rivista anarchica
anno 29 n.259
dicembre 1999 - gennaio 2000


 

 

Libera sperimentazione

Ho letto con molto interesse l'articolo di Luigi Fabbri "Libera sperimentazione" con introduzione di Pietro Adamo apparso su A 256 (giugno '99). In particolare nell'introduzione si individuano, a mio avviso, alcuni concetti e necessità fondamentali per l'agire politico degli anarchici oggi.
Positivo inoltre mi appare l'uso di alcuni termini, come "revisionismo", o "transizione", affermati come problematiche da affrontare e non più come epiteti da scomunica. Penso anche io, nell'accettazione malatestiana riportata da Adamo, che l'anarchismo abbisogni di una revisione costante, senza cioè rifarsi dogmaticamente ai padri, ma nell'intento di collocare quelle riflessioni e quelle analisi alle contingenze attuali.
Non condivido però la visione eccessivamente schematica e un po' caricaturale che Pietro Adamo disegna dell'anarchismo storico e militante.
Un generico prima, dove gli anarchici cedendo e scimmiottando il credo dei comunisti autoritari si dichiarano dogmaticamente comunisti per quanto riguarda l'organizzazione economica futura, e un dopo dove, in contrapposizione all'imposizione statale di un unico modello organizzativo avvenuto nella Russia sovietica dopo la rivoluzione d'ottobre, si fa strada una concezione di "libera sperimentazione" di più vari modelli sociali ed economici. Sarebbe solo il caso di ricordare che la NEP (Nuova Politica Economica) non può essere certo scambiata come una imposizione ed "espropriazione comunista" da parte dello Stato sovietico dei piccoli priprietari, casomai il contrario, e che i successivi Piani quinquennali o la collettivizzazione forzata di staliniana memoria, più che un modello di comunismo espropriatore, rappresentò una necessità economica di un capitalismo arretrato che non l'imposizione statale, cioè con la violenza organizzata, impose una accelerazione alla propria accumulazione originaria. Qui la discussione ci porterebbe veramente lontano e non è questo che mi preme discutere.
Tornando a noi, non vi è mai stata questa separazione tra un prima e un dopo nel movimento anarchico, anzi gli anarchici fin dagli albori delle prime associazioni operaie e politiche del movimento operaio internazionale si sono posti e caratterizzati per una sorta di "libera sperimentazione" sia sul piano politico che economico. Basti pensare alla spaccatura all'interno della I internazionale ed alla battaglia ingaggiata da Bakunin e dai suoi seguaci contro la Risoluzione n. 9 del Consiglio di Londra ed in particolare alla tesi conclusive del Congresso di S. Imier, (1872) da cui storicamente nasce l'anarchismo organizzato a livello internazionale.
Queste, seppur riferite più ad un programma di azione politica mirante alla trasformazione del modo di produzione capitalistico, che non alla fase di transizione vera e propria, rivendicano con forza una autonomia e un pluralismo di opzioni da parte del nascen-te movimento operaio
internazionale. Leggiamo: "Considerando: che imporre al proletariato una linea di condotta o un programma politico uniforme come l'unica via che possa condurlo alla sua emancipazione sociale, è una pretesa tanto assurda quanto reazionaria; (...) Che le aspirazioni del proletariato non possono avere altro oggetto che la costituzione di un'organizzazione e di una federazione economiche assolutamente libere, fondate sul lavoro e sull'uguaglianza di tutti e assolutamenti indipendenti da ogni Governo politico, e che detta organizzazione e federazione possono essere unicamente il risultato dell'azione spontanea del proletariato medesimo, delle associazioni di mestiere e delle comuni autonome" ecc.
