Liberali
e anarchici
Ho letto con grande interesse l’articolo di Pietro Adamo "Mercato,
proprietà, anarchia" pubblicato sul numero 253 di
A Rivista Anarchica. Per un verso ne ho apprezzato la
chiarezza, il rigore, l’interna coerenza, per l’altro mi è
parso che le tesi che Pietro Adamo sostiene siano meritevoli
di critiche diverse da quelle che lui stesso segnala.
Cercherò, di conseguenza, di sollevare alcune questioni
che ritengo di un qualche interesse.
In primo luogo, è vero che non è condivisibile
la riduzione della tradizione liberale all’attuale neoliberismo
sia perché il liberalesimo è una corrente di pensiero
e di azione ben più complessa di quello che pretendono
sia la destra neoliberista che i suoi critici democratici e
welfaristi che perché di norma i neoliberisti realmente
esistenti sono decisamente illiberali su questioni decisamente
rilevanti come il mantenimento dell’ordine, la struttura della
spesa pubblica, il nazionalismo, la salvaguardia dei valori
culturali tradizionali, la difesa dei monopoli ecc..
D’altro canto è un fatto che oggi, per citare un
liberale alquanto noto, si può dire che, nelle democrazie
dell’occidente, siamo tutti liberali, almeno nel senso che tutte
le forze politiche istituzionali accettano le regole della democrazia
parlamentare, non ci sono nemici ma avversari, nessuno pretende
di poter costruire una società perfetta, nessuno ipotizza
che l’ordine produttivo e sociale dominante sia trascendibile.
Liberali sono, in questo senso, Fini e Bertinotti, Marini e
D’Alema, Berlusconi e Prodi e lo stesso modo di intendere la
lotta politica caratterizza, da decenni, gli altri paesi sviluppati.
Da questo punto di vista si può dire che l’Italia sia
pervenuta ad una compiuta civiltà liberale alquanto in
ritardo a causa del peso della chiesa cattolica e del partito
comunista, forze che sono divenute liberali con qualche fatica
e, come dire, contro voglia.
Se, quindi, accettiamo la tesi che il liberalesimo storicamente
esistente non è il neoliberismo, possiamo seguire senza
pregiudizi la linea di pensiero proposta da Pietro Adamo, linea
di pensiero intellettualmente stimolante e, per certi versi,
suggestiva.
L’ethos liberale è, come ci ricorda Pietro
Adamo, "la lotta condotta nel corso dell’età moderna
e contemporanea contro le nozioni di assolutismo, autocrazia,
gerarchia, privilegio in nome degli ideali collegati alla libertà
individuale e ai diritti umani".
Lo stesso Pietro Adamo sembra riconoscere sia pur con prudenza
che questa lotta ha coinvolto, in prima istanza, la borghesia
nella sua fase ascendente e, direi io, i gruppi borghesi più
colti ed avanzati.
Egli ci ricorda anche che "nel travaglio della modernizzazione
i gruppi subalterni si sono spesso impadroniti delle parole
d’ordine delle libertà "liberali" riplasmandole
secondo fini ed esigenze proprie. In molti momenti (rivoluzionari
o meno) si colgono slittamenti di discorso che puntano ad allargare
la sfera della libertà, universalizzandone i fondamenti
ispiratori e applicandoli ad ogni ambito dell’azione umana".
Ritengo che sarebbe opportuno ragionare sull’attività
che Pietro Adamo definisce "riplasmare".
I gruppi sociali subalterni, nel loro rapporto con la modernità,
che io ritengo si possa definire, senza troppe difficoltà
modo di produzione capitalistico, hanno sin dall’inizio colto,
in maniera più o meno chiara, alcuni caratteri contraddittori
del discorso liberale e, in particolare, la sua interna logica
oligarchica e il fatto che nel concreto processo di lavoro si
determina un dispotismo per molti versi più forte di
quello che caratterizzava la società di ordini.
Lo scontro fra democratici e liberali si è collocato
sul primo versante della contraddizione, quello fra movimento
operaio e classi proprietarie sul secondo con tutti gli intrecci
che ci sono noti.
La graduale estensione all’assieme della popolazione dei
diritti politici elementari (estensione alla quale le élites
liberali tradizionali si sono opposte con forza e determinazione
e che hanno sovente accettato obtorto collo) ha prodotto
quella particolare sintesi fra liberalesimo e democrazia che
oggi conosciamo e che viene definito liberaldemocrazia.
