rivista anarchica
anno 29 n.256
estate 1999


 

 

Liberali e anarchici

Ho letto con grande interesse l’articolo di Pietro Adamo "Mercato, proprietà, anarchia" pubblicato sul numero 253 di A Rivista Anarchica. Per un verso ne ho apprezzato la chiarezza, il rigore, l’interna coerenza, per l’altro mi è parso che le tesi che Pietro Adamo sostiene siano meritevoli di critiche diverse da quelle che lui stesso segnala.
Cercherò, di conseguenza, di sollevare alcune questioni che ritengo di un qualche interesse.
In primo luogo, è vero che non è condivisibile la riduzione della tradizione liberale all’attuale neoliberismo sia perché il liberalesimo è una corrente di pensiero e di azione ben più complessa di quello che pretendono sia la destra neoliberista che i suoi critici democratici e welfaristi che perché di norma i neoliberisti realmente esistenti sono decisamente illiberali su questioni decisamente rilevanti come il mantenimento dell’ordine, la struttura della spesa pubblica, il nazionalismo, la salvaguardia dei valori culturali tradizionali, la difesa dei monopoli ecc..
D’altro canto è un fatto che oggi, per citare un liberale alquanto noto, si può dire che, nelle democrazie dell’occidente, siamo tutti liberali, almeno nel senso che tutte le forze politiche istituzionali accettano le regole della democrazia parlamentare, non ci sono nemici ma avversari, nessuno pretende di poter costruire una società perfetta, nessuno ipotizza che l’ordine produttivo e sociale dominante sia trascendibile. Liberali sono, in questo senso, Fini e Bertinotti, Marini e D’Alema, Berlusconi e Prodi e lo stesso modo di intendere la lotta politica caratterizza, da decenni, gli altri paesi sviluppati. Da questo punto di vista si può dire che l’Italia sia pervenuta ad una compiuta civiltà liberale alquanto in ritardo a causa del peso della chiesa cattolica e del partito comunista, forze che sono divenute liberali con qualche fatica e, come dire, contro voglia.
Se, quindi, accettiamo la tesi che il liberalesimo storicamente esistente non è il neoliberismo, possiamo seguire senza pregiudizi la linea di pensiero proposta da Pietro Adamo, linea di pensiero intellettualmente stimolante e, per certi versi, suggestiva.
L’ethos liberale è, come ci ricorda Pietro Adamo, "la lotta condotta nel corso dell’età moderna e contemporanea contro le nozioni di assolutismo, autocrazia, gerarchia, privilegio in nome degli ideali collegati alla libertà individuale e ai diritti umani".
Lo stesso Pietro Adamo sembra riconoscere sia pur con prudenza che questa lotta ha coinvolto, in prima istanza, la borghesia nella sua fase ascendente e, direi io, i gruppi borghesi più colti ed avanzati.
Egli ci ricorda anche che "nel travaglio della modernizzazione i gruppi subalterni si sono spesso impadroniti delle parole d’ordine delle libertà "liberali" riplasmandole secondo fini ed esigenze proprie. In molti momenti (rivoluzionari o meno) si colgono slittamenti di discorso che puntano ad allargare la sfera della libertà, universalizzandone i fondamenti ispiratori e applicandoli ad ogni ambito dell’azione umana".
Ritengo che sarebbe opportuno ragionare sull’attività che Pietro Adamo definisce "riplasmare".
I gruppi sociali subalterni, nel loro rapporto con la modernità, che io ritengo si possa definire, senza troppe difficoltà modo di produzione capitalistico, hanno sin dall’inizio colto, in maniera più o meno chiara, alcuni caratteri contraddittori del discorso liberale e, in particolare, la sua interna logica oligarchica e il fatto che nel concreto processo di lavoro si determina un dispotismo per molti versi più forte di quello che caratterizzava la società di ordini.
Lo scontro fra democratici e liberali si è collocato sul primo versante della contraddizione, quello fra movimento operaio e classi proprietarie sul secondo con tutti gli intrecci che ci sono noti.
La graduale estensione all’assieme della popolazione dei diritti politici elementari (estensione alla quale le élites liberali tradizionali si sono opposte con forza e determinazione e che hanno sovente accettato obtorto collo) ha prodotto quella particolare sintesi fra liberalesimo e democrazia che oggi conosciamo e che viene definito liberaldemocrazia.
Della complessità di questa trasformazione sono, per motivi familiari, testimone diretto dato che l’ho vista agire nei convincimenti politici di mio padre che, con difficoltà enormi e solo negli ultimi anni della sua vita, è pervenuto a riconoscere che l’estensione alle masse subalterne del diritto di voto non era incompatibile con l’idea liberale di società nella quale era stato formato.