Per quanto riguarda poi la prospettiva del comunismo, come modello economico di riferimento nella futura società, il movimento anarchico non ha certo aspettato l'esperienza rivoluzionaria bolscevica per poi ricredersi, ma fin dal 1880, al Congresso della Federazione del Giura, Cafiero e con lui Kropotkin, si fanno paladini convinti della necessità di definirsi comunisti per quanto riguarda il modello economico di riferimento superando la dizione generica di collettivisti, usata in quel periodo dai nascenti riformisti. Cafiero in un passo dalla sua relazione afferma:
"Un tempo ci denominavano collettivisti, per distinguerci dagli individualisti e dai comunisti autoritari; ma, in fondo, noi siamo semplicemente comunisti antiautoritari, e dicendoci collettivisti, vogliamo esprimere con questo termine la nostra idea che tutto deve essere messo in comune, senza fare differenze tra gli strumenti e le materie di lavoro e i prodotti del lavoro collettivo".
Che poi nella vulgata anarchica il comunismo fosse un processo storico inevitabile del divenire umano e non tanto una scelta volontaria e perseguita come fattibilità concreta dell'agire delle masse oppresse dal giogo capitalistico, siamo anche qui ad una forzatura da parte di Adamo, per lo meno relativa al pensiero di quell'anarchismo più rappresentativo e militante.
Sempre Cafiero nello stesso Congresso afferma che "Non si tratta soltanto di affermare che il comunismo è possibile: noi possiamo affermare che è necessario. Non soltanto si può essere comunisti, bisogna esserlo se non si vuole mancare l'obiettivo della rivoluzione".
Quindi niente di ineluttabile, ma solo possibile, come scelta volontaria da parte del proletariato internazionale e necessario in seguito ad argomentazioni e valutazioni che la stessa relazione di Cafiero affronta, sulle quali ora non mi soffermo. Inoltre al Congresso di Amsterdam del 1907, congresso che rappresentò la ripresa organizzativa del movimento anarchico specifico in Europa, dopo gli anni bui della repressione degli internazionalisti e delle azioni individuali da parte degli anarchici, gli organizzatori e con loro fortemente il nostro Malatesta, in polemica con i sindacalisti rivoluzionari soprattutto francesi, sono propugnatori del dualismo organizzativo proprio rispetto all'erronea convinzione della ineluttabilità del processo rivoluzionario in senso anarchico e comunista delle organizzazioni operaie. Favorevoli certamente alla presenza degli anarchici nei sindacati operai, ma convinti della altrettanta necessità di esserci come anarchici in quanto portatori di un progetto politico, niente affatto spontaneo e ineluttabile, che orienti le masse, rivendicando la necessità di una organizzazione specifica necessaria alla propaganda dichiaratamente comunista ed anarchica. Ciò vale per Luigi Fabbri, uno dei pochi militanti anarchici che ha sempre mantenuto un'alta capacità di orientamento e di elaborazione, forse maggiore dello stesso Malatesta. Usare Fabbri del 1935 per revisionare il Fabbri del 1921 appare quindi una operazione dubbia. Non vediamo, per dirla con Adamo, nessuno scontro "fra cuore e cervello" da parte di Fabbri tra le argomentazioni dei primi anni '20 e l'argomentare dello scritto del 1935 sulla libera sperimentazione.
Non vi è la minima traccia di revisionismo in senso anticomunista, nè tanto meno verso un ethos liberale aclassista o antimaterialista a cui Adamo ama richiamarsi, ma la riconferma di elaborazioni sufficientemente rigorose e ponderate a partire dagli albori dell'anarchismo organizzatore, a cui Fabbri è sempre stato legato, fino ai primi anni '20 ed in particolare sul suo testo maggiore Dittatura e Rivoluzione.