Della complessità di questa trasformazione sono,
per motivi familiari, testimone diretto dato che l’ho vista
agire nei convincimenti politici di mio padre che, con difficoltà
enormi e solo negli ultimi anni della sua vita, è pervenuto
a riconoscere che l’estensione alle masse subalterne del diritto
di voto non era incompatibile con l’idea liberale di società
nella quale era stato formato.
Non posso che condividere la tesi di Pietro Adamo che vede
nella tradizione democratica delle possibili derive illiberali,
derive che sorgono sia dalla tensione ad un’eguaglianza che
nega le differenze fra gli individui concreti ed anzi le guarda
con sospetto che dall’intreccio fra democrazia e burocrazia
(partito e sindacato di massa, intervento statale nell’economia
ecc.) ma ritengo che la dialettica alla quale allude sia tra
burocratizzazione del mondo e difesa dei privilegi di censo,
dialettica che non può essere assunta come l’unica possibile
e che, anzi, va relativizzata e superata in una prospettiva
diversa rispetto a quella dominante.
In realtà, infatti, le élites liberalconservatrici
hanno compreso, spesso con sollievo e sorpresa, che la democratizzazione
delle società occidentali poteva essere governata ed
influenzata attraverso meccanismi istituzionali che ne hanno
garantito la sopravvivenza ed il ruolo egemonico grazie all’integrazione
nel quadro sociale tradizionale delle élites di
derivazione democratica (burocrazie partitiche e sindacali,
apparati statali, ceto politico) che hanno, comunque, un ruolo
subalterno rispetto ai potentati economici che controllano la
proprietà.
Direi, anzi, che lo svilupparsi di un ampio strato di quadri
aziendali, funzionari statali, professionisti legati alla spesa
pubblica ecc. è stato un fattore essenziale per la stabilità
del potere delle classi dominanti ed ha determinato la sopravvivenza
di quel ceto medio che è necessario alla coesione sociale
visto che si pone come collante fra le classi subalterne e quelle
dominanti in maniera diversa ma analoga rispetto allo strato
dei tradizionali piccoli proprietari indipendenti che l’evolvere
stesso dell’economia capitalistica tende a ridimensionare per
consistenza numerica e ruolo sociale.
Nel rapporto fra lavoratori salariati e capitale si colloca
l’altro aspetto contraddittorio del discorso liberale. L’impresa
realmente esistente, infatti, funziona, in forme diverse, secondo
criteri necessariamente dispotici per quel che riguarda l’organizzazione
del lavoro, l’esercizio del potere, la stessa definizione del
mercato.
Il movimento operaio, nel suo assieme, nasce per porre un
limite a questo dispotismo e per tutelare i diritti che lo stesso
discorso dominante sembrava riconoscere nel mentre li negava
nei fatti.
Non è casuale che dei liberali tradizionali, basta
pensare a Giolitti ed Einaudi, abbiano riconosciuto apertamente
la necessità per il corretto funzionamento dello stesso
modo capitalistico di produzione di una dialettica relativamente
libera fra capitale e lavoro e, di conseguenza, della libertà
di organizzazione sindacale, di sciopero ecc..
Nel movimento operaio, sin dal suo sorgere, operano diverse
correnti politiche e culturali. Non è, in questa sede,
il caso di riproporre la nota discussione fra correnti stataliste
e quelle antistataliste e la complessità e ricchezza
delle proposte anarchiche. Mi basta ricordare che la componente
antiautoritaria ha fortemente posto l’accento sulla capacità
politica delle classi subalterne, sulla necessità di
forme associative autonome dallo stato e dal padronato, sul
rifiuto dell’inquadramento nell’apparato statale dell’azione
delle classi subalterne.
Non è, dunque, scandaloso, anzi, riconoscere che
l’anarchismo sociale si è sempre riconosciuto nelle virtù
borghesi (intraprendenza, autonomia, capacità progettuale)
in opposizione ai meccanismi di delega ad un apparato centrale
che caratterizzavano le componenti democratiche dello stesso
movimento operaio.
D’altro canto l’autonomia delle classi subalterne era, ed
è, valorizzata nella prospettiva del comunismo libertario
proprio a partire da una valutazione precisa dei caratteri storicamente
esistenti della proprietà privata.
In estrema sintesi, secondo i liberali, la proprietà
è il presidio della libertà individuale e collettiva
contro il dispotismo statale mentre gli anarchici colgono il
fatto che questo presidio è necessariamente presidiato
dallo stato che ne garantisce il godimento alle classi dominanti
e ne esclude quelle subalterne e, su questo terreno, rompono
in maniera radicale con il liberalesimo.