Non posso che condividere la tesi di Pietro Adamo che vede nella tradizione democratica delle possibili derive illiberali, derive che sorgono sia dalla tensione ad un’eguaglianza che nega le differenze fra gli individui concreti ed anzi le guarda con sospetto che dall’intreccio fra democrazia e burocrazia (partito e sindacato di massa, intervento statale nell’economia ecc.) ma ritengo che la dialettica alla quale allude sia tra burocratizzazione del mondo e difesa dei privilegi di censo, dialettica che non può essere assunta come l’unica possibile e che, anzi, va relativizzata e superata in una prospettiva diversa rispetto a quella dominante.
In realtà, infatti, le élites liberalconservatrici hanno compreso, spesso con sollievo e sorpresa, che la democratizzazione delle società occidentali poteva essere governata ed influenzata attraverso meccanismi istituzionali che ne hanno garantito la sopravvivenza ed il ruolo egemonico grazie all’integrazione nel quadro sociale tradizionale delle élites di derivazione democratica (burocrazie partitiche e sindacali, apparati statali, ceto politico) che hanno, comunque, un ruolo subalterno rispetto ai potentati economici che controllano la proprietà.
Direi, anzi, che lo svilupparsi di un ampio strato di quadri aziendali, funzionari statali, professionisti legati alla spesa pubblica ecc. è stato un fattore essenziale per la stabilità del potere delle classi dominanti ed ha determinato la sopravvivenza di quel ceto medio che è necessario alla coesione sociale visto che si pone come collante fra le classi subalterne e quelle dominanti in maniera diversa ma analoga rispetto allo strato dei tradizionali piccoli proprietari indipendenti che l’evolvere stesso dell’economia capitalistica tende a ridimensionare per consistenza numerica e ruolo sociale.
Nel rapporto fra lavoratori salariati e capitale si colloca l’altro aspetto contraddittorio del discorso liberale. L’impresa realmente esistente, infatti, funziona, in forme diverse, secondo criteri necessariamente dispotici per quel che riguarda l’organizzazione del lavoro, l’esercizio del potere, la stessa definizione del mercato.
Il movimento operaio, nel suo assieme, nasce per porre un limite a questo dispotismo e per tutelare i diritti che lo stesso discorso dominante sembrava riconoscere nel mentre li negava nei fatti.
Non è casuale che dei liberali tradizionali, basta pensare a Giolitti ed Einaudi, abbiano riconosciuto apertamente la necessità per il corretto funzionamento dello stesso modo capitalistico di produzione di una dialettica relativamente libera fra capitale e lavoro e, di conseguenza, della libertà di organizzazione sindacale, di sciopero ecc..
Nel movimento operaio, sin dal suo sorgere, operano diverse correnti politiche e culturali. Non è, in questa sede, il caso di riproporre la nota discussione fra correnti stataliste e quelle antistataliste e la complessità e ricchezza delle proposte anarchiche. Mi basta ricordare che la componente antiautoritaria ha fortemente posto l’accento sulla capacità politica delle classi subalterne, sulla necessità di forme associative autonome dallo stato e dal padronato, sul rifiuto dell’inquadramento nell’apparato statale dell’azione delle classi subalterne.
Non è, dunque, scandaloso, anzi, riconoscere che l’anarchismo sociale si è sempre riconosciuto nelle virtù borghesi (intraprendenza, autonomia, capacità progettuale) in opposizione ai meccanismi di delega ad un apparato centrale che caratterizzavano le componenti democratiche dello stesso movimento operaio.
D’altro canto l’autonomia delle classi subalterne era, ed è, valorizzata nella prospettiva del comunismo libertario proprio a partire da una valutazione precisa dei caratteri storicamente esistenti della proprietà privata.
In estrema sintesi, secondo i liberali, la proprietà è il presidio della libertà individuale e collettiva contro il dispotismo statale mentre gli anarchici colgono il fatto che questo presidio è necessariamente presidiato dallo stato che ne garantisce il godimento alle classi dominanti e ne esclude quelle subalterne e, su questo terreno, rompono in maniera radicale con il liberalesimo.
Pietro Adamo, d’altro canto, ci ricorda una serie di riflessioni, per la verità non significativamente sviluppate, che alcuni compagni, in epoche diverse, hanno fatto sul tema della proprietà e pone queste riflessioni in relazione all’affermarsi fra le due guerre mondiali di differenti regimi totalitari.
Si tratta, con ogni evidenza, di un tema di straordinario interesse e che meriterebbe una trattazione a parte. Mi limiterò ad alcune riflessioni, necessariamente schematiche, nel merito.
In primo luogo, si può sostenere che il comunismo storico novecentesco è uno svolgimento possibile della tradizione democratica mentre non altrettanto si può dire del fascismo al quale vanno riconosciute radici autonome nella tradizione controrivoluzionaria ed organicista del XIX secolo, per un verso, ed in correnti irrazionaliste ed elitarie affermatesi fra XIX e XX secolo, per l’altro. Questo per restare nel campo della storia delle idee.