La libera sperimentazione di cui parla Fabbri è la convinzione che, dopo la rivoluzione vittoriosa quando le organizzazioni del movimento operaio e le sue avanguardie spezzeranno con l'atto rivoluzionario "le leggi del determinismo economico", (1) si potrà e si dovrà, nella fase di transizione ad una società finalmente senza classi e senza sfruttatori, sperimentare diversi modelli economici e sociali e che "per sottrarre il compito dell'espropriazione dall'arbitrio individuale o di gruppi privati, non c'è affatto bisogno di gendarmi, non c'è affatto bisogno di cadere dalla padella nella brace della tutela statale: non c'è bisogno del governo. Il proletariato ha già, località per località, dovunque ed in stretto rapporto le une con le altre una quantità di istituzioni proprie libere, indipendenti dallo stato... altri organismi collettivi si formeranno durante la rivoluzione, più in armonia coi bisogni del momento".(2)
Del resto il testo di Fabbri del 1935 termina con una esplicita riconferma di questa impostazione proponendo questa visione pluralista e antistatalista rispetto alla futura struttura economica nella fase di transizione: "La situazione di libertà creata dalla rivoluzione" dice; siamo quindi dopo lo scontro, questo si inevitabile, con la borghesia, "permetterà anche ai seguaci del comunismo anarchico... di iniziare da parte loro il proprio esperimento". Questo esperimeno non potrà che generalizzarsi non certo con l'uso dello stato e delle leggi, ma solo "quando al confronto con gli altri esperimenti avrà guadagnato l'adesione generale".
Luigi Fabbri non può essere annoverato in quel filone di revisionismo liberale ed aclassista che fa diventare l'anarchismo una opzione etica individuale, un modo di vivere e non più una dottrina sociale atta alla comprensione ed alla trasformazione della realtà. Adamo aveva ed ha dalla sua molti altri pensatori e altre scuole di pensiero. Questa tradizione ha avuto momenti di forte sviluppo in Italia nel secondo dopoguerra e tutt'ora negli Stati Uniti ha molti adepti. Revisionare, quindi, l'anarchismo può essere argomentazione legittima e salutare, ma occorre definire prima cosa è da revisionare. L'Anarchismo storico e militare, quindi le sue espressioni organizzate, i suoi atti deliberanti, le sue concrete sperimentazioni rivoluzionarie e non singoli pensatori, non nasce come ulteriore radicalizzazione di un'etica liberale o come spirazione individuale, in tal caso tutti siamo figli non solo del liberalismo, ma dell'illuminismo e ancor prima siamo debitori ai liberi pensatori ed in un cammino a ritroso alla rivolta di Spartaco fino a Platone e ancor più giù.
L'Anarchismo nasce come dottrina sociale di trasformazione in seno al movimento operaio ed alle sue organizzazioni d'avanguardia e si caratterizza per una forte convincimento solidaristico, comunista ed antiautoritario.
Le bandiere della libertà e dell'uguaglianza, che la borghesia con la Rivoluzione Francese aveva innalzato senza però risolvere il problema della questione sociale (ovvero dell'espropriazione dei mezzi di produzione e della contraddizione fra una produzione sempre più sociale ed una appropriazione individuale) vengono riprese dal nascente movimento operaio internazionale e dalle proprie organizzazioni, fra questi gli anarchici.
Una nuova rivoluzione appare necessaria a questi nuovi "schiavi salariati". La rivoluzione proletaria, necessariamente violenta, l'unica capace di affrancare dal gioco dello sfruttamento borghese la classe dei lavoratori e contemporaneamente l'intera umanità. E' da questo seppur brevissimo schema, ma di fondamentale acquisizione, che tutti i revisionismi, processi organizzativi, esperienze cosidette autogestionarie, strutture sindacali e politiche che all'anarchismo fanno riferimento dovrebbero definire il loro agire dell'oggi. Senza la prospettiva della rottura rivoluzionaria, senza identificare chi sono i soggetti reali destinati e protagonisti dell'atto rivoluzionario, qualsiasi "ismo" è destinato a diventare speculazione intellettuale o un modo di vita personale, seppur affascinante, ma lontano dell'anarchismo come dottrina sociale di emacipazione.

