalità e del suo carisma,
oltreché una buona dose di idealismo fichteano, e ne
fa un programma di "partito". Ma il Russo non dimentica
il suo punto di partenza, e il mito, la storia e la volontà
romantica non oscurano in lui le ragioni - più asciutte
- della politica. Le quali in questa linea di pensiero - con
tutte le loro differenze - vanno rinvenute nell’idea di una
democrazia intesa in senso radicale e portata alle sue estreme
conseguenze. V’è dunque - oltre il romanticismo - un’altra
radice dell’anarchismo ( ripresa poi tra gli altri e in maniera
particolarmente pregnante da Merlino): io la chiamerei - rifacendomi
ad un recente dibattito filosofico-politico - la radice del
repubblicanismo. Quando Bakunin, contrapponendo la nozione comunitaria
di libertà dell’anarchico a quella insolidale del liberale,
afferma che la libertà di ciascuno non è limitata
bensì potenziata e garantita dalla libertà di
tutti non sta che riprendendo un vecchio motivo conduttore del
pensiero "repubblicano": dell’idea di democrazia deliberativa
in cui la libertà non è mera assenza di costrizione
ma indipendenza rispetto all’intera sfera della buona vita ,
non sicurezza sotto lo scudo di una legge bensì capacità
effettiva di intervenire e produrre la legge. Si ricordi a questo
proposito che in Théorie de la propriété
- uno degli ultimi libri di Proudhon - la nozione di proprietà
accettata dal Francese è molto simile a questa nozione
di "indipendenza", un àmbito di autonomia autogenerato
dal soggetto mediante la produzione di titoli giuridici ed il
controllo su di essi.
Oltre al rifiuto della politica (che nel "repubblicanismo"
ovviamente non si ritrova) un altro punto che merita d’essere
sottolineato come chiave di lettura della storia dell’anarchismo,
e anche come altra ragione della sua progressiva ed apparentemente
irrimediabile marginalizzazione, è la strettissima connessione
stabilita da questo tra etica e politica. La separazione di
queste due sfere non va letta unicamente come machiavellica
autonomizzazione della politica e legittimazione della Ragion
di Stato, come trionfo dei mezzi (la razionalità strumentale)
sui fini (la razionalità secondo il valore). La separazione
di etica e politica, che - come dice acutamente Berti- rappresenta
una mutazione epocale la quale è condizione necessaria
della stessa "concepibilità" dell’anarchismo
(ponendo all’ordine del giorno il problema della giustificazione
del potere politico in epoca pre-moderna data in buona sostanza
per scontata), tale separazione è anche una mossa che
permette la pluralità degli stili di vita all’interno
di una medesima comunità politica. Ora, questo problema
non sembra essere chiaramente avvertito dall’anarchico per il
quale infatti la società anarchica è una società
di anarchici, non avvertendo tra l’altro che una società
anarchica come società di anarchici è una nozione
per un verso politicamente irrilevante - giacché dà
per risolti in via di principio i problemi della coordinazione
politica delle condotte spostando la questione sul piano etico
- e per altro verso è contraddittoria - giacché
presuppone che non vi siano contrasti reali sulla conformazione
dello stile di vita dominante dando per definita una volta per
tutte i contenuti dell’autonomia dei soggetti -. Ma per l’anarchismo
movimento romantico la virtù come intenzione pura è
più importante della condotta esterna. Non l’intero l’anarchismo
tuttavia passa attraverso la cruna dell’ago di una siffatta
riduzione dell’etica alla politica. Non tutto l’anarchismo è
in questo senso "religioso".