Dal punto di vista della storia delle relazioni sociali, invece, mi sembra opinabile il presentare le diverse correnti di pensiero come se fossero linee ferroviarie che corrono l’una accanto all’altra e non come il problematico e mutevole prodotto dei conflitti politici, sociali e culturali che hanno attraversato il secolo.
Il totalitarismo novecentesco, infatti, non sorge come mera espansione degli ideali democratici, per un verso e di quelli controrivoluzionari per l’altro ma è il prodotto delle vicende che attraversano il continente europeo, e non solo, a partire dalla prima guerra mondiale. Le contraddizioni, le sofferenze sociali, gli sconvolgimenti che portano all’affermarsi del bolscevismo prima e del fascismo poi sono prodotti delle tensioni interne alla società liberale, tensioni che nella guerra trovano piena evidenziazione.
I totalitarismi politici, insomma, si affermano come risposta autoritaria e regressiva alla distruzione di uomini, di mezzi di produzione, di relazioni sociali consolidate che il capitalismo liberale produce, per un verso, ed al fallimento della rivoluzione sociale, per l’altro.
La tesi che non vi è inimicizia radicale fra liberalesimo storicamente esistente e totalitarismo novecentesco può apparire scandalosa ad un liberale ortodosso ma trova un’ulteriore conferma negli ottimi rapporti che i gruppi dirigenti liberali hanno saputo intrattenere sia con i regimi fascisti che con quelli comunisti ogni volta che è stato necessario e nella disponibilità delle élite liberali ad usare mezzi autoritari per mantenere il proprio potere sia sul territorio metropolitano che, più apertamente, nelle colonie e, in genere, nelle periferie della loro sfera di dominio.
Pietro Adamo potrà far rilevare che una cosa è il liberalesimo storicamente esistente ed altro l’éthos liberale al quale fa riferimento ma ritengo che, da liberale quale è, mi lascerà la libertà di ritenere il liberalesimo storico e le sue contraddizioni interne più rilevanti del pensiero liberale, come dire, preso nella sua purezza.
Vorrei, infine, far rilevare due problemi che ritengo di un qualche interesse.
In primo luogo lo schema che Pietro Adamo propone mi sembra eccessivamente lineare. Vi sarebbe un primo liberalesimo, quello oligarchico, al quale seguirebbe una ripresa in senso antioligarchico del liberalesimo stesso da parte di settori delle classi subalterne in opposizione al totalitarismo.
Restano fuori da questo percorso le immense masse umane che non hanno goduto e non godono della problematica partecipazione a questo processo. L’escluderle dal campo della riflessione sociale e politica porta all’assunzione di una prospettiva occidentalista che implica il dotarsi di garanzie contro l’irruzione dei barbari illiberali nelle cittadelle dell’occidente. Non solo la proprietà diviene un presidio presidiato ma lo è lo stesso territorio ove ha spazio la proprietà e quello stato che si voleva indebolire riappare con tutta la sua potenza distruttiva e normativa.
In secondo luogo, quando, alla fine del suo saggio, Pietro Adamo abbandona la storia delle idee e tenta una rapida irruzione in quella dei concreti aggregati sociali e oppone i piccoli imprenditori operosi ai salariati oziosi e garantiti rischia di passare dalla posizione liberale a quella neoliberista ricomponendo una coppia concettuale che aveva, in origine, cercato di scindere. La polemica contro le eccessive garanzie che caratterizzerebbero la condizione dei salariati, infatti, è proprio il somaro da battaglia dei vari D’Alema e Berlusconi e sarebbe bene lasciarne loro il monopolio per motivi che non ho, in questa sede, lo spazio di sviluppare.
Su un solo punto lo inviterei a riflettere: gran parte degli attuali lavoratori autonomi presenti sul mercato del lavoro italiano sono definiti dalla stessa letteratura che se ne occupa come parasubordinati visto che la loro attività è solo formalmente indipendente e sono, con ogni evidenza, collocati in una posizione sociale e giuridica peggiore di quella dei salariati tradizionali. Il problema che si pone agli avversari dell’ordine esistente è, in questo caso, come ricomporre un’unità di azione fra i diversi segmenti della working class al di là delle singole collocazioni giuridiche. Il piccolo imprenditore che occupa dei salariati è di norma, invece, più affine al capo reparto di un segmento della produzione esternalizzato dalla grande impresa che al soggetto creativo che ci viene proposto e le condizioni di vita e di lavoro nella microimpresa sono in troppi casi riconducibili alle origini del capitalismo.
Sarebbe di conseguenza, opportuna, una lettura meno affrettata di quest’ordine di questioni.