Cristiano Valente
(Livorno)

1. Dittatura e Rivoluzione, Luigi Fabbri Ediz. Antistato 1971
2. Anarchia e comunismo scientifico. Luigi Fabbri Ediz. Quaderni Studio O.C.L. N. 5 1988

 

Risponde Pietro Adamo

Una precisazione, due considerazioni e una conclusione. In generale, la mia impressione leggendo la lettera di Valente è che mi attribuisca posizioni non mie, forse influenzato dalla mia nota prospettiva "aclassista e antimaterialista". In primo luogo, non era mia intenzione - o forse mi sono spiegato male - contrapporre rigidamente un prima comunista a un dopo sperimentalista, con la Rivoluzione d'ottobre a fare da spartiacque. Il concetto di libera sperimentazione è presente nella dottrina anarchica sin dalle origini (penso a Proudhon, agli anarchici americani, a Ricardo Mella); in effetti io credo che la fede anarchica nelle virtù del pluralismo economico abbia matrici più antiche e su questo ho anche lavorato parecchio; ho anche scritto che "è il culmine di una tendenza minoritaria, ma affascinante, del pensiero occidentale". D'altro canto, mi sembra innegabile che solo dopo la rivoluzione bolscevica abbia assunto nelle speculazioni degli anarchici un ruolo centrale; fu il confronto con la Russia sovietica a spingere molti - non tutti, ovviamente - a insistere sul concetto come antidoto alla versione totalitaria del comunismo. In secondo luogo, non mi sembra di aver letto Fabbri come un "liberale"; anzi, ho insistito sulla sua fiducia costante nella soluzione comunista libertaria. Ciò che mi preme sottolineare è che vi è uno sviluppo nelle sue argomentazioni a partire grosso modo dal 1921, uno sviluppo che lo porta a concepire la soluzione comunista in modo nuovo. Per come interpreto la sua argomentazione in Libera sperimentazione, mi pare che il confronto tra i diversi modelli economici - un vero e proprio "mercato" dei modelli - dovrebbe condurre all'adozione di quelli giudicati più convenienti e utili. Fabbri auspica, spera, desidera, che il modello vincente - ammesso che ne emerga uno in particolare; non mi sembra che egli scarti l'ipotesi che ne rimangano in gioco diversi - sia quello comunista. Ma, e mi sembra anche qui innegabile che sia questo il succo dell'argomentazione, potrebbe anche non essere, e la "risultante" scelta sarebbe egualmente legittima, anche se non fosse il comunismo: "L'ultima parola", scrive Fabbri, "resterà all'esperienza. Come potrebbe essere diversamente?" È questa conclusione che lo distanzia dai dottrinari del comunismo. In quanto al commento iniziale di Valente sul comunismo "di stato" sovietico, trovo divertente che anarco-comunisti e anarco-capitalisti appaiano condividere in fondo la stessa prospettiva gnostico-millenaristica: per entrambi il regno della libertà finale - comunista o capitalista che sia - non è mai comparso nel corso della storia; è, nella sua perfezione assoluta, sempre di là a venire; le sue imperfezioni nel mondo reale sono sempre spiegabili con le contingenze storiche; le realizzazioni storiche - l'unico metro di giudizio concreto a disposizione di uomini mediamente razionali - sono sempre contaminate e mai eleggibili a modello di raffronto e valutazione.

Pietro Adamo

 

Una questione di jeans?