Pietro Adamo, d’altro canto, ci ricorda una serie di riflessioni,
per la verità non significativamente sviluppate, che
alcuni compagni, in epoche diverse, hanno fatto sul tema della
proprietà e pone queste riflessioni in relazione all’affermarsi
fra le due guerre mondiali di differenti regimi totalitari.
Si tratta, con ogni evidenza, di un tema di straordinario
interesse e che meriterebbe una trattazione a parte. Mi limiterò
ad alcune riflessioni, necessariamente schematiche, nel merito.
In primo luogo, si può sostenere che il comunismo
storico novecentesco è uno svolgimento possibile della
tradizione democratica mentre non altrettanto si può
dire del fascismo al quale vanno riconosciute radici autonome
nella tradizione controrivoluzionaria ed organicista del XIX
secolo, per un verso, ed in correnti irrazionaliste ed elitarie
affermatesi fra XIX e XX secolo, per l’altro. Questo per restare
nel campo della storia delle idee.
Dal punto di vista della storia delle relazioni sociali,
invece, mi sembra opinabile il presentare le diverse correnti
di pensiero come se fossero linee ferroviarie che corrono l’una
accanto all’altra e non come il problematico e mutevole prodotto
dei conflitti politici, sociali e culturali che hanno attraversato
il secolo.
Il totalitarismo novecentesco, infatti, non sorge come mera
espansione degli ideali democratici, per un verso e di quelli
controrivoluzionari per l’altro ma è il prodotto delle
vicende che attraversano il continente europeo, e non solo,
a partire dalla prima guerra mondiale. Le contraddizioni, le
sofferenze sociali, gli sconvolgimenti che portano all’affermarsi
del bolscevismo prima e del fascismo poi sono prodotti delle
tensioni interne alla società liberale, tensioni che
nella guerra trovano piena evidenziazione.
I totalitarismi politici, insomma, si affermano come risposta
autoritaria e regressiva alla distruzione di uomini, di mezzi
di produzione, di relazioni sociali consolidate che il capitalismo
liberale produce, per un verso, ed al fallimento della rivoluzione
sociale, per l’altro.
La tesi che non vi è inimicizia radicale fra liberalesimo
storicamente esistente e totalitarismo novecentesco può
apparire scandalosa ad un liberale ortodosso ma trova un’ulteriore
conferma negli ottimi rapporti che i gruppi dirigenti liberali
hanno saputo intrattenere sia con i regimi fascisti che con
quelli comunisti ogni volta che è stato necessario e
nella disponibilità delle élite liberali ad usare
mezzi autoritari per mantenere il proprio potere sia sul territorio
metropolitano che, più apertamente, nelle colonie e,
in genere, nelle periferie della loro sfera di dominio.
Pietro Adamo potrà far rilevare che una cosa è
il liberalesimo storicamente esistente ed altro l’éthos
liberale al quale fa riferimento ma ritengo che, da liberale
quale è, mi lascerà la libertà di ritenere
il liberalesimo storico e le sue contraddizioni interne più
rilevanti del pensiero liberale, come dire, preso nella sua
purezza.
Vorrei, infine, far rilevare due problemi che ritengo di
un qualche interesse.
In primo luogo lo schema che Pietro Adamo propone mi sembra
eccessivamente lineare. Vi sarebbe un primo liberalesimo, quello
oligarchico, al quale seguirebbe una ripresa in senso antioligarchico
del liberalesimo stesso da parte di settori delle classi subalterne
in opposizione al totalitarismo.
Restano fuori da questo percorso le immense masse umane
che non hanno goduto e non godono della problematica partecipazione
a questo processo. L’escluderle dal campo della riflessione
sociale e politica porta all’assunzione di una prospettiva occidentalista
che implica il dotarsi di garanzie contro l’irruzione dei barbari
illiberali nelle cittadelle dell’occidente. Non solo la proprietà
diviene un presidio presidiato ma lo è lo stesso territorio
ove ha spazio la proprietà e quello stato che si voleva
indebolire riappare con tutta la sua potenza distruttiva e normativa.
In secondo luogo, quando, alla fine del suo saggio, Pietro
Adamo abbandona la storia delle idee e tenta una rapida irruzione
in quella dei concreti aggregati sociali e oppone i piccoli
imprenditori operosi ai salariati oziosi e garantiti rischia
di passare dalla posizione liberale a quella neoliberista ricomponendo
una coppia concettuale che aveva, in origine, cercato di scindere.
La polemica contro le eccessive garanzie che caratterizzerebbero
la condizione dei salariati, infatti, è proprio il somaro
da battaglia dei vari D’Alema e Berlusconi e sarebbe bene lasciarne
loro il monopolio per motivi che non ho, in questa sede, lo
spazio di sviluppare.