Cosimo Scarinzi
(Torino)

 

A proposito di Antonio Russo

La mia ormai decennale amicizia con Antonio Russo, mi spinge da lettore della rivista, e dopo aver letto la lettera di Aldo Tosi da Perugia, a puntualizzare senza alcun intento polemico alcuni aspetti su cui potrebbero nascere equivoci e misinterpretazioni.
1. Quando fu realizzata l’intervista ad Antonio Russo, l’aggressione della Jugoslavia da parte NATO era ancora da venire. Lo scoppio del conflitto ha modificato in modo brutale la contestualizzazione dei fatti ivi esposti. Malgrado questo, i contenuti dell’intervista rimangono corretti, sia nella forma che nella sostanza. Si tratta di una buona illustrazione del punto di vista degli albanesi del Kosovo PRIMA dell’intervento NATO (a meno che non si voglia negare lo stato di apartheid instaurato da Milosevic). Ne è lecito sovrapporre retrospettivamente inesistenti forzature discriminatorie nei riguardi della popolazione cristiano-ortodossa di quella stessa regione (a meno che non si creda nell’esistenza di un’oggettività assoluta).
2. Antonio Russo è una persona che non brilla per aver un carattere facile, o per assumere posizioni diplomatiche (chiunque lo avrà visto in televisione, credo non avrà difficoltà nel riconoscerlo). Egli non è, né lo è mai stato, un militante anarchico, ma resta comunque uno spirito libero, generoso e corretto. Quanto alle sue personali opinioni, espresse nell’intervista, restano rispettabili e legittime, dettate come sono da un suo profondo convincimento, e non da qualsivoglia interesse mercenario: di questo, io ne sono più che convinto! Il suo è un punto di vista che aldilà delle convenienze politiche si è formato dall’esperienza diretta della repressione (mesi e mesi in Kosovo), vissuta gomito a gomito con una parte delle vittime. Che questo lo abbia portato a formulare una visione unilaterale è innegabile ma comprensibile. Del resto, come unilaterale, legittima e rispettabile è stata la decisione di Aldo Tosi di non distribuire A Rivista anarchica in una città italiana.
3. Il fatto che Antonio Russo svolga la sua professione (anche e non solo) presso Radio Radicale, unica emittente disposta ad avere tra i suoi collaboratori un "pazzo" incontrollato come lui, e il fatto che la sua lunga frequentazione e amicizia con i Kosovari mussulmani lo abbia portato su posizione belliciste ed ostili all’attuale regime di Belgrado, non comporta automaticamente che la sua posizione possa essere "ingenuamente" appiattita sulla linea politica neo-liberista di professionisti della politica, come Pannella o la Bonino.
4. Antonio Russo non è sul libro paga del SISMI, della CIA, né di altre associazioni culturali consimili: fatto quest’ultimo che rende molto incerte le sue possibilità di raggiungere una qualche pensione d’anzianità, e a maggior ragione se continua a prestarsi ad andare sempre e comunque dove la parola passa alla violenza bruta, sia essa esercitata da qualsivoglia potere.
Attualmente, anche dal punto di vista economico, Antonio resta un indipendente, con tutti i rischi del caso. Non c’è alcun motivo di pensare che i suoi rapporti con istituzioni statali siano diversi da quelli di un qualunque altro giornalista indipendente che si trovi a lavorare su un qualsiasi teatro di guerra, e per questo necessiti di accrediti, visti permessi, lasciapassare o altro. Dubito, come chiunque, che si possa giungere in zona di combattimenti eludendo controlli, burocrazia e autorità varie. Infine non mi risulta che il SISMI segnali alle agenzie stampa (ANSA in testa) o su Internet l’identità dei propri agenti e informatori, affinché i compagni possano indignarsi. Saluti.