Vi ricordate di Rosa, quella ragazza di Potenza violentata dal suo istruttore di guida, poi assolto dalla Corte di Cassazione, perché la ragazza durante lo stupro indossava i jeans? Oggi, dopo la sentenza della corte d'appello di Napoli, che assolve di nuovo l'uomo, si torna a parlare del caso, anche se con un poco meno di clamore, rispetto a pochi mesi fa (del resto si sa, ormai gli stupri impuniti non fanno più notizia!)
Ancora una volta siamo costrette ad "ingoiare il rospo", ancora una volta ci tocca assistere all'assoluzione di uno stupratore e alla conseguente colpevolizzazione della vittima. Non c'è niente da fare: se indossi la minigonna è perché te la vai a cercare, se indossi i jeans è praticamente "impossibile che te li tolgano senza la tua fattiva collaborazione"; comunque sia alle donne non si crede. La corte d'appello di Napoli ha riconfermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, quale sia la reale considerazione per le donne in questa società, al di là dei proclami e delle belle parole che ci proponiamo da tutte le parti. La testimonianza della ragazza e le evidenti ecchimosi e lacerazioni vaginali non contano nulla. La definizione di cosa sia uno stupro o di quando si tratti di stupro è ad unica discrezione degli uomini: si tratti di supremi giudici, della Corte di Napoli o del cittadino comune.
Tutti gli anni di lotte spese innanzitutto ad affermare il diritto elementare all'inviolabilità del proprio corpo (e quindi il semplice diritto ad essere considerate persone a tutti gli effetti) evidentemente non hanno ancora fatto breccia nelle menti maschili, del resto basta ascoltare in che termini si esprimono molti uomini nei confronti delle donne... Ma anche il silenzio delle donne è preoccupante. Forse ci si illude di essere rappresentate da una manciata di parlamentari donne, i cui partiti, tra l'altro, non esitano a sostenere politiche contro la libertà e i diritti femminili (vedi per es. il diritto d'aborto). Ci si illude magari di avere raggiunto una sostanziale parità e quindi di essere tutelate dalle leggi (anche se la sentenza di Napoli dimostra il contrario). Oppure le donne si stanno adattando, di questi tempi, ad una normalità fatta di crociate oscurantiste contro i diritti femminili, di violenze quotidiane, di corpi in vendita ai bordi delle strade...
È facile farsi prendere dallo sconforto o da un senso di impotenza dopo una simile sentenza. Ma proprio su una questione così delicata come lo stupro, noi donne dovremmo riscoprire l'importanza della lotta condotta a livello individuale e collettivo. In fondo solo la solidarietà, l'azione concreta ed unita delle donne è stata, fino ad oggi l'unica reale garanzia di difesa dei propri inalienabili diritti.

Silvia S.
Carla T.
(Bergamo)

Contro la schiavitù

Carissimi,
dopo la tragica vicenda della guerra, stiamo riprendendo la nostra campagna contro la schiavitù in Italia.
Tra la fine di giugno ed i primi di luglio abbiamo ridiffuso alcuni materiali informativi e propositivi che avevamo prodotto e fatto circolare lo scorso anno.

1. I termini essenziali della campagna contro la schiavitù in Italia
Ricorderete che i termini essenziali dell'iniziativa sono i seguenti: l'abominevole pratica della schiavitù è ovviamente illegale in Italia (cfr. gli articoli 600, 601, 602 del Codice Penale) ma, come dimostrano le cronache, è evidentemente tutt'ora diffusamente presente nel nostro paese, e di essa sono vittima particolarmente uomini, donne e bambini immigrati. Noi proponiamo un piano globale di lotta contro la schiavitù e chiediamo un preciso impegno del governo, del Parlamento e degli enti locali. Fulcro dell'iniziativa la richiesta di un intervento sia amministrativo che legislativo che, attraverso il combinato disposto di normative già in vigore (valorizzando in particolare l'art. 16 della recente legge 40/98 sull'immigrazione) e la loro eventuale integrazione in uno specifico indirizzo di intervento che potrebbe altresì concretizzarsi in una legge ad hoc, preveda in primo luogo un'azione efficace per la liberazione delle persone attualmente in condizioni di schiavitù in Italia, garantendo loro - a titolo di risarcimento per le violenze subite nel nostro paese - il diritto di permanenza legale nel nostro paese qualora lo desiderino, un'adeguata protezione rispetto al pericolo di rappresaglie da parte delle organizzazioni criminali schiaviste, il pieno riconoscimento di diritti civili, assistenza sociale ed un sostegno economico sufficiente per vivere e protratto nel tempo, aiuto nella ricerca
di un lavoro legale. Sottolineiamo che particolarmente nel caso delle persone in condizioni di schiavitù oggetto di sfruttamento sessuale, una iniziativa da parte delle istituzioni democratiche sarebbe immediatamente praticabile ed efficace. Gli enti locali potrebbero intervenire efficacemente fin d'ora con programmi di riduzione del danno e di percorsi assistiti di liberazione, valorizzando ed estendendo esperienze già in corso da parte sia di esperienze di volontariato sia di servizi sociali di enti pubblici.

