rivista anarchica
anno 29 n.259
dicembre 1999 - gennaio 2000


Errico e i problemi aperti

L'ultima fatica di Nico Berti (Errico Malatesta, Il buon senso della rivoluzione, a cura di Giampietro Nico Berti, Milano, Elèuthera, 1999, pp. 243, L. 25.000) è dedicata al più noto e più importante anarchico del movimento di lingua italiana.
Il recente monumentale volume bertiano sulle teorie libertarie (Il pensiero anarchico. Dal settecento al Novecento, Manduria, Lacaita, 1998, pp. 1030, L. 60.000) meriterebbe un'analisi approfondita. Qui è il caso di ricordare che quest'opera era stata preceduta da un'agile sintesi pubblicata nel 1994 da Elèuthera, (Un'idea esagerata di libertà. Introduzione al pensiero anarchico, pp. 190, L. 23.000). Analogamente il succoso volumetto qui presentato anticipa di qualche anno un lavoro di grandi dimensioni, che l'instancabile Nico sta preparando da tempo, sulla vita e gli scritti di Malatesta, in sostanza una biografia definitiva dell'erede italiano di Bakunin.
Ha ancora senso riproporre le riflessioni del mitico Errico ai giorni nostri ? Berti ha dato logicamente una risposta positiva selezionando articoli del Malatesta maturo, dal 1919 al 1932, dopo l'ultimo ritorno in Italia, terra dalla quale aveva dovuto ripetutamente fuggire in seguito alle sconfitte di svariati tentativi insurrezionali. Nel dicembre del 1919, quando la nave che riporta Malatesta a Genova giunge nel porto, la città si ferma per un saluto al vecchio internazionalista e decine di migliaia di lavoratori e cittadini accorrono sulle rive per salutare colui che, molto impropriamente, alcuni definiscono il "Lenin d'Italia". La sua enorme popolarità rappresenta il sintomo di una situazione di forti tensioni sociali e di grandi speranze nell'imminente rivoluzione, ma rivela anche il bisogno diffuso di un leader credibile che potesse condurre le masse verso la liberazione dal capitalismo.
Al tempo stesso - lo scrive allora il nostro disincantato e sereno militante -, questa attesa messianica da parte del proletariato (che ripete "Faremo come in Russia" pur non avendo precise informazioni sulla contraddittoria realtà sovietica) favorisce, attraverso una paralizzante delega a un vertice carismatico, la vittoria di un movimento reazionario che nel 1919 non conta quasi nulla. Il fascismo di Mussolini si impone su un popolo apparentemente radicalizzato e deciso, in realtà assai impreparato a gestire una vera rivoluzione sul piano economico, sociale, politico. La dimostrazione si ha nel settembre del 1920, al momento dell'occupazione delle fabbriche, quando gli operai armati non decidono di avviare la produzione in proprio e di scambiare i prodotti, ma si limitano ad una difesa simbolica del possesso degli impianti. Il mancato innesto di un autentico processo rivoluzionario e, nel giro di poche settimane, la smobilitazione del movimento delle occupazioni per mancanza di prospettive reali crea il terreno favorevole al fascismo.
La borghesia industriale, spaventata a morte ma con un'intatta potenza, foraggia le squadre dei manganellatori, mentre i latifondisti pagano le spedizioni punitive contro le organizzazioni bracciantili e lo Stato tollera, o aiuta apertamente, lo smantellamento violento e sanguinario, quartiere dopo quartiere, villaggio dopo villaggio, delle strutture dei movimenti proletari. La passività sostanziale delle masse, subordinate alla linea riformista dei socialisti, disarma l'ipotesi rivoluzionaria che si fonda più su un'ondata emotiva che su una coscienza solida e sperimentata. Ecco una riflessione malatestiana che potrebbe risultare di qualche utilità per un confronto, sempre con le dovute cautele, con il clima di esaltazione sovversiva degli anni Settanta, a noi abbastanza vicini.