Riccardo Villari
(Roma)

 

Ring ring anche noi

Una lettera da Belgrado. 21 maggio 1999, di Bojan Djordjevic; direttore artistico del festival Ring Ring

Cari amici e colleghi,
sono giorni assai difficili questi. Ma anche quando la guerra e le politiche producono catastrofi la vita deve proseguire. A volte sembra essere la sola cosa rimasta, la vita.
Non basta, naturalmente. Siamo in Europa, è il 1999 e chi ha più voglia di parlare del nuovo millennio adesso? Con tutta la miseria intorno, le distruzioni e le rovine, come può sembrar lecito reclamare un festival di musica?
Noi ce l’avevamo il nostro festival, come avevamo molte altre cose, anche se ora sembra esistere solo nei nostri ricordi. Ma quando questa follia sarà finita, ci sarà ancora vita. E per tutti quelli tra di noi che hanno deciso di rimanere qui - o non ce l’hanno fatta a scappar via - noi dobbiamo salvare quel che resta di una società umana e fraterna, multiforme per cultura e religione, aperta e leale.
Dunque la risposta è: sì, abbiamo bisogno di festival di musica, così come del resto. E io so che voi potete aiutarci a far vivere il nostro festival Ring Ring pur in tempi terribili come questi. La Nuova Musica - se posso usare questo termine, ma preferirei chiamarla "musica attuale", o "musica innovatrice" - e i circuiti intorno ad essa, per mia esperienza, sono caratterizzati da relazioni personali sincere, da amicizia e solidarietà profonde. Le persone coinvolte in queste musiche hanno in larga misura un modo di intendere aperto, e sanno ascoltare gli altri. D’altra parte, il successo - o semplicemente la sopravvivenza - sarebbe cosa ben eccezionale se ognuno guardasse solo al proprio orticello, senza prestare aiuto agli amici o curarsi di loro. Per questo a noi piace aiutare gli altri, per quanto ci riusciamo; per questo agli altri chiediamo aiuto noi stavolta, e oggi lo stiamo ottenendo da così tanti di voi.
Come accade un po’ dappertutto, appena finito un festival si comincia a pensare a quello successivo, si prendono contatti con i musicisti e con gli sponsor, si cerca di viaggiare il più possibile allo scopo di scoprire e ascoltare quanta più musica possibile, ci si vuole informare e incontrare persone. Si cerca di stare nei limiti, sempre restrittivi, delle disponibilità economiche, con lo scopo ben chiaro di rendere il prossimo appuntamento interessante almeno come quello appena concluso. Così è stato per me anche dopo Ring Ring 98, ma per tutti i dieci mesi scorsi ho come avuto il sospetto, in un angolo della mia mente - non dovete pensare che in Serbia siamo tutte teste quadre - che non tutto sarebbe andato per il verso giusto per il festival, e questo per via delle cose spaventose che stavano avvenendo in Kosovo. Tuttavia avevamo predisposto tutto quanto per tempo: il programma, con dieci concerti in quattro o cinque giorni a fine maggio, era quasi definito, il luogo sarebbe stato come sempre il Cinema Rex, avevamo perfino trovato qualche finanziamento quando ci è venuta addosso questa guerra. E appena pochi giorni dopo, Radio B92 - la radio indipendente che fin dall’inizio ha prodotto con noi il festival - è stata presa e sequestrata con colpo di mano da persone sostenute dal regime.
Ho pensato per un po’ che avremmo dovuto annullare il festival e attendere tempi più opportuni. Per fortuna, al giorno d’oggi è difficile impedire ai musicisti europei di creare la propria musica (chiedetelo alla gente dell’ex blocco orientale, o di Sarajevo). Non potendo fare il festival in Belgrado - o potendolo anche, ma soltanto con musicisti locali, in tal modo venendo meno a uno dei più importanti scopi del festival [Nella sua prima lettera di appello del 2 maggio ‘99, Djordjevic così elencava a Chris Cutler i motivi per cui non se la sentiva di invitare musicisti internazionali ad essere fisicamente presenti a Belgrado: "a) non c’è sufficiente sicurezza; b) non abbiamo più radio B92 né il Cinema Rex; c) non abbiamo soldi per pagarvi il viaggio, e non è giusto chiedere ai musicisti di coprire a proprie spese tutto il viaggio in autobus fino a Belgrado; d) non posso garantire che ci siano ancora dei ponti sulla via del vostro ritorno; e) non voglio che nessuno di voi possa essere utilizzato come strumento di propaganda da parte di una delle parti in guerra", è nata l’idea di Ring Ring Around the World, un’edizione del festival dislocata territorialmente in tutto il mondo, contando sull’amicizia, sulla solidarietà internazionale dei musicisti e sul desiderio artistico di esprimere la protesta contro ogni forma di crimine. Abbiamo chiesto a molti amici, musicisti e organizzatori di contribuire in ogni forma possibile nei giorni da noi scelti per il festival, dal 28 al 31 maggio. La risposta è già molto molto alta e il programma si arricchisce giorno dopo giorno. Il prologo è avvenuto lo scorso 18 maggio a Gent in Belgio con un doppio concerto di Jean Derome & Dangereux Zhomes e di Ortekè; la conclusione sarà a fine mese a St. Etienne in Francia, dove il festival Musiques Innovatrices ha già intitolato la sua attuale edizione, la decima, al nostro Ring Ring.