2. Alcuni recenti libri utili
Recentemente sono stati pubblicati alcuni utili libri, tra cui vi segnaliamo particolarmente:
o Pino Arlacchi, Schiavi, Rizzoli, Milano 1999;
o Oreste Benzi, Una nuova schiavitù, Paoline, Milano 1999;
o Alessandro Dal Lago, Non-persone, Feltrinelli, Milano 1999.

3. Un semplice ragionamento
Vi vorremmo proporre questo ragionamento: il solo don Oreste Benzi con l'esperienza della "Comunità Papa Giovanni XXIII" ha liberato circa 1.200 ragazze straniere dal racket della prostituzione in Italia; ordunque, poiché le immigrate tenute in condizioni di schiavitù a fini di sfruttamento come oggetti sessuali in Italia sono circa 26.000 secondo stime attendibili, è evidente che basterebbe che 20-25 esperienze pubbliche o associative intervenissero con efficacia analoga a quella dispiegata da don Benzi, per liberare tutte le persone che subiscono questa specifica condizione di schiavitù, e per dare un duro colpo ai poteri criminali che questo mercato schiavista gestiscono.

4. Altri interventi necessari
Naturalmente questo non basterebbe: occorrono anche altri interventi di carattere sia contingente che strutturale:
4.1. occorre colpire il mercato schiavista sul versante della domanda di schiavitù, ovvero colpire i cosiddetti "clienti": ed a tal fine servono interventi sia educativi e di sensibilizzazione, sia anche e soprattutto repressivi. Non è ammissibile che si tolleri che qualcuno fruisca di beni prodotti e di servizi resi da esseri umani in condizioni di schiavitù, tale "cliente" deve essere considerato pienamente complice dello schiavista e compartecipe degli "utili" della schiavitù, ed in quanto tale punito;
4.2. occorre colpire i poteri criminali che traggono enormi profitti dalla schiavitù: la specifica fattispecie di reato è prevista e punita dal Codice Penale, si tratta di intervenire con decisione;
4.3. occorre colpire tutte le complicità che in vario modo favoreggiano la schiavitù, e tali complicità sono molte:
- delle istituzioni che la schiavitù permettono e che sovente intervengono contro le vittime invece che contro gli schiavisti (sfruttatori e clienti);
- dei mass-media e degli apparati ideologici che sostengono tale pratica presentandola come normale, ovvia, socialmente accettabile;
- dei poteri e meccanismi economici locali ed internazionali che producendo povertà e disperazione, fondandosi su logiche e dispositivi di sfruttamento disumani e su finalità di profitto che per realizzarsi costitutivamente reificano e annientano gli esseri umani, con ciò favoriscono, propugnano e impongono pervasivamente la schiavitù come forma di relazione economica e sociale prediletta ai fini della massimizzazione del profitto.