Un altro tema cruciale riproposto nella parte antologica e nella stimolante introduzione riguarda il rapporto difficile tra l'inevitabile violenza nella rivoluzione (dovuta al fatto che i privilegiati difenderanno violentemente il proprio privilegio) e la costruzione di una società anarchica che dovrebbe basarsi sulla pacifica forza attrattiva dell'esperienza libertaria. Malatesta, nella lettura di Berti, non riesce a sciogliere in modo convincente questo nodo concettuale oscuro, che sarebbe comunque legato a certa incongruenza teorica e alla presunta subalternità politica dell'anarchismo. L'incoerenza riguarda il soggetto rivoluzionario identificato non nelle avanguardie organizzate, ma nel popolo; però questi sarebbe complessivamente debole e subordinato grazie allo sfruttamento e all'oppressione esercitati dai centri di potere. Il limite nella coerenza rivoluzionaria risiede nel fatto che gli anarchici, nella società liberata, non hanno in programma la gestione del potere politico bensì l'esercizio di una costante critica e opposizione a ogni tipo di governo per impedirgli di controllare la società e di soffocare il processo rivoluzionario.
Entrambi i problemi sono effettivamente seri e la storia ne ha dimostrato la gravità in termini di dure repressioni: capitalisti liberali e pianificatori bolscevichi hanno gareggiato nell'eliminazione fisica delle tendenze antiautoritarie.
Anche se una recensione non è il luogo più adatto per un approfondimento teorico, ritengo necessario osservare perlomeno che le contraddizioni rilevate da Nico sono anche conseguenza del modo di ragionare adottato in questo caso. Infatti egli assume concetti assoluti e rigidi e trascura il fatto che le realtà storiche sono state molto più sfumate e ricche delle definizioni teoriche. In questo senso va ricordato che sono esistite situazioni nelle quali delle porzioni non piccole di popolo hanno lottato con forza contro il potere dominante insieme al movimento libertario più o meno organizzato (oltre ai classici casi della Spagna e dell'Ucraina, vi sono almeno il Messico e l'Argentina). Allo stesso modo mi pare logico che la discutibile espressione "sconfitta iscritta nel DNA", ovviamente assai poco gradita nell'ambito militante, e indicata da Berti in altre pubblicazioni, non sia un fatto dimostrabile sul piano del ragionamento teorico, bensì su quello dei rapporti di forza, anche brutalmente considerati, fra il dominio (vecchio e nuovo) e gli antiautoritari. Ciò sposta il discorso sulla possibilità di essere forti senza scivolare nell'autoritarismo, di essere determinati senza cadere nel fanatismo, di essere efficaci nella lotta senza diventare disumani o violenti.
Il rilievo dell'esempio come propaganda, della libera sperimentazione come anticipazione del futuro, della prevalenza dei motivi etici sulle contingenze politiche, sono ulteriori questioni "classiche", cioè sempre vive nel movimento e nella coscienza dei compagni.
Anche per saperne di più su questi delicati problemi di una rivoluzione libertaria è utile leggere, o rileggere, quanto scritto dal piccolo elettricista napoletano, ma con inflessioni inglesi, il nostro Errico.
E' quanto ci offre, con intelligenza critica e alquanto disincantata, Nico Berti, singolare figura di studioso al tempo stesso appassionato e rigorosamente scientifico.