Bene, è da qui (repubblicanismo più separazione
di etica e politica) che si può riscrivere in parte la
storia del pensiero anarchico ed anche ravvivarne il significato
"pubblico". Infine, sia detto en passant, con il libro
di Berti si conclude in certa misura una linea assai proficua
di studi storici. Dopo questa summa è un altro il còmpito
che ci si può aspettare dall’intellettuale libertario:
quello di darci risposte normative, di offrirci un modello teorico
dell’anarchismo all’altezza della sua fama storica. Elogia Berti
"la libertà anarchica che fa coincidere la libertà
dell’uno con la libertà di tutti" (p. 19). Benissimo,
ma che vuol dire? Come si fa operativamente a conciliare la
libertà di ciascuno con quella di tutti gli altri? Con
che princìpi? Quali sono i criteri normativi che rendono
possibile quella conciliazione o - usando la formula forte di
Berti - coincidenza? Non basta certo affermarla a parole la
coincidenza, non basta il gesto romantico, per renderla possibile.
Ma qui non è più alla storia ma alla filosofia
che dovrà farsi ricorso.
Massimo La Torre
Anarchia, no grazie
di Salvo Vaccaro
Il libro di Nico Berti, nella sua vastità
faticosa di riflessione (e ciò vale tanto per l’autore
che per il lettore), si presenta apparentemente come un testo
di storia del pensiero anarchico. E come tale già meriterebbe
una serie di considerazioni sia sulle interpretazioni dei singoli
"classici" (aspetto ancora una serrata critica della
natura proprietaria dell’io stirneriano), sia sulla rilettura
politica dello scontro all’interno della I Internazionale o
dell’anarcosindacalismo, sia sulla scelta finale di concludere
il novecento con tre autori libertari non-anarchici.
Questo è il compito, almeno credo, di una critica
che si muova sul terreno della storia del pensiero. Ma i pilastri
su cui si regge (è proprio il caso di dirlo) l’intera
architettura del testo di Berti, con tutte le sue tensioni,
sono a mio parere apparentemente di ordine storico, laddove
io scorgo una fortissima opzione teorica, quasi filosofica oserei
affermare. Ed è su questa scelta di campo, esplicitata
interamente solo nell’introduzione - ma di cui è possibile
intravedere alcuni rilievi nel corso d’opera, che acquistano
più chiarezza proprio per via del taglio introduttivo
- che intendo soffermarmi.
La storia è un destino? In tedesco c’è un bel
gioco di parole tra storia (Geschichte) e destino (Geschick)
che adombra una affinità. Sarà poi vero? E l’etimologia
in negativo dell’an-archismo è un destino ineluttabile?
Già, perché il negativo non denoterebbe altro
che un rovesciamento: ma un guanto rovesciato sempre guanto
rimane... Conosciamo bene il terreno principale su cui si attua
il rovesciamento anarchico: la critica della politica - intendendo
per essa l’istituzionalizzazione di uno solo degli ordini possibili,
quello statuale (non statale, ma autoritario al di qua e al
di là delle forme storiche contingenti). L’antipolitica
anarchica è il più alto esempio di coerenza ideologica.
Tuttavia essa non ripudia un piano coevo ad ogni politica: l’idea
di organizzare una società in maniera globale, esaustiva,
compiuta, perfetta (non sempre armonica, ma quasi angelica);
è la pretesa anche dell’ideologia anarchica, la ubris
dell’appartenenza aggettivata: una società anarchica,
e quella sola. Altri direbbero, una ennesima forma di teologia
politica, insufficentemente secolarizzata. Come del resto ogni
forma moderna di teoria politica, che ha rovesciato la società
religiosa in società laica mutandone i fattori in gioco,
ma non lo stile. Curiosa forma di dialettica antipolitica, che
ancora necessita di una ulteriore spinta secolarizzatrice che
la proietti oltre la circolarità di una società
chiusa e conchiusa all’interno del perimetro identitario dell’aggettivazione:
una società anarchica, solo così, e a chi non
garba, in esilio! Già, ma dove, se l’ideale è
una società anarchica universale?...