Su un solo punto lo inviterei a riflettere: gran parte degli
attuali lavoratori autonomi presenti sul mercato del lavoro
italiano sono definiti dalla stessa letteratura che se ne occupa
come parasubordinati visto che la loro attività è
solo formalmente indipendente e sono, con ogni evidenza, collocati
in una posizione sociale e giuridica peggiore di quella dei
salariati tradizionali. Il problema che si pone agli avversari
dell’ordine esistente è, in questo caso, come ricomporre
un’unità di azione fra i diversi segmenti della working
class al di là delle singole collocazioni giuridiche.
Il piccolo imprenditore che occupa dei salariati è di
norma, invece, più affine al capo reparto di un segmento
della produzione esternalizzato dalla grande impresa che al
soggetto creativo che ci viene proposto e le condizioni di vita
e di lavoro nella microimpresa sono in troppi casi riconducibili
alle origini del capitalismo.
Sarebbe di conseguenza, opportuna, una lettura meno affrettata
di quest’ordine di questioni.
Cosimo Scarinzi
(Torino)
A
proposito di Antonio Russo
La mia ormai decennale amicizia con Antonio Russo, mi spinge
da lettore della rivista, e dopo aver letto la lettera di Aldo
Tosi da Perugia, a puntualizzare senza alcun intento polemico
alcuni aspetti su cui potrebbero nascere equivoci e misinterpretazioni.
1. Quando fu realizzata l’intervista ad Antonio Russo, l’aggressione
della Jugoslavia da parte NATO era ancora da venire. Lo scoppio
del conflitto ha modificato in modo brutale la contestualizzazione
dei fatti ivi esposti. Malgrado questo, i contenuti dell’intervista
rimangono corretti, sia nella forma che nella sostanza. Si tratta
di una buona illustrazione del punto di vista degli albanesi
del Kosovo PRIMA dell’intervento NATO (a meno che non si voglia
negare lo stato di apartheid instaurato da Milosevic). Ne è
lecito sovrapporre retrospettivamente inesistenti forzature
discriminatorie nei riguardi della popolazione cristiano-ortodossa
di quella stessa regione (a meno che non si creda nell’esistenza
di un’oggettività assoluta).
2. Antonio Russo è una persona che non brilla per
aver un carattere facile, o per assumere posizioni diplomatiche
(chiunque lo avrà visto in televisione, credo non avrà
difficoltà nel riconoscerlo). Egli non è, né
lo è mai stato, un militante anarchico, ma resta comunque
uno spirito libero, generoso e corretto. Quanto alle sue personali
opinioni, espresse nell’intervista, restano rispettabili e legittime,
dettate come sono da un suo profondo convincimento, e non da
qualsivoglia interesse mercenario: di questo, io ne sono più
che convinto! Il suo è un punto di vista che aldilà
delle convenienze politiche si è formato dall’esperienza
diretta della repressione (mesi e mesi in Kosovo), vissuta gomito
a gomito con una parte delle vittime. Che questo lo abbia portato
a formulare una visione unilaterale è innegabile ma comprensibile.
Del resto, come unilaterale, legittima e rispettabile è
stata la decisione di Aldo Tosi di non distribuire A Rivista
anarchica in una città italiana.
3. Il fatto che Antonio Russo svolga la sua professione
(anche e non solo) presso Radio Radicale, unica emittente disposta
ad avere tra i suoi collaboratori un "pazzo" incontrollato
come lui, e il fatto che la sua lunga frequentazione e amicizia
con i Kosovari mussulmani lo abbia portato su posizione belliciste
ed ostili all’attuale regime di Belgrado, non comporta automaticamente
che la sua posizione possa essere "ingenuamente" appiattita
sulla linea politica neo-liberista di professionisti della politica,
come Pannella o la Bonino.
4. Antonio Russo non è sul libro paga del SISMI,
della CIA, né di altre associazioni culturali consimili:
fatto quest’ultimo che rende molto incerte le sue possibilità
di raggiungere una qualche pensione d’anzianità, e a
maggior ragione se continua a prestarsi ad andare sempre e comunque
dove la parola passa alla violenza bruta, sia essa esercitata
da qualsivoglia potere.
Attualmente, anche dal punto di vista economico, Antonio
resta un indipendente, con tutti i rischi del caso. Non c’è
alcun motivo di pensare che i suoi rapporti con istituzioni
statali siano diversi da quelli di un qualunque altro giornalista
indipendente che si trovi a lavorare su un qualsiasi teatro
di guerra, e per questo necessiti di accrediti, visti permessi,
lasciapassare o altro. Dubito, come chiunque, che si possa giungere
in zona di combattimenti eludendo controlli, burocrazia e autorità
varie. Infine non mi risulta che il SISMI segnali alle agenzie
stampa (ANSA in testa) o su Internet l’identità dei propri
agenti e informatori, affinché i compagni possano indignarsi.