Claudio Venza


Futuro interiore

Le frequentazioni di Vittorio Curtoni con la rivista si perdono decisamente nella notte dei tempi, quando apparve nel lontano 1978 (numero 68 di A) un suo articolo intitolato Su Marte c'è un compagno, nel quale veniva delineato con precisione lo sviluppo della fantascienza americana fino agli anni settanta. Negli anni successivi la collaborazione si è ripetuta per lo speciale sul 2068 apparso a più riprese sui numeri di A 245, 246 e 247 nell'anno 1998 ; è quindi un grande piacere parlare di nuovo di questo scrittore sulle pagine di A/Rivista anarchica, in occasione della pubblicazione della sua antologia di racconti Retrofuturo. Storie di fantascienza italiana. (edizioni Shake, 1999).
Il testo comprende una sorta di autobiografia di Curtoni intitolata La mia love story con la fantascienza, divisa cronologicamente in tre parti cui seguono dei gruppi di racconti corrispondenti, inoltre i singoli racconti sono introdotti da una breve presentazione che ne esplica le modalità compositive. Nel complesso quindi il volume si rivela molto più denso di una normale raccolta di racconti e fornisce una serie di riferimenti essenziali per chi volesse conoscere più approfonditamente la storia della fantascienza italiana, lasciandosi guidare dai ricordi di uno dei suoi protagonisti.
Tra i periodi che vengono ricordati da Curtoni con maggiore trasporto c'è sicuramente quello del primo fandom italiano che nasce, anche se non in maniera ufficiale, nel 1965 durante la terza edizione del Festival internazionale del film di fantascienza di Trieste, quando un nutrito gruppo di giovani dai sedici ai vent'anni si scopre accomunato dalla medesima passione per la fantascienza e comincia a collaborare alla redazione di diverse fanzine. Nella rievocazione di Curtoni colpisce la mancanza della nostalgia che si ripiega compiaciuta su se stessa, l'impressione dominante è anzi quella della freschezza, dovuta certo alla foga e all'entusiasmo giovanili dell'autore in quel periodo, cui si aggiunge però la consapevolezza di creare qualcosa di completamente nuovo (almeno per l'Italia del periodo). Analoga situazione per gli anni di Robot, la rivista di fantascienza ideata e diretta da Curtoni dal '76 al '78, periodo durante il quale l'autore e i suoi collaboratori furono letteralmente travolti da una valanga di lavoro e si trovarono a fronteggiare le numerose incognite legate alla gestione di un'avventura editoriale cui si deve in gran parte l'elevazione dello status culturale della letteratura di fantascienza in Italia.
Quest'ultimo aspetto è di fondamentale importanza per valutare appieno una rivista che per tutto il periodo della sua pubblicazione svolse una costante attività di promozione di nuovi autori (anche italiani), tra i quali vanno ricordati almeno Ballard, Leiber, Dish e Sturgeon, cui si affiancò una prolifica produzione saggistica. Nell'insieme, come ricorda anche Valerio Evangelisti nell'introduzione al volume, Robot si presenta con una maturità culturale di ampio respiro, che esce dalle coordinate del ghetto con l'intento di fare cultura e tutto ciò è sicuramente merito dello stile di Curtoni, che orchestra tutto l'insieme discretamente, ma in maniera inconfondibile, non solo dal punto di vista contenutistico, ma anche da quello stilistico, con le illustrazioni oniriche di Giuseppe Festino, che accompagnano l'autore anche in questa raccolta.
Per quanto riguarda i racconti veri e propri va segnalato innanzitutto uno straordinario approfondimento dell'intuizione ballardiana della fantascienza come tempo interno, come futuro interiore, appunto che ha accompagnato l'autore fin dagli esordi. Già dai primi brani, che rivelano ancora asprezze e spigolosità giovanili che Curtoni ammette con grande onestà, ricorre il tema dell'incognita maggiore che sia data all'uomo da esplorare : se stesso. Proprio dall'esperienza della New Wave o almeno dell'espressione che di essa è stato James Ballard con il suo manifesto Which Way to the inner space? (Da che parte è lo spazio interno?) Curtoni recupera i toni ossessivi, la rappresentazione di una geografia nebulosa, di un ambiente artefatto che sia in grado di esprimere le angosce e gli stati d'animo dei personaggi sempre più straniti che lo popolano (basti ricordare il racconto intitolato La luce); altra grande intuizione mutuata dallo scrittore inglese è l'interpretazione della tecnologia finalmente non più affrontata con il piglio ingenuo di chi la considerava uno strumento indiscusso del progresso umano, bensì come parte integrante della vita degli individui, strumento che ne riproduce le paure e le ossessioni, le veicola, le amplifica, mostrandone il carattere allucinatorio (come nel tenero racconto Dal rabbino o nel crudele Ti vedo). Va comunque sottolineato che, per quanto Ballard sia stato un modello per Curtoni, lo è stato sicuramente nel senso più alto del termine: cioè come momento di confronto e come stimolo alla ricerca di una strada propria, autonoma ed innovativa che Curtoni intraprende proprio nella lettura degli stati d'animo dei suoi personaggi. Di fronte ad un Ballard legato (allora) alle tematiche della psicologia junghiana, dell'analisi dei rapporti tra immaginario collettivo ed individuale e interessato alla questione dei ricordi ancestrali della razza umana, lo scrittore italiano si ritaglia la propria originale lettura dei tormenti esistenziale dei suoi personaggi. Questi ultimi infatti si trovano nella tragica situazione di diversi adeguare ad una realtà alienante per sopravvivere (e con ciò perdono la propria individualità) ma se non lo fanno, rischiano di impazzire. Un futuro, quello di Curtoni, non così diverso dalla nostra attualità.