Proviamo ora ad affrontare questo nodo aporetico da un altro
lato. Intento in ultima analisi dell’anarchismo è quello
di ripiegare la forza. Suona quasi come un titanismo antropologico,
ma in effetti l’anarchismo nella sua ferrea critica dell’autorità,
e la società anarchica senza autorità né
dominanti, ossia con autorevolezze che non esercitino dominio,
ossia con poteri circoscritti, revocabili, equilibrati reciprocamente,
autocontrollati nel loro esercizio, in fin dei conti intende
soggiogare un elemento vitale presente nella specie umana, forse
ineliminabile, comunque riconducibile a più miti pretese
se incastonato - ingabbiato - in un sistema che ne limiti la
potenza invasiva e distruttiva, soggiogante cioè. Bene,
la risposta anarchica è differente da quella statuale,
che intende neutralizzare la forza accentrandola e capitalizzandola
come risorsa virtuale e simbolica, ossia dandole una verticalità
gerarchica che si replica indefinitamente anche quando, materialmente,
lo stato non ne ha l’esclusivo monopolio, come pure pretende.
La risposta anarchica, contraria tutto sommato a una neutralizzazione
sublimante che sposta l’esercizio della forza a livello microfisico,
nel quotidiano, senza che ciò porti alla guerra permanente
(la lunga storia della stuatualità da Platone ad oggi,
via Hobbes e Weber), ma con ciò stesso interiorizzandone
il modulo di formazione e funzionamento, ha il suo lato debole
nella misura in cui esalta l’elemento sociale in contrapposizione
alla forza politica. Se la politica mira costitutivamente a
neutralizzarla, la socialità, lungi dal ridurla, mira
a dispiegarla, a diffonderla più o meno "egualitariamente"
in dosi non pericolose per l’intero sistema: tipici sono i ricorrenti
scoppi di violenza, non meno feroci e autoritari, seppure non
istituzionalizzati. Su questo lato, la risposta anarchica è
insufficente perché il dispiegamento della forza, o presuppone
una autoregolazione non micidiale - come se ci fosse una mano
invisibile di mercato - oppure viene ri-piegata dall’aggettivazione
che riconosce e legittima solo quella riconducibile (per funzionalità
od altro) all’istanza che identifica la società compiuta,
finale: il regno dell’anarchia sulla terra, unico criterio -
spesso anticipato - da cui ammettere l’esercizio della forza,
anche come arma dell’antipolitica per liberarsi della (forza
istituzionalizzata della) politica.
In altri termini, ritengo insufficente questo taglio che
la teoria ha tramandato perché non indaga a fondo (e
in largo) le dinamiche dei legami sociali sui quali ipotizzare
(e praticare) ripiegamenti della forza in modo che rimangano
passioni e affezioni non micidiali, non assoggettanti: il problema
impolitico che da de La Boétie a Reich si è posto
nei secoli passando per Spinoza e Nietzsche sino a Deleuze e
Foucault (nella mia nominazione ideale che svela il versante
filosofico prescelto).
Per un ulteriore disincanto
Come aggredire, allora, quell’aporia? Contrariamente,
forse, a quel che pensa Nico Berti, che separa nettamente l’elemento
negativo della teoria an-archica dall’aspetto affermativo praticato
dal movimento anarchico militante (con tutti i limiti storici
e strategici, beninteso), io sarei del parere che, nel negativo,
viene introiettato l’elemento utopico che, paradossalmente,
finirebbe col proiettare una ipotesi affermativa di anarchismo.
E mi spiego.
Perché, discutendo di anarchia e anarchismo, tra/da
anarchici, su una rivista anarchica, correrei il folle rischio
di farmi "linciare" affermando la mia contrarietà
a una società anarchica? La risposta sta nell’unità
singolare a cui lo spazio sociale verrebbe ri(con)dotto, ossia
nella pretesa (inconsapevole, peraltro) di totalità autoreferente,
chiusa in se stessa, da ultimo stadio dell’esistenza, che il
pensiero anarchico ("illuminato" anche da Hegel...)
dà della società anarchica. La medesima arroganza
che colpisce ogni ideologia (liberalismo, capitalismo, comunismo
marxiano, islamismo, cristianesimo, ecc.) quando intende ordinare
la pluralità eccedente di ogni legame associativo possibile
tra individui in uno schema (regime) gioco forza binario: inclusivo-esclusivo,
integrante-espulsivo.