In mezzo ci saranno avvenimenti e concerti, alcuni trasmessi per radio oppure via Internet, a Mosca, Tokyo, Palermo, Feltre, Londra, Tilburg, Vienna, San Pietroburgo, Amsterdam, Bruxelles, Parigi, Roma, Kobe, Villeurbane, Stirling, Praga, Sapporo, ovviamente a Belgrado e speriamo anche a Budapest, Zurigo, Berlino, Stoccolma, Milano, Bologna e negli Stati Uniti. So inoltre che molti festival di musiche innovatrici che si tengono tradizionalmente in maggio offriranno il loro sostegno. Chiunque voglia partecipare in quest’area di musiche innovatrici è il benvenuto; non c’è bisogno di grandi discorsi o di forti prese di posizione, di discorsi politici o di propaganda a sostegno di questa o di quella parte coinvolta in questa follia. Come recita la canzone, "Il mio nemico è un uomo cattivo", e di nemici non v’è traccia nel nostro piccolo circuito.
Fin da quando abbiamo dato il via al festival Ring Ring nel 1996, il nostro obiettivo è stato quello di far conoscere quelle che chiamiamo "musiche innovatrici" a un pubblico, in Yugoslavia, che raramente ha avuto occasioni di venirne a contatto, presentando generi e proposte musicali quanto mai disparati, dall’avant rock al free jazz, dalla musica improvvisata alla musica elettroacustica, dalla classica contemporanea alla world music. E poiché la musica era buona e innovativa, il pubblico ha sempre risposto molto bene, crescendo giorno dopo giorno, anno dopo anno, addirittura iniziando a prendere contatto diretto con i musicisti. Il festival ha rappresentato anche l’opportunità per i musicisti yugoslavi di incontrare colleghi da tutti gli angoli del mondo. Ogni anno si sono avute collaborazioni tra musicisti locali e ospiti internazionali: nel ‘96 Chris Cutler e Stevan Kovacs Tickmayer hanno suonato con il decano della musica sperimentale in Yugoslavia, Erno Kiraly [Dell’ottantenne musicista è stato pubblicato nel ‘97 uno splendido album, Phoenix, proprio dall’etichetta ReR di Cutler, nel ‘97 abbiamo presentato il giovane Lajko Felix a un vasto pubblico occidentale, e l’anno successivo egli si è esibito insieme al celebre danzatore butoh Min Tanaka. Per i musicisti della scena locale il festival è di grande interesse; a un gruppo locale di nome Neocekivana Sila presente al festival l’anno scorso si è unito sul palco Gianni Gebbia; un altro gruppo di qui, Rascep, avrebbe seguito quest’anno un laboratorio musicale con Lars Hollmer e i Samla Mammas Manna. Speriamo che Rascep prenda parte nonostante tutto al Ring Ring 99 e che suoni a Belgrado il prossimo 30 maggio. Negli scorsi tre anni abbiamo avuto l’opportunità di incontrare e ascoltare musicisti come Boris Kovac & Ritual Nova, Tom Cora, Ferus Mustafov, Fastilio, Dunaj, Petrovic/Floridis/Papa Nik, Cutler/Kiraly/Tickmayer, Pierre Bastien & Mecanium, Palinckx, Iconoclast, Fajt & Meneses, Justine, Yumiko Tanaka, Altered States, Lajko Felix, Levantine Jazz trio, Volapuk, Rose/Otomo/Cutler, Norma, Pluto, Kampec Dolores, Ground-Zero, Vasen, Min Tanaka & Lajko Felix, New Art Forum, Minton & Weston, Terra Arsa, Dagmar Krause & Marie Goyette, Neocekivana Sila e Rale: musicisti provenienti da più di quindici nazioni diverse e tutti loro, sono orgoglioso e lieto nel dirlo, qui sono stati bene, al sicuro e a proprio agio. Radio B92 ha pubblicato due raccolte su cd tratte dalle edizioni del festival del ‘96 e del ‘97; quella del ‘98 era praticamente pronta quando è iniziata la guerra. Naturalmente, ci sono così tanti festival a maggio ogni anno! Ma musica buona ce n’è così tanta che vi è spazio per tutti i festival - incluso Ring Ring. Ora grazie al vostro impegno e al vostro impareggiabile aiuto sarà possibile dar vita a un Ring Ring 99 "nel mondo", con la speranza di non doverlo più rifare in questo modo, mai più. Con molte molte grazie per il vostro sostegno e per tutto quello che avete fatto o farete per Ring Ring 99 Around the World.
Con amicizia.