5. Una strategia integrata
Contro la schiavitù occorre una strategia integrata; si tratta di lavorare a più livelli e coinvolgendo in un'azione convergente e coordinata più soggetti:
5.1. interventi con unità di strada per prestare soccorso materiale immediato alle vittime ed offrire loro relazioni umane significative e prospettare autentiche e persuasive possibilità di alternative reali;
5.2. interventi per sottrarre le vittime ai loro aguzzini;
5.3. azione delle forze dell'ordine e della magistratura per liberare le vittime, e per perseguire e condannare schiavisti e complici;
5.4. azione degli enti locali e dei servizi sociali per realizzare interventi ed alternative;
5.5. produzione di un nuovo quadro normativo efficace contro la schiavitù, con interventi legislativi ed amministrativi specifici, espliciti, coordinati e coerenti;
5.6. mobilitazione della società civile, delle esperienze di solidarietà e di volontariato, delle reti sociali della welfare community oltre che delle agenzie del welfare state e del cosiddetto terzo settore;
5.7. mobilitazione dei mass-media democratici e dell'intellettualità per una adeguata e ragionata sensibilizzazione e mobilitazione dell'opinione pubblica contro la schiavitù e di aiuto alle vittime;
5.8. promozione di un piano nazionale di lotta contro la schiavitù promosso dal Parlamento ed adeguatamente finanziato dallo Stato con l'obiettivo di cancellare la schiavitù in Italia entro il Duemila. (...)

8. Un invito
Ecco perché vi chiediamo di voler contribuire a questa riflessione ed a questo impegno.
Contiamo sul vostro impegno: la schiavitù oggi presente in italia, di cui sono vittima decine di migliaia di uomini, donne e bambini, particolarmente immigrati, può e deve essere sconfitta.
Chiunque può, chiunque deve fare qualcosa.

Peppe Sini
(Viterbo)

Responsabile del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo promotore della "campagna contro la schiavitù in Italia", str. S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax 0761/353532

 

