rivista anarchica
anno 29 n.258
novembre 1999


 

Per le donne afgane

Il governo afgano ha scatenato una guerra contro le donne.
Dopo la presa del potere dei Talebani, nel 1996, le donne sono state costrette a portare il burqua, sono state bastonate e lapidate in pubblico se non avevano l'abbigliamento adeguato e questo può semplicemente voler dire non avere il velo che copre completamente il volto.
Qualcuno ha riferito che una donna è stata bastonata a morte da una turba furente di fondamentalisti, solo perché aveva inavvertitamente scoperto un braccio mentre guidava una vettura. Un'altra è stata uccisa mediante lapidazione, perché aveva cercato di uscire dal paese in compagnia di un uomo che non era suo consanguineo. Alle donne è vietato mostrarsi in pubblico se non sono scortate da un parente maschio.
Non possono nemmeno lavorare. Quelle che esercitavano una professione, insegnanti, traduttrici, dottoresse, avvocate, artiste e scrittrici sono state costrette ad abbandonare il lavoro e a rinchiudersi in casa.
I casi di depressione si sono moltiplicati fino a raggiungere livelli di emergenza. In una società come quella afgana, che estremizza a tal punto i dettami coranici, non è possibile conoscere con certezza il numero dei suicidi, ma i volontari delle organizzazioni umanitarie che vi lavorano ritengono che ci sia un notevole aumento delle donne che si uccidono, non trovando medicine e terapie adeguate per la depressione.
Le donne prive di parenti maschi o senza marito, non potendo lavorare, anche se sono laureate muoiono di fame o sono ridotte a mendicare agli angoli della strada. Le abitazioni in cui vive una donna devono avere i vetri oscurati, per non essere visibili dall'esterno. Tutte devono portare scarpe che non facciano rumore, perché non si deve nemmeno sentirle mentre camminano. Così tutte vivono nel terrore di quello che può capitare per il minimo sbaglio di comportamento.
Per loro non esiste quasi nessuna struttura sanitaria e i volontari delle organizzazioni umanitarie, per protesta, hanno in gran parte lasciato il paese, portando con sé medicinali, gli psicologi e tutto quanto servirebbe per curare i casi sempre più numerosi di depressione. In uno dei rari ospedali riservati alle donne, un giornalista ha trovato tanti corpi immobili, come senza vita, stesi in cima ai letti, avvolti nei burqua, incapaci di parlare e di fare qualsiasi cosa, che si spegnevano lentamente. Qualcuna era impazzita e stava accovacciata in un angolo scuotendo in continuazione il busto o urlando, in preda al terrore. Uno dei medici sta pensando, quando le poche medicine saranno finite, di abbandonare quelle infelici davanti al palazzo presidenziale, come forma di protesta.
Siamo al punto in cui parlare di "violazione dei diritti umani" è solo un eufemismo. Gli uomini hanno il diritto di vita e di morte sulle donne della loro famiglia, soprattutto ce l'hanno i mariti nei confronti delle mogli, ma una turba di gente furiosa ha quasi lo stesso diritto di lapidare o fustigare una donna anche a morte, se solo scopre un centimetro di pelle o se si sente in qualche modo provocata da lei.
Fino al 1996 le donne godevano di una relativa libertà, potevano lavorare, si vestivano in genere come volevano, potevano guidare un'automobile e mostrarsi in pubblico. La rapidità di questo cambiamento è la causa principale di tutti i casi di depressione e di suicidio: donne che si dedicavano alla scuola o alla medicina o che, semplicemente, godevano di diritti basilari, ora si trovano severamente limitate e trattate come esseri subumani, in nome del fondamentalismo islamico più retrivo. La cultura e la tradizione islamica non sono queste, si tratta di manifestazioni aliene allo spirito dell'Islam, anche nei paesi dove il fondamentalismo è la norma.
Chiunque ha il diritto a un'esistenza tollerabile, anche se è una donna che vive in un paese musulmano. Se è possibile un intervento armato nel Kossovo in nome dei diritti umani e a tutela dell'etnia albanese, i cittadini di tutto il mondo possono benissimo esprimere pacificamente la propria indignazione per l'oppressione, le uccisioni e le ingiustizie perpetrate sulle donne dai Talibani.

Suzanne Dathe
(Grenoble - Francia)

seguono altre decine di firme

(traduzione di
Guido Lagormarsino)

