rivista anarchica
anno 29 n.256
estate 1999


Foto di Tiziana Martoccia

Destinazione lager

Dal 5 al 10 maggio scorso, si è svolto il pellegrinaggio annuale organizzato dall’ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati) presso i campi di Gusen, Dachau, Harteim e Mauthausen. Nel corso di queste giornate, oltre che le visite all’interno dei lager, ai dibattiti, e agli incontri con i vari gruppi provenienti da tutto il mondo, nelle giornate internazionali di commemorazione dei caduti, sono stati rappresentati dei momenti tratti dallo spettacolo Hybris, di Macchia Mediterranea, che hanno accompagnato queste 5 giornate.
Riportiamo ora dei pensieri scritti da alcuni membri della compagnia, durante questa esperienza.

  Andrea Tibaldi

 

PERCHE’ NON SI PERDA LA MEMORIA

Marzo 1999. La compagnia va in fibrillazione! Ci hanno invitato ad una manifestazione in Germania e Austria, ci hanno invitato a presentare Hybris, il nostro spettacolo sul ‘900, nei campi di concentramento.
Da quel momento si comincia a seguire il filo di un pensiero che è quello della nostra capacità/possibilità di rapporto con questo pezzo di storia: nessuno di noi, neppure i più "anziani" hanno vissuto quegli anni, ognuno ne ha diversamente sentito parlare, tutti abbiamo in comune le emozioni di testi teatrali quali L’istruttoria o i film, i più diversi, e non l’ultimo La vita è bella.
Ci rendiamo conto che entreremo in luoghi che abbiamo sempre visto e immaginato "abitati" dai legittimi protagonisti: i deportati, gli aguzzini, quelli che comandano... e li troveremo vuoti, percorsi solo da comitive di pellegrini intenti a testimoniare perché la memoria non si perda. Ci rendiamo anche conto che a noi spetterà, per pochi momenti, essere "attori" della tragedia che lì si è compiuta, che occhi che hanno visto la realtà, gli ex deportati, guarderanno il nostro lavoro.
Il filo del pensiero si allunga, chiede di definire il senso del nostro andare, essere presenti, e si compone intorno ad una considerazione: tra breve sarà sempre più difficile trovare qualcuno, come Zilli o Signorelli, i due ex deportati che ci accompagnano, che faccia diretta testimonianza. E allora perché questi pellegrinaggi non si trasformino in "gite di curiosi", bisogna trovare altri segni, altre forme di comunicazione che impongano la riflessione... Proposte come la nostra, possono servire. Lo possiamo dire con sicurezza dopo aver sperimentato l’impatto con il pubblico nei tre campi dove abbiamo agito lo spettacolo.
Ma il filo del pensiero per ognuno di noi è altro; guardare, lasciare che le energie, le sensazioni che pervadono i luoghi ci parlino, ci commuovano, ci sconvolgano. Ognuno le ha trasformate in piccole istantanee da consegnare a chi vorrà, nella lettura, dividerle con noi.
Il mio è un pensiero che è sempre presente nelle situazioni di affronto/confronto con certe memorie o con certe contingenze.
Si è precisato salendo dalla scala della morte di Mauthausen, mentre pensavo ai nostri ospiti, tedeschi e austriaci, a quelli che venuti dopo e quindi incolpevoli (non innocenti, si sa che l’innocenza è difficilmente appannaggio dell’uomo maturo) hanno ereditato questi luoghi, queste memorie, e, nel tempo, questo "turismo pellegrinante" (lo dico con rispetto).
Pensavo a loro e quindi pensavo ad uomini, uomini come quelli che nei campi ci sono finiti proprio in quanto uomini, non disponibili ad essere altro. Anche coloro che (non partigiani o altro) ci sono finiti quasi per caso. Uomini hanno saputo e voluto essere, ed anche perciò si sono salvati, tutti anche quelli che non sono tornati, che sono morti tra atroci sofferenze ma non disperati. Si è salvato chi ha creduto nell’essere uomo.
Nulla è più terribile di quando un fratello alza la mano sul fratello e quindi la salvezza per questi martiri è stata la peggiore delle torture, il dolore maggiore: sapere che chi li torturava, umiliava, uccideva era un altro uomo. Lo avevano riconosciuto, non potevano, né sapevano rifugiarsi nella "consolazione" di spogliarlo della sua umanità.
E allora non dimenticare vuol dire operare perché non si ripeta, Resistenza vuol dire sentirsi chiamati a considerare sempre l’uomo, indicarlo, chiamarlo per nome anche suo malgrado, anche sotto i suoi colpi, come hanno fatto, consciamente o no, questi uomini il cui atteggiamento durante il sacrificio ha forse, a volte, non solo incattivito ulteriormente gli aguzzini, ma li ha consegnati alla responsabilità di essere uomini. Senza equivoci di sorta: l’uomo è libero di scegliere se operare il bene o il male, e in questo sta la dignità e il privilegio di essere uomini.