Tutto ciò è teologia politica, che nel pensiero
anarchico, oltre che dai Lumi della modernità, proviene
anche da quel messianesimo chiliastico che "sogna"
di abolire il dominio per sempre, estirpandone la radice antropica,
essendo cioè sicuro sia di individuare il vizio antropocentrico,
sia di eliminarlo alla radice, per sempre. Come se si potesse
porre un fine alla casualità caotica dell’esperienza
umana nei tempi, asserendo la possibilità non di una
utopia (la negazione indeterminata è appunto transitoria
e immanente), ma della sua risoluzione (Aufhebung hegeliana,
appunto) nel capolinea finale della storia dell’umanità.
E dopo?
Eppure l’utopia anarchica ci serve come sprone per un ulteriore
disincanto, anche delle nostre stesse favole, pardon, racconti,
narrazioni, argomentazioni fondate su un terreno che crediamo
ben saldo (la negazione infinita) ma che si rivela, colto da
questo lato, precario e forse un po’ pericoloso. Se sono contrario
all’idea di una società anarchica - proprio perché
contrario alle aggettivazioni che riducono all’unità
dell’appartenenza esclusiva - mi dichiaro favorevole a legami
sociali libertari, ossia a società libertarie.
Non credo che sia il caso di dichiarare quanto la socializzazione
tra individui sia costitutiva degli individui stessi, come i
legami sociali siano di ordine culturale, giammai naturali o
spontanei, come sia inverosimile parlare di stipulabilità
o contrattazione riguardo a essi, semmai di processi di associazione
societaria che danno corpo a immaginari e progettualità
collettive. Puntare l’enfasi su legami sociali liberi e libertari
significa rompere l’unità non solo statuale, ma anche
sociale, cioè di una unica società, in cui l’elemento
di pluralità e indeterminatezza infinita sarebbe contenuta
e possibile solo all’interno di un contesto unitario che legittima
alcuni legami sociali e non altri (non sempre è la legge
di stato a dettare norme: pregiudizi, stereotipi, convenzioni
sono eredità sociali difficili da estirpare sia che vengano
rafforzate da leggi statali, sia che vengano ridimensionate
da leggi progressiste).
Rompere l’unità della società significa propugnare
una pluralità di stili di vita la cui infinità
storica (asintotica, mai perfettamete compiuta) si caratterizzerebbe,
in un’ottica libertaria (ahimè! non sempre si sfugge
all’aggettivazione! ma quanto meno non è indice di appartenenza),
da alcuni minimi comuni denominatori, tra i quali, tanto per
dare un esempio grezzo, il controllo a rete che i conflitti
emergenti tra i differenti stili e opzioni di vita - non solo
individuali - siano risolubili in modo non autoritario, ossia
per conciliazione, per argomentazione dialogica, per secessione
consensuale. Si verrebbe così a esautorare ogni unità
delle differenze, sia che tale unità venga catturata
dalla forza statuale, sia che venga diffusa come virus nelle
pieghe della società, che ne replicherebbe la verticalità
gerarchica, come del resto è visibile in istituzioni
non statali, bensì sociali.
Si verrebbero così a eliminare le istituzioni statuali,
politiche, che rafforzano le aspettative nel gioco di domanda-risposta
in cui viene incanalato il pluralismo delle istanze sociali
una volta superato il filtro del riconoscimento in quanto tali:
la fedeltà, la coerenza, la permanenza, contro la libertà,
la responsabilità, la fantasia, la precarietà.
E si verrebbe così a indebolire, oltre alla statualità,
anche il concetto e la pratica di unità sociale, che
nomina i legami sociali eleggibili, sceglibili in patti o contratti
da rispettare pena la messa fuori campo, l’espulsione dal sacro
recinto quale è la società, al singolare appunto.