Saluti.
Riccardo Villari
(Roma)
Ring
ring anche noi
Una lettera da Belgrado. 21 maggio 1999, di Bojan Djordjevic;
direttore artistico del festival Ring Ring
Cari amici e colleghi,
sono giorni assai difficili questi. Ma anche quando la guerra
e le politiche producono catastrofi la vita deve proseguire.
A volte sembra essere la sola cosa rimasta, la vita.
Non basta, naturalmente. Siamo in Europa, è il 1999
e chi ha più voglia di parlare del nuovo millennio adesso?
Con tutta la miseria intorno, le distruzioni e le rovine, come
può sembrar lecito reclamare un festival di musica?
Noi ce l’avevamo il nostro festival, come avevamo molte
altre cose, anche se ora sembra esistere solo nei nostri ricordi.
Ma quando questa follia sarà finita, ci sarà ancora
vita. E per tutti quelli tra di noi che hanno deciso di rimanere
qui - o non ce l’hanno fatta a scappar via - noi dobbiamo salvare
quel che resta di una società umana e fraterna, multiforme
per cultura e religione, aperta e leale.
Dunque la risposta è: sì, abbiamo bisogno
di festival di musica, così come del resto. E io so che
voi potete aiutarci a far vivere il nostro festival Ring Ring
pur in tempi terribili come questi. La Nuova Musica - se posso
usare questo termine, ma preferirei chiamarla "musica attuale",
o "musica innovatrice" - e i circuiti intorno ad essa,
per mia esperienza, sono caratterizzati da relazioni personali
sincere, da amicizia e solidarietà profonde. Le persone
coinvolte in queste musiche hanno in larga misura un modo di
intendere aperto, e sanno ascoltare gli altri. D’altra parte,
il successo - o semplicemente la sopravvivenza - sarebbe cosa
ben eccezionale se ognuno guardasse solo al proprio orticello,
senza prestare aiuto agli amici o curarsi di loro. Per questo
a noi piace aiutare gli altri, per quanto ci riusciamo; per
questo agli altri chiediamo aiuto noi stavolta, e oggi lo stiamo
ottenendo da così tanti di voi.
Come accade un po’ dappertutto, appena finito un festival
si comincia a pensare a quello successivo, si prendono contatti
con i musicisti e con gli sponsor, si cerca di viaggiare il
più possibile allo scopo di scoprire e ascoltare quanta
più musica possibile, ci si vuole informare e incontrare
persone. Si cerca di stare nei limiti, sempre restrittivi, delle
disponibilità economiche, con lo scopo ben chiaro di
rendere il prossimo appuntamento interessante almeno come quello
appena concluso. Così è stato per me anche dopo
Ring Ring 98, ma per tutti i dieci mesi scorsi ho come avuto
il sospetto, in un angolo della mia mente - non dovete pensare
che in Serbia siamo tutte teste quadre - che non tutto sarebbe
andato per il verso giusto per il festival, e questo per via
delle cose spaventose che stavano avvenendo in Kosovo. Tuttavia
avevamo predisposto tutto quanto per tempo: il programma, con
dieci concerti in quattro o cinque giorni a fine maggio, era
quasi definito, il luogo sarebbe stato come sempre il Cinema
Rex, avevamo perfino trovato qualche finanziamento quando ci
è venuta addosso questa guerra. E appena pochi giorni
dopo, Radio B92 - la radio indipendente che fin dall’inizio
ha prodotto con noi il festival - è stata presa e sequestrata
con colpo di mano da persone sostenute dal regime.