Laura Di Martino

 


Un intellettuale d'azione

Un imponente corteo silenzioso attraversava i boulevards di Parigi. Davanti due bare: trasportavano i corpi sfigurati di Nello e Carlo Rosselli verso il cimitero di Père Lachaise.
In una calda giornata del giugno 1937 tutta la città, tutto l'antifascismo europeo, rendeva un grandioso omaggio ad uno dei più temibili avversari che il fascismo avesse sino ad allora incontrato sulla sua strada.
Perché Carlo Rosselli non fu soltanto uno dei più fini intellettuali italiani di questo secolo, l'originale pensatore di un socialismo liberale non insensibile ad istanze libertarie, ma fu soprattutto uomo d'azione, anzi direi propugnatore dell'azione diretta.
Nel centenario della nascita assume quindi una notevole importanza, l'iniziativa di pubblicare per la prima volta integralmente in italiano l'opuscolo che Gaetano Salvemini scrisse in sua memoria pochi mesi dopo il feroce assassinio (Gaetano Salvemini Carlo e Nello Rosselli. Un ricordo, Galzerano Editore, Casalvelino Scalo, 1999, pagg. 128, lire 20.000).
Una vera primizia editoriale considerando anche il calibro dell'estensore: quel sanguigno Salvemini storico e pubblicista di punta, sensibile alla questione meridionale a tal punto da arrivare ai ferri corti anche con il Partito Socialista accusato di poca sensibilità al problema: lui che aveva aderito sin dal 1892, collaborando con Critica Sociale e l'Avanti, nel 1911 abbandonava il partito.
Seguirà uno dei periodi più intensi della vita intellettuale di Salvemini con la nascita de l'Unità.
Duramente perseguitato dal fascismo riparerà all'estero ricomparendo tra i fondatori di 'Giustizia e Libertà' insieme a Rosselli. Di lui vale la pena ricordare la grande amicizia che lo legò ad Armando Borghi negli anni di esilio americano spingendolo a scrivere di Mezzo secolo di anarchia.
Nel 1937 la notizia dell'omicidio dei fratelli Rosselli spinge Salvemini a scrivere a caldo questo libretto con la risolutezza del giornalismo d'inchiesta, infatti solo ricostruendo l'operato antifascista di Carlo si può comprendere le motivazioni dell'omicidio; ordinato da Mussolini ma compiuto da sicari dell'organizzazione terroristica francese 'La Cagoule'.
E l'attivismo di Carlo è davvero impressionante: nel 1926 insieme a Pertini e Parri organizza la fuga di Filippo Turati da Milano verso la Francia che gli costerà il confino a Lipari da dove, nel 1929 (insieme a Francesco Fausto Nitti ed Emilio Lussu), riuscirà a fuggire con una delle più clamorose evasioni che la storia carceraria ricordi.
Riparato a Parigi fu l'anima fondatrice di 'Giustizia e Libertà', forse l'unica organizzazione antifascista italiana capace negli anni trenta di creare seri problemi agli apparati repressivi fascisti: rompendo con il sostanziale immobilismo degli ambienti italiani in esilio e proponendo una strategia di lotta senza quartiere al fascismo.
Non c'è quindi da stupirsi se alle prime notizie giunte dalla Spagna nel '36, Carlo Rosselli organizzò la prima colonna italiana in soccorso della rivoluzione, trovando l'entusiastica partecipazione degli anarchici esiliati che fornirono il grosso dei miliziani (è utile ricordare che i comunisti italiani che seguirono la colonna, lo fecero a titolo personale rompendo la disciplina di partito), tra l'altro il commissario politico della formazione fu Camillo Berneri, assassinato come Rosselli - questa volta per mano stalinista - appena un mese prima, nel maggio del '37.
Sicuramente quella profezia "oggi in Spagna, domani in Italia!" non deve aver certo giovato alle sorti di Rosselli oramai diventato per Mussolini e per l'OVRA un nemico da abbattere a tutti i costi, osserva Salvemini: "Colpisci il pastore ed il gregge verrà disperso. Carlo Rosselli non fu soltanto una figura chiave del movimento Giustizia e Libertà, ma fu anche uno dei principali artefici della sconfitta fascista a Guadalajara".
Sicuramente dietro i feretri dei fratelli Rosselli non c'erano solo le persone che avevano trovato in Carlo il geniale giornalista, l'intellettuale che approfondì la critica al comunismo autoritario, recuperando i pensatori della tradizione utopistica, ma vi erano anche i semplici militanti antifascisti che avevano visto in lui l'intellettuale che si sporca le mani, la figura carismatica capace di dare l'esempio rischiando la vita in prima persona nella lotta a viso aperto contro il fascismo.

Dino Taddei