A che servirebbe allora l’anarchismo e l’utopia dell’anarchia?
Ma proprio come riserva di tensione collettiva e individuale!
Io non so se con ciò si traduce l’idea di Nico Berti
di considerare fondamentalmente etico, perché antipolitico,
l’opzione anarchica. Ho profonda allergia per l’interscambiabilità
tra etica e morale, la quale ha una accezione prescrittiva per
me inaccettabile, laddove ethos rimanda a ciò che ho
definito stile di vita, singolare e collettivo insieme, non
a caso un termine preso a prestito da un vocabolario estetico,
quasi a significarne la gratuità intrinseca, la capacità
di avere a che fare con facoltà non prettamente politiche
quali la passione, l’affezione, la sensibilità (notoriamente
bandite dalla politica) che usano la propria forza in modo non
invasivo, non assoggettante, ma ripiegandosi nella pluralità
degli stili, gli uni accanto agli altri.
Se così è, la tensione etica dell’anarchismo
indica il senso di responsabilizzazione e del limite alla pretesa
affermativa dell’utopia fondatrice di una società anarchica.
Così si risolve grossomodo quel paradosso di una utopia
affermativa, declinando la tensione in negativo dell’an-archismo
con la progettualità sperimentale di legami sociali liberi
e libertari. E qua muta radicalmente anche il concetto di tempo
rivoluzionario, che Berti fa coincidere con il tempo storico
("nella storia ma contro la storia", secondo una felicissima
formulazione), a differenza di tutta una tradizione di filosofia
politica, in ultima analisi erede della teologia politica. La
politica dei due tempi, infatti, tipica di ogni concezione rivoluzionaria,
compresa quella anarchica (tranne l’ultimo, grandioso, Malatesta),
perpetua infatti l’etimo originario di "rivoluzione",
ritorno ciclico (la re-volutio della volta celeste con pianeti
e stelle e il loro moto ellittico circolare), secondo cui la
rottura è distinta dal momento ricostruttore, che fatalmente
coincide, mutatis mutandis, con ciò che si è distrutto
sotto altre forme. E ormai è risaputo che la rottura
è un processo fisiologico di un divenire sociale catturato
dal capitale, per il quale distruggere è sopravvivere,
autoreplicarsi, rinascere sotto mutate costellazioni.
Ecco perché la progettualità sperimentale
della teoria (strategica) anarchica non può assumere
come elemento cardinale la rottura rivoluzionaria, bensì
la distruzione del tempo rivoluzionario (a due fasi) assumendo
il presente come transizione permanente, come affermazione altra
che distrugge mentre costruisce, come divenire-rivoluzionario,
in una parola, come gradualità malatestiana.
Divenire oggi: questa è la sfida distruttiva-costruttiva
insieme, e non tanto il problema della rivoluzione di massa
(o, ridicolmente, della insurrezione di massa legata a quella
politica dei due tempi). Divenire-altro come indice di una utopia
che esperisce legami sociali in tutte le dimensioni dell’esistenza,
stilizzando la propria vita insieme a quella altrui e sperimentando
altro - da ciò che si chiama famiglia a ciò che
si chiama scuola, da ciò che si chiama relazione ecologica
a ciò che si chiama spazio pubblico. Divenire-minore
come indice di una radicale sottrazione agli input dialettici
cui veniamo bombardati, inducendoci a ingolfarci in conflitti
istruiti senza soluzione di continuità (i falsi dilemmi:
scuola statale o scuola privata, stato sociale o stato neoliberale,
ecc.). Divenire-rivoluzionario come indice della declinazione
congiunta di pratiche stilizzate di legami sociali che erodono
il terreno su cui si fonda la statualità per dinamicizzare
la pluralità, la revocabilità, l’allacciabilità
dei legami sociali, evadendo le forme del controllo sociale
che ci inchiodano al conformismo consumistico (ad esempio) e
sfuggendo alle trappole illibertarie della conflittualità
fisiologica dei sistemi capitalistici (ad esempio) che ci fissano
su terreni di esercizio segnati dalla processualità dialettica,
tipica per autoreplicare il gioco di sempre e non presentando,
se non sotto forma sottraente, una fuga che non sia quella di
partecipare al gioco nel ruolo preassegnatodi antagonista (sia
esso riformatore o rivoluzionario).