Bojan Djordjevic
(direttore artistico del festival Ring Ring)

Lettera raccolta, tradotta e diffusa a cura di Circ.a musiche in circuito, coordinatore in Italia di alcune delle iniziative descritte a sostegno del festival Ring Ring. Attivo dal ‘94 come struttura autogestita di coordinamento tra associazioni, il circuito Circ.a musiche in circuito cura e promuove lo svolgimento di concerti, incontri e laboratori musicali su territorio locale e nazionale, incoraggiando forme di contatto diretto e non episodico tra pubblico e artisti al di fuori dei ruoli tradizionali o di contesti esclusivi. Attenzione e interesse prioritari sono rivolti a quell’ambito vasto e diversificato di espressioni musicali originali ed eterodosse (improvvisazione, rock e jazz d’avanguardia, nuove sonorità...) che sfuggono alle logiche del consumo culturale o alle più scontate connotazioni di genere, ricercando modi non usuali di organizzare i suoni e di coinvolgere criticamente l’ascoltatore. Aderiscono al Circ.a centri e luoghi sociali, organismi culturali e singoli collaboratori di diverse parti d’Italia, impegnati nella produzione e nella diffusione musicale secondo vicissitudini e modi propri, avvicinati dalla volontà di sostenere attività creative di segno innovatore con azione comune.

* Circ.a musiche in circuito
tel. e fax 0464.431741
e-mail: sa@seldati.it
http://www.ecn.org/circ.a

 

Palle di topo

Come sapete il mouse si chiama in francese souris, in spagnolo raton, in tedesco maus e solo noi, invece di chiamarlo topo, lo chiamiamo mouse. Gli americani della IBM non lo sapevano e hanno tradotto un po’ troppo letteralmente un loro manuale di istruzioni distribuito in tutte le filiali del mondo, tra cui quella italiana...
Questo è il memorandum, realmente distribuito agli impiegati di tutte le filiali statunitensi Ibm.
Nelle intenzioni di chi lo ha scritto è assolutamente serio, la traduzione è stata fatta dagli americani per gli impiegati della IBM Italia.

Palle dei topi: Istruzioni per l’uso
Le palle dei topi sono da oggi disponibili come parti di ricambio. Se il vostro topo ha difficoltà a funzionare correttamente, o funziona a scatti, è possibile che esso abbia bisogno di una palla di ricambio.
A causa della delicata natura della procedura di sostituzione delle palle, è sempre consigliabile che essa sia eseguita da personale esperto.
Prima di procedere, determinate di che tipo di palle ha bisogno il vostro topo.
Per fare ciò basta esaminare la sua parte inferiore. Le palle dei topi americani sono normalmente più grandi e più dure di quelle dei topi d’oltreoceano. La procedura di rimozione di una palla varia a seconda della marca del topo. La protezione delle palle dei topi d’oltreoceano può essere semplicemente fatta saltare via con un fermacarte, mentre sulla protezione delle palle dei topi americani deve essere prima esercitata una torsione in senso orario o antiorario.
Normalmente le palle dei topi non si caricano di elettricità statica, ma è comunque meglio trattarle con cautela, così da evitare scariche impreviste.
Una volta completata la sostituzione il topo può essere utilizzato immediatamente.
Si raccomanda al personale esperto di portare costantemente con se un paio di palle di riserva, così da garantire sempre la massima soddisfazione dei clienti.
Nel caso in cui le palle di ricambio scarseggino, è possibile inviarne richiesta alla distribuzione centrale utilizzando i seguenti codici:
- PIN 33F8462 - Palle per topi americani
- PIN 33F8461 - Palle per topi stranieri
E voi, avete controllato le palle del vostro topo?