Ho pensato per un po’ che avremmo dovuto annullare il festival
e attendere tempi più opportuni. Per fortuna, al giorno
d’oggi è difficile impedire ai musicisti europei di creare
la propria musica (chiedetelo alla gente dell’ex blocco orientale,
o di Sarajevo). Non potendo fare il festival in Belgrado - o
potendolo anche, ma soltanto con musicisti locali, in tal modo
venendo meno a uno dei più importanti scopi del festival
[Nella sua prima lettera di appello del 2 maggio ‘99, Djordjevic
così elencava a Chris Cutler i motivi per cui non se
la sentiva di invitare musicisti internazionali ad essere fisicamente
presenti a Belgrado: "a) non c’è sufficiente sicurezza;
b) non abbiamo più radio B92 né il Cinema Rex;
c) non abbiamo soldi per pagarvi il viaggio, e non è
giusto chiedere ai musicisti di coprire a proprie spese tutto
il viaggio in autobus fino a Belgrado; d) non posso garantire
che ci siano ancora dei ponti sulla via del vostro ritorno;
e) non voglio che nessuno di voi possa essere utilizzato come
strumento di propaganda da parte di una delle parti in guerra",
è nata l’idea di Ring Ring Around the World, un’edizione
del festival dislocata territorialmente in tutto il mondo, contando
sull’amicizia, sulla solidarietà internazionale dei musicisti
e sul desiderio artistico di esprimere la protesta contro ogni
forma di crimine. Abbiamo chiesto a molti amici, musicisti e
organizzatori di contribuire in ogni forma possibile nei giorni
da noi scelti per il festival, dal 28 al 31 maggio. La risposta
è già molto molto alta e il programma si arricchisce
giorno dopo giorno. Il prologo è avvenuto lo scorso 18
maggio a Gent in Belgio con un doppio concerto di Jean Derome
& Dangereux Zhomes e di Ortekè; la conclusione sarà
a fine mese a St. Etienne in Francia, dove il festival Musiques
Innovatrices ha già intitolato la sua attuale edizione,
la decima, al nostro Ring Ring.
In mezzo ci saranno avvenimenti e concerti, alcuni trasmessi
per radio oppure via Internet, a Mosca, Tokyo, Palermo, Feltre,
Londra, Tilburg, Vienna, San Pietroburgo, Amsterdam, Bruxelles,
Parigi, Roma, Kobe, Villeurbane, Stirling, Praga, Sapporo, ovviamente
a Belgrado e speriamo anche a Budapest, Zurigo, Berlino, Stoccolma,
Milano, Bologna e negli Stati Uniti. So inoltre che molti festival
di musiche innovatrici che si tengono tradizionalmente in maggio
offriranno il loro sostegno. Chiunque voglia partecipare in
quest’area di musiche innovatrici è il benvenuto; non
c’è bisogno di grandi discorsi o di forti prese di posizione,
di discorsi politici o di propaganda a sostegno di questa o
di quella parte coinvolta in questa follia. Come recita la canzone,
"Il mio nemico è un uomo cattivo", e di nemici
non v’è traccia nel nostro piccolo circuito.
Fin da quando abbiamo dato il via al festival Ring Ring
nel 1996, il nostro obiettivo è stato quello di far conoscere
quelle che chiamiamo "musiche innovatrici" a un pubblico,
in Yugoslavia, che raramente ha avuto occasioni di venirne a
contatto, presentando generi e proposte musicali quanto mai
disparati, dall’avant rock al free jazz, dalla musica improvvisata
alla musica elettroacustica, dalla classica contemporanea alla
world music. E poiché la musica era buona e innovativa,
il pubblico ha sempre risposto molto bene, crescendo giorno
dopo giorno, anno dopo anno, addirittura iniziando a prendere
contatto diretto con i musicisti. Il festival ha rappresentato
anche l’opportunità per i musicisti yugoslavi di incontrare
colleghi da tutti gli angoli del mondo. Ogni anno si sono avute
collaborazioni tra musicisti locali e ospiti internazionali:
nel ‘96 Chris Cutler e Stevan Kovacs Tickmayer hanno suonato
con il decano della musica sperimentale in Yugoslavia, Erno
Kiraly [Dell’ottantenne musicista è stato pubblicato
nel ‘97 uno splendido album, Phoenix, proprio dall’etichetta
ReR di Cutler, nel ‘97 abbiamo presentato il giovane Lajko Felix
a un vasto pubblico occidentale, e l’anno successivo egli si
è esibito insieme al celebre danzatore butoh Min Tanaka.
Per i musicisti della scena locale il festival è di grande
interesse; a un gruppo locale di nome Neocekivana Sila presente
al festival l’anno scorso si è unito sul palco Gianni
Gebbia; un altro gruppo di qui, Rascep, avrebbe seguito quest’anno
un laboratorio musicale con Lars Hollmer e i Samla Mammas Manna.