  Cesi Barazzi


Federica Capecchi e Barbara Fiorentino
nell’incipit di Hybris a Dachau.


(da sinistra) Eros Dinoia, Stefania Apuzzo, Federica Capecchi e Andrea Tibaldi.

 

HO RACCOLTO UNA PIETRA ALLA CAVA DI MAUTHAUSEN

Mi parla di te mio caro 29.520; l’ho raccolta perché ho udito il tuo pianto. Tu che mi hai condotto con occhi umidi in questo pellegrinaggio per raccontarmi la tua storia: perché io sapessi. Mi hai fatto capire l’importanza di un istante e di quale forza è la tua presenza. Un pensiero abbastanza costante della morte ha dato un grande valore al più piccolo istante della tua breve vita.
Ti hanno appuntato una stella gialla sul petto... e tu che pensavi di essere un eroe! Guardo quegli immensi spazi, quel panorama che dall’alto della scala della morte a me da tanta pace. E mi chiedo se tu sei mai riuscito a sollevare lo sguardo dal lavoro attento e rigorosamente controllato da quel folle proprietario illecito di vite e chissà... se ti è stato d’aiuto per continuare. Hai ragione, i tuoi compagni sembrano alberi, sradicati, a cui è stata tolta la corteccia, là in fila, numerati in attesa di diventare legna per il camino, un camino che continua a sputare "fumo umano".
Quante notti hai guardato verso la montagna da quel buco ed hai creduto alla morte come ad una liberazione, un pensiero non adatto ad un ragazzo della tua e della mia età... i tuoi occhi hanno visto l’orrore, l’immagine della distruzione, divoratrice di tutte le cose. Hai consumato corpo e mente come carta vetrata, raschiando il fondo di ogni tipo di offesa. Tutto sembra senza tempo. Un film muto... perché tanto non capisci la loro lingua: gridano, sparano, solo il caro Josef eppure io credo... credo nei giovani come me, e ne ho visti tanti in questi giorni, impegnati nella creazione di fondamenta per una società più umana, ricostruita sulle ceneri della morte.

  Michela Zonca

 

 

FOTOGRAFIE DEI CAMPI

Dachau
Passa veloce il mondo
davanti a Dachau
sfrecciano le strade troppo
vicine ai lager
Filo spinato che sfregia gli occhi

Fondamenta delle baracche
Gli uomini come sassi fanno rumore sotto i piedi ma non dicono niente.
Tutti uguali gli uomini di Dachau.
Tutti muti, tutti grigi.
Rotolano gli uomini concentrati nei campi a Dachau

Forno crematorio
E continuo a dire che non è tanto il forno ma lo sportello a farmi impressione, lì inerme a farsi aprire

Gli alberi del campo
Cipressi che fumano via per non respirare il camino, l’aria dolce nauseante, disperata del camino.

Ricostruzione della baracca
Si sente che è una ricostruzione. Le travi di legno che hanno sentito milioni di passi andare non possono fare un suono così netto. Viene assorbito il suono e soffocata, gridata dentro l’umanità che i corpi si confidano.
Solo ringraziare la libertà che oggi vivo. La libertà che mi hanno garantito. Ma chi ringraziare me, noi, la NATO, non potrà farlo con tanta sincerità. I bambini senza istruzione, gli uomini che scappano, tutte le individualità calpestate, quando si riavranno, non potranno farlo tanto sinceramente perché noi continuiamo a guardare e ad usare ed aspettiamo... aspettiamo lo scandalo e forse agiremo e sicuramente nel peggio dei modi. A noi piace solo la parte da eroi, da rivoluzionari. E allora?
Abbiamo già smesso d’imparare dai lager? Salvare l’uomo prima di sentirne pietà e pena.

  Stefania Apuzzo

 

Federica Capecchi in un momento di Hybris nel castello di Hartaim