Quei due cinesi

Per l'anno 1999 il premio Alexander Langer è stato assegnato ad una coppia cinese, la signora Ding Zilin e il marito Jiang Peikun, i cui nomi sono relativamente poco conosciuti in ambito internazionale, ma che in questi mesi, a causa della ricorrenza del decennale della primavera di Pechino dell'89 e del massacro di piazza Tienanmen, stanno vivendo un periodo di grande notorietà.
Ding Zilin e Jiang Peikun erano professori di filosofia all'Università del Popolo di Pechino e membri del Partito comunista cinese. Il loro unico figlio, il diciassettennne Jiang Jelian, che partecipava attivamente al movimento della Primavera di Pechino, venne ucciso la sera del 3 giugno 1989 da un soldato nei pressi di Piazza Tienanmen e fu solo una delle prime vittime che sarebbero seguite quella stessa notte e delle quali ancora non si conosce il numero esatto e neppure l'identità.
Da allora l'opera svolta da Ding Zilin e da Jiang Peikun ha tentato di colmare questa lacuna con un lento e tenace lavoro di ricostruzione dei fatti e di catalogazione delle vittime (nome, cognome, provenienza, modi e circostanze della morte) che ha inevitabilmente incontrato l'ostilità delle autorità pronte ad escludere i due coniugi dall'insegnamento e dal partito, sottoponendoli periodicamente agli arresti domiciliari. A queste difficoltà se ne sono aggiunte altre dovute al reperimento delle notizie che è reso estremamente laborioso dalla ricerca delle persone disposte a parlare. Tuttavia in questi dieci anni, superando i silenzi, l'umiliazione del lutto negato, la paura delle ritorsioni e la voglia di dimenticare dei testimoni, Ding Zilin è riuscita a documentare e a rendere pubbliche 155 storie di morti nel massacro di Piazza Tienanmen e alcune decine di storie di vivi che ancora oggi soffrono fisicamente e moralmente i segni di quella notte.
Le parole stesse di Ding Zilin spiegano meglio di qualsiasi resoconto il senso del lavoro svolto fino ad oggi: "Una persona può fare molte scelte diverse: io ho scelto di documentare la morte". "La vita è sacra, ma anche la morte è sacra; non voglio che queste vittime siano morte di una morte anonima, in circostanze sconosciute".
A tutto ciò va aggiunto che Ding Zilin e Jiang Pekun (che dal '93 fanno parte dell'organizzazione Human Rights in Cina) hanno costituito una rete di aiuti a famiglie e invalidi, coinvolti nei fatti di Piazza Tienanmen, in gravi difficoltà economiche e prive di ogni tipo di assistenza e recentemente hanno sporto denuncia contro i responsabili del massacro, chiedendo alle massime autorità dello Stato che sia aperta un'inchiesta giudiziaria e fatta giustizia.
L'attribuzione del premio Langer è quindi estremamente significativa nel contribuire a rendere nota l'attività di questa coppia per la rivendicazione del diritto alla memoria come strumento di tutela dei diritti umani e di difesa delle libertà politiche e civili in un contesto autoritario come quello cinese.

Laura Di Martino

 

Solidarietà con Marco Camenisch

Nella domenica del 25 luglio ci siamo ritrovati in una novantina per manifestare attiva solidarietà a Marco Camenisch (Martino).
Fuori dal carcere di Novara, nonostante una discreta presenza poliziesca, con la complicità di un caldo sole e di un clima fraterno e conviviale tra i partecipanti, si trascorrevano piacevoli ore fiancheggiando la ribellione di Marco /Martino e la solitudine dei suoi familiari nel periodico impatto carcerario.
Tutto questo esterni ed estranei al solito spettacolo offertoci dai mass-media che avevano già allarmato il cittadino novarese della sicura calata di "barbari squatter" da Torino e dintorni, pronti a mettere a ferro e fuoco se non l'intera cittadella almeno le vie adiacenti al supercarcere, per l'occasione chiuse al traffico e interdette al ponteggio.
"Divieti di sosta e transito. Domani mattina la manifestazione al supercarcere" titolava infatti un trafiletto allarmista de La Stampa del 24 luglio. Stessi toni il 25: "... qualche protesta da parte dei residenti nella zona di via Sforzesca, che trascorrevano una domenica 'blindata' a causa dell'arrivo dei manifestanti". "... arriveranno in treno da Torino e si dirigeranno verso il carcere".
Oltre al quotidiano La Stampa anche una TV locale ed il TG Regionale Piemonte parlavano della manifestazione, facendo da grancassa ad una iniziativa assai umile e modesta tra amici e compagni intenzionati a contrastare la volgare criminalizzazione di Marco.
Una iniziativa in pieno stile zapatista, nell'affermare l'umanità di Marco e del suo dignitoso percorso ribelle: contro il liberalismo vecchio e nuovo delle lobby nucleari, idroelettriche e non solo, costante minaccia al rapido e sistematico degrado delle Alpi e dei suoi abitanti.
Fuori da ogni spettacolo, Marco /Martino si è rivelato elemento umano aggregatore in quanto individuo non sottomesso e punto di riferimento limpido e trasparente della critica sempre attuale contro il moderno e rinnovato sistema autoritario/tecnologico/liberalista/industriale.
Accompagnati dalla buona musica di un amplificatore se non autoprodotto di certo autogestito, ci si ritrovava da svariate località del Piemonte, Lombardia, Veneto, Trentino, da Zurigo e, nell'insieme, tra amici e compagni dalle storie diverse e intrecciate di questi terribili anni Novanta.
Si concludeva poi la giornata in una ventina di "superstiti" con una pizza in compagnia di Annaberta (la madre di Marco) che mai, in questi 8 anni di visite e colloqui, si era sentita così benevolmente integrata in una comunità dissidente.
Al momento attuale pare che la pressione contro Marco e i suoi familiari si sia allentata, fermo restando che in caso contrario ci si rimobilita senza esitazione.
Per concludere non resta che citare un frammento di comunicazione del diretto interessato, presente involontario all'interno del carcere di Novara. "Grazie per il vostro impegno nell'iniziativa che mi è piaciuta tantissimo. Sono felice e sollevato... Domenica non vi ho sentite/i ma sentite/sentiti sì, eccome... Mi vien da ridere vedere e sentire (La Stampa, Cronaca di Novara e TG locale) squatter e grandi preparativi, per poi trovarsi davanti un composito e composto gruppo di gente, famiglie, anziani e bambini d'età media attorno più o meno ai 40 anni. Parlavan di me come 'giovane'... a 48 anni suonati (in ogni senso...).

Piero Tognoli