Speriamo che Rascep prenda parte nonostante tutto al Ring Ring
99 e che suoni a Belgrado il prossimo 30 maggio. Negli scorsi
tre anni abbiamo avuto l’opportunità di incontrare e
ascoltare musicisti come Boris Kovac & Ritual Nova, Tom
Cora, Ferus Mustafov, Fastilio, Dunaj, Petrovic/Floridis/Papa
Nik, Cutler/Kiraly/Tickmayer, Pierre Bastien & Mecanium,
Palinckx, Iconoclast, Fajt & Meneses, Justine, Yumiko Tanaka,
Altered States, Lajko Felix, Levantine Jazz trio, Volapuk, Rose/Otomo/Cutler,
Norma, Pluto, Kampec Dolores, Ground-Zero, Vasen, Min Tanaka
& Lajko Felix, New Art Forum, Minton & Weston, Terra
Arsa, Dagmar Krause & Marie Goyette, Neocekivana Sila e
Rale: musicisti provenienti da più di quindici nazioni
diverse e tutti loro, sono orgoglioso e lieto nel dirlo, qui
sono stati bene, al sicuro e a proprio agio. Radio B92 ha pubblicato
due raccolte su cd tratte dalle edizioni del festival del ‘96
e del ‘97; quella del ‘98 era praticamente pronta quando è
iniziata la guerra. Naturalmente, ci sono così tanti
festival a maggio ogni anno! Ma musica buona ce n’è così
tanta che vi è spazio per tutti i festival - incluso
Ring Ring. Ora grazie al vostro impegno e al vostro impareggiabile
aiuto sarà possibile dar vita a un Ring Ring 99 "nel
mondo", con la speranza di non doverlo più rifare
in questo modo, mai più. Con molte molte grazie per il
vostro sostegno e per tutto quello che avete fatto o farete
per Ring Ring 99 Around the World.
Con amicizia.
Bojan Djordjevic
(direttore artistico del festival Ring Ring)
Lettera raccolta, tradotta e diffusa a cura di Circ.a musiche
in circuito, coordinatore in Italia di alcune delle iniziative
descritte a sostegno del festival Ring Ring. Attivo dal ‘94
come struttura autogestita di coordinamento tra associazioni,
il circuito Circ.a musiche in circuito cura e promuove
lo svolgimento di concerti, incontri e laboratori musicali su
territorio locale e nazionale, incoraggiando forme di contatto
diretto e non episodico tra pubblico e artisti al di fuori dei
ruoli tradizionali o di contesti esclusivi. Attenzione e interesse
prioritari sono rivolti a quell’ambito vasto e diversificato
di espressioni musicali originali ed eterodosse (improvvisazione,
rock e jazz d’avanguardia, nuove sonorità...) che sfuggono
alle logiche del consumo culturale o alle più scontate
connotazioni di genere, ricercando modi non usuali di organizzare
i suoni e di coinvolgere criticamente l’ascoltatore. Aderiscono
al Circ.a centri e luoghi sociali, organismi culturali
e singoli collaboratori di diverse parti d’Italia, impegnati
nella produzione e nella diffusione musicale secondo vicissitudini
e modi propri, avvicinati dalla volontà di sostenere
attività creative di segno innovatore con azione comune.
* Circ.a musiche in circuito
tel. e fax 0464.431741
e-mail: sa@seldati.it
http://www.ecn.org/circ.a
Palle
di topo
Come sapete il mouse si chiama in francese souris,
in spagnolo raton, in tedesco maus e solo noi, invece di chiamarlo
topo, lo chiamiamo mouse. Gli americani della IBM non lo sapevano
e hanno tradotto un po’ troppo letteralmente un loro manuale
di istruzioni distribuito in tutte le filiali del mondo, tra
cui quella italiana...
Questo è il memorandum, realmente distribuito agli
impiegati di tutte le filiali statunitensi Ibm.
Nelle intenzioni di chi lo ha scritto è assolutamente
serio, la traduzione è stata fatta dagli americani per
gli impiegati della IBM Italia.
Palle dei topi: Istruzioni per l’uso
Le palle dei topi sono da oggi disponibili come parti di
ricambio. Se il vostro topo ha difficoltà a funzionare
correttamente, o funziona a scatti, è possibile che esso
abbia bisogno di una palla di ricambio.
A causa della delicata natura della procedura di sostituzione
delle palle, è sempre consigliabile che essa sia eseguita
da personale esperto.
Prima di procedere, determinate di che tipo di palle ha
bisogno il vostro topo.
Per fare ciò basta esaminare la sua parte inferiore.
Le palle dei topi americani sono normalmente più grandi
e più dure di quelle dei topi d’oltreoceano. La procedura
di rimozione di una palla varia a seconda della marca del topo.
La protezione delle palle dei topi d’oltreoceano può
essere semplicemente fatta saltare via con un fermacarte, mentre
sulla protezione delle palle dei topi americani deve essere
prima esercitata una torsione in senso orario o antiorario.