Salvo Vaccaro
I
nostri fondi neri
|
Sottoscrizioni: Renato Girometta (Roma),
100.000; Valerio Pignatta (Varzi), 36.000; Cesare
Fuochi (Imola), 50.000; Marco Buraschi (Roma), 50.000;
Aurora e Paolo (Milano) ricordando Alfonso Failla
nel 13° anniversario della morte (26.1.1986), 1.000.000;
Angelo Tantaro (Roma), 2.550; Rino Fiorin (Marghera),
10.000; Guido Barroero (Genova-Pegli), 10.000; Kiki
Franceschi (Firenze), 10.000; Giuseppe Sette (Genova),
10.000; Cariddi Di Domenico (Livorno), 50.000; Giacomo
Prigigallo (Genova-Sestri Ponente), 100.000; Renato
Girometta (Roma), 100.000; Lorenzo e Rosetta (Milano),
200.000; Salvatore Esposito (Francoforte sul Meno
- Germania), 100.000; Claudio Neri e Gabriella Gianfelici
(Roma), 25.000 ; Alfredo Gagliardi (Ferrara),
80.000; Carolina Tobia (Rensselaer - USA) 235.569;
Stefano Quinto (Maserada), 50.000; Luca Todini (Torgiano),
50.000; Gianni Corini (Toronto - Canada) 201.159;
L.D. (Ancona), 300.000; Alfredo Gagliardi (Ferrara),
300.000; Silvio Gori (Bergamo) ricordando Egisto e
Maria Gori, 100.000; Luigi Simonetti (Pordenone) ricordando
Marina, Donatella e Gigi, 58.000; Enzo Francia (Imola),
50.000; Fabrizio Tognetti (Larderello), 50.000; a/m
Fabio Santin, parte ricavato della mostra di opere
d’arte, ricordando Marina Padovese, tenutasi a Venezia
in dicembre, 1.070.000; Patrizio Biagi (Milano), 500.000.
Gabriele Marzari (Genova), 20.000; Cosimo Valente
(Torino), 100.000; Alfio Nassaro (Pieve Emanuele),
5.000; Pino Cavagnaro (Genova), 50.000; David Koven
(Vallejo - USA), 160.000; Tiziano Viganò (Casatenovo),
50.000; Liuba e Franco (Ancona), 50.000; Francesco
Trovato (Siracusa), 20.000 ricordando Alfonso Failla;
Marco Tomassini (Roma), ricordando Marco Sanna, 20.000;
Angelo Zanni (Sovere), 20.000;
Totale lire 5.443.278.
Abbonamenti Sostenitori: Aimone
Fornaciari (Liutuntie - Finlandia), 150.000; Mario
Perego (Carnate), 200.000; Nicola Casciano (Novara),
150. 000; L.D. (Ancona), 200.000; Massimo Ortalli
(Imola), 150.000; Antonio Ruju (Torino), 200.000;
Giovani Bava (Mondovì), 150.000; Piero Cagnotti
(Dogliani), 200.000; Giordana Garavini (Castel Bolognese),
150.000; a/m Giordana Garavini, Aurelio Lolli (Castel
Bolognese), 150.000; Giorgio Nanni (Lodi) 200.000;
Filippo Trasatti (Cesate), 150.000; Stefano Cempini
(Ancona), 150.000; Zelinda Carloni (Roma), 250.000;
Fabio Palombo (Chieti), 150.000; Franco Leggio (Ragusa),
300.000.
Totale lire 2.900.000.
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