 

 

Contro la pena capitale

Ciao
mi chiamo Giulio Bellucci e vi scrivo a nome mio e di un gruppo di persone per farvi conoscere l’incredibile caso di Mark Lankford, un detenuto da circa 16 anni nel braccio della morte del penitenziario di Boise, Idaho, USA.
Vi segnalo questo caso perché conosco bene l’attenzione e la sensibilità dei centri sociali sui problemi della giustizia e dei diritti umani.
Mark é stato condannato per omicidio in concorso con il fratello Bryan proprio grazie alle accuse dallo stesso Bryan rivolte nei suoi confronti al fine di poter beneficiare di una riduzione della pena.
Successivamente alla condanna a morte, peraltro emessa per entrambi i fratelli, Bryan ha dato ripetuta testimonianza della reale motivazione delle sue accuse nei confronti di Mark, scagionando Mark da ogni addebito e dichiarandosi quale unico esecutore del delitto. Purtroppo tali evidenze non hanno consentito a Mark di ottenere il ribaltamento della sentenza nei suoi confronti ed ora é in attesa di un pronunciamento in merito alla data di esecuzione della condanna.
I fatti sopra menzionati sono riportati in una dettagliata informativa fornita dai legali di Mark che potete visionare, unitamente al testo della petizione che stiamo diffondendo, sul sito http://members.tripod.it/G_B/index.html.
Chiediamo la vostra collaborazione affinché vi uniate a noi per diffondere questo caso ed esercitare anche voi la pressione che da molti paesi si sta concentrando sulle autorità dell’Idaho al fine di sventare questa ingiustizia contro un uomo innocente.
Lo scopo di tale pressione non é quello di ottenere la grazia o un gesto di clemenza per Mark ma solo quello di permettere una riapertura del processo in cui sia finalmente consentito di produrre le molte evidenze circa la sua innocenza. Sicuro che anche questa volta vi dimostrerete sensibili di fronte al diritto alla giustizia vera e non vendicativa, vi ringrazio per l’attenzione e rimango a vostra disposizione per qualunque chiarimento o suggerimento.

Peace
Giulio Bellucci
gbellucci@yahoo.com

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni Stefano Ancona (Monza), 20.000; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Luciano Farinelli, 1.000.000; Lorenzo Partesana (Sondalo), 50.000; Riccardo Caneba (Grottaferrata), 20.000; Massimo Ortalli (Imola) salutando la famiglia Finzi- Failla, 100.000; a/m Cesare Vurchio, Leonardo Muggeo (Canosa di Puglia) ricordando Luciano Farinelli, 50.000; a/m Rocco, Fabio (Settimo Milanese) per la causa, 5.000; Giuseppe Gessa (Cassina de’ Pecchi), 25.000; Giovanni Gessa (Cassina de’ Pecchi), 25.000; Oliviero Girlanda (Milano), 10.000; a/m Mario Bossi, ricavato del concerto per "A" di Stefano Giaccone e Lalli (Bloom di Mezzago, 9 maggio), 285.000; Antonino Magnacca (Milano), 20.000; Claudio Bussetti (Loano), 29.000; Santini, 39.000; Pasquale Messina (Milano), 50.000; G. (Milano), 267.000; parte ricavato dalla Mostra artistica in memoria di Marina Padovese promossa in maggio dall’Ateneo Libertario e dalla Libreria Utopia (Milano), 600.000.
Totale lire 2.575.000.

Abbonamenti sostenitori Giuseppe Ceola (Malo), 150.000; Vittorio Golinellli (Bussero), 150.000; Marco Cimarosti (Muggiò), 150.000; Gianpaolo Verdecchia (Firenze), 400.000; Gianluca Botteghi (Rimini), 150.000; Enrico Calandri (Roma), 200.000.
Totale lire 1.200.000.