Normalmente le palle dei topi non si caricano di elettricità
statica, ma è comunque meglio trattarle con cautela,
così da evitare scariche impreviste.
Una volta completata la sostituzione il topo può
essere utilizzato immediatamente.
Si raccomanda al personale esperto di portare costantemente
con se un paio di palle di riserva, così da garantire
sempre la massima soddisfazione dei clienti.
Nel caso in cui le palle di ricambio scarseggino, è
possibile inviarne richiesta alla distribuzione centrale utilizzando
i seguenti codici:
- PIN 33F8462 - Palle per topi americani
- PIN 33F8461 - Palle per topi stranieri
E voi, avete controllato le palle del vostro topo?
Contro
la pena capitale
Ciao
mi chiamo Giulio Bellucci e vi scrivo a nome mio e di un
gruppo di persone per farvi conoscere l’incredibile caso di
Mark Lankford, un detenuto da circa 16 anni nel braccio della
morte del penitenziario di Boise, Idaho, USA.
Vi segnalo questo caso perché conosco bene l’attenzione
e la sensibilità dei centri sociali sui problemi della
giustizia e dei diritti umani.
Mark é stato condannato per omicidio in concorso
con il fratello Bryan proprio grazie alle accuse dallo stesso
Bryan rivolte nei suoi confronti al fine di poter beneficiare
di una riduzione della pena.
Successivamente alla condanna a morte, peraltro emessa per
entrambi i fratelli, Bryan ha dato ripetuta testimonianza della
reale motivazione delle sue accuse nei confronti di Mark, scagionando
Mark da ogni addebito e dichiarandosi quale unico esecutore
del delitto. Purtroppo tali evidenze non hanno consentito a
Mark di ottenere il ribaltamento della sentenza nei suoi confronti
ed ora é in attesa di un pronunciamento in merito alla
data di esecuzione della condanna.
I fatti sopra menzionati sono riportati in una dettagliata
informativa fornita dai legali di Mark che potete visionare,
unitamente al testo della petizione che stiamo diffondendo,
sul sito http://members.tripod.it/G_B/index.html.
Chiediamo la vostra collaborazione affinché vi uniate
a noi per diffondere questo caso ed esercitare anche voi la
pressione che da molti paesi si sta concentrando sulle autorità
dell’Idaho al fine di sventare questa ingiustizia contro un
uomo innocente.
Lo scopo di tale pressione non é quello di ottenere
la grazia o un gesto di clemenza per Mark ma solo quello di
permettere una riapertura del processo in cui sia finalmente
consentito di produrre le molte evidenze circa la sua innocenza.
Sicuro che anche questa volta vi dimostrerete sensibili di fronte
al diritto alla giustizia vera e non vendicativa, vi ringrazio
per l’attenzione e rimango a vostra disposizione per qualunque
chiarimento o suggerimento.
Peace
Giulio Bellucci
gbellucci@yahoo.com
I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni Stefano Ancona (Monza), 20.000;
Aurora e Paolo (Milano) ricordando Luciano Farinelli,
1.000.000; Lorenzo Partesana (Sondalo), 50.000; Riccardo
Caneba (Grottaferrata), 20.000; Massimo Ortalli (Imola)
salutando la famiglia Finzi- Failla, 100.000; a/m
Cesare Vurchio, Leonardo Muggeo (Canosa di Puglia)
ricordando Luciano Farinelli, 50.000; a/m Rocco, Fabio
(Settimo Milanese) per la causa, 5.000; Giuseppe Gessa
(Cassina de’ Pecchi), 25.000; Giovanni Gessa (Cassina
de’ Pecchi), 25.000; Oliviero Girlanda (Milano), 10.000;
a/m Mario Bossi, ricavato del concerto per "A"
di Stefano Giaccone e Lalli (Bloom di Mezzago, 9 maggio),
285.000; Antonino Magnacca (Milano), 20.000; Claudio
Bussetti (Loano), 29.000; Santini, 39.000; Pasquale
Messina (Milano), 50.000; G. (Milano), 267.000; parte
ricavato dalla Mostra artistica in memoria di Marina
Padovese promossa in maggio dall’Ateneo Libertario
e dalla Libreria Utopia (Milano), 600.000.
Totale lire 2.575.000.
Abbonamenti sostenitori Giuseppe Ceola (Malo),
150.000; Vittorio Golinellli (Bussero), 150.000; Marco
Cimarosti (Muggiò), 150.000; Gianpaolo Verdecchia
(Firenze), 400.000; Gianluca Botteghi (Rimini), 150.000;
Enrico Calandri (Roma), 200.000.
Totale lire 1.200.000.
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