Riflessioni sull'antimilitarismo

L'articolo di Mauro Zanoni sull'ultimo numero di "A" ha la capacità di sollevare una questione non di secondaria importanza: quella dell'antimilitarismo nel III millennio. Problema che si pone per ovvi motivi di attualità: l'economia e la politica nell'ultimo decennio hanno preso ad essere guidate sempre più dalla logica del manu militari, strumento utilizzato non solo per sanare le controversie fra stati o blocchi economici, ma per conquistare mercati e crearne di nuovi.
Dall'Est europeo, dissoluzione dell'impero sovietico e della federazione yugoslava, all'Africa, in Somalia, Ruanda, Burundi, Senegal, ecc., all'Asia, Timor, Pakistan e Corea, nuovi focolai di tensioni e guerre mietono vittime e producono distruzioni, imperversando in queste aree con una ferocia tale da rivelare che per milioni di uomini su questo pianeta la guerra è una tragica realtà quotidiana. Lo scenario è quello, ormai affermato, di una guerra coloniale globale dove gli imperi finanziari si affrontano nella conquista di territori sempre più vasti, per accaparrarsi risorse e uomini da sacrificare sull'altare della logica del profitto, del pensiero unico imperante: il neoliberismo.
La macchina militare subisce un'evoluzione notevole rispetto all'impiego classico, quello della forza bruta, conosciuto fino ad oggi, trasformandosi essa stessa in strumento/oggetto del mercato cui è asservita. Gli assassini in divisa diventano quindi una "mano d'opera" da vendere o affittare, mercenari che mentre massacrano si fanno pubblicità, pronti ad offrirsi, non più solo come singoli "professionisti della morte", ma in pacchetti di compagnie, battaglioni e divisioni intere. E' il caso dei due battaglioni Gurka che il Nepal affitta sistematicamente alla corona inglese per ogni evenienza, impiegati ora nelle Falkland ora a Timor Est. E' il caso delle tante missioni "umanitarie", enormi vetrine a cielo aperto dove le capacità militari vengono messe in mostra e sperimentate meglio che in una qualsiasi artefatta esercitazione militare.
La tecnologia militare dal canto suo, dalle armi, alle divise, ad ogni elemento della logistica e della guerra, rappresenta di per sè un enorme mercato di progettazione, sperimentazione e vendita. Le bombe cadute su Belgrado e la Yugoslavia in quest'ultimo anno di guerra sono il frutto, oltrechè della classica strategia militare del terrorismo di massa, di una ben precisa ottica economica che ha voluto liberarsi del parco bombe americane, obsolete ed ammortizzate nei vari bilanci del Pentagono da tempo, facendone poi pagare il prezzo, a tutti i soggetti coinvolti nella spedizione militare pro-Kosovo o anti-Yugoslavia.
Il costo di questa vera e propria operazione commerciale sarà coperto poi, a favore dei "vincitori", in termini di commesse internazionali ed appalti per favorire la ricostruzione delle zone distrutte, o in termini di ridimensionamento ed assoggetamento politico ed economico della regione bombardate; terreno di confronto/scontro economico fra la UE e gli USA, fra dollaro ed euro.
La premessa fatta, nella sua schematicità, ci serve comunque per capire che il militarismo è qualcosa di complesso e diversificato, e non certo rapportabile solo alla questione della coscrizione obbligatoria. Semmai questa ha rappresentato un elemento storico del passato su cui, in periodi particolari, è stato fatto leva da un lato per irrigimentare le masse ed uniformarle ai dettami politici ed economici della società imperante, mentre dall'altro, per contro, è servita alle volte per poter agitare la protesta antimilitarista. Nei paesi anglosassoni, USA e GB, alle porte dei due conflitti mondiali, l'entrata in uso della coscrizione obbligatoria alimentò numerose proteste e lotte. In molti paesi coloniali dell'impero francese ed inglese la protesta contro l'arruolamento di massa negli eserciti coloniali fece radicare ulteriormente i germi della rivolta anti-coloniale che, dopo qualche tempo, sarebbe esplosa.
L'abolizione della leva lascia comunque intatta tutta una serie di problemi legati alle politiche guerrafondaie: le servitù militari, ettari ed ettari di territorio assoggettati alle leggi militari per farne delle basi aeree, depositi nucleari, campi di raccolta, le fabbriche di armi, le commesse militari, gli stanziamenti pubblici per lo sviluppo di interessi industriali privati nel settore.
Inoltre in futuro, la questione della leva obbligatoria sarà sostituita da un'altra più complessa e problematica: il costo di un esercito professionale. Fatto che peserà sul piano economico, per ovvie ragioni: stipendio dei professionisti della guerra, acquisto di armi e tecnologie nuove, e loro mantenimeto. Fatto che peserà anche sul piano politico e sociale. Nel primo caso in quanto un esercito professionale implica automaticamente la formazione di una corporazione che vorrà sempre più, dal generale al soldato "contare" e far sentire la sua voce nelle stanze del potere (il Pentagono insegna), potenziando enormemente quello stato nello stato che già da tempo sono le forze armate. Nel secondo caso, la carriera militare sarà vista sempre più come un'alternativa alla disoccupazione ed una scorciatoia per futuri impieghi "civili". Come già succede in alcune professioni con gli ex-carabienieri ed ex-poliziotti, ci ritroveremo sicuramente in futuro a lavorare con tecnici ex-militari, portatori della loro visione gerarchica della vita.
Una prospettiva futura non molto rosea, anzi grigio-verde, cui in contrapposizione sarà necessario ridefinire la valenza stessa dell'antimilitarismo in un'ottica strategica composita, dove l'abolizione della leva non mette certo in discussione le lotte antimilitariste, ma diventa la prerogativa analitica per il rinnovarsi di una strategia che fuoriesca dagli schemi ideologici del passato, che veda nella giusta ottica l'antimilitarismo: non come elemento a se stante, ma come prodotto di un radicamento delle lotte di massa sul territorio.
Non è un caso che ogni volta che l'antimilitarismo ha acceso la scintilla della rivolta, questa era già un fuoco che covava sotto le ceneri di movimenti di massa. La corazzata "Potemkin" sarebbe stato un semplice atto di ammutinamento se non fosse stato il prodotto di una coscienza di classe rivoluzionaria radicata da tempo nelle masse diseredate della Russia zarista. Al pari il gesto del ribelle Masetti, sarebbe stato solo quello di un folle esasperato, o di un refrattario sognatore, se invece non si fosse legato ad un ambito sociale e politico dove la guerra di Libia veniva contestata dalla base del movimento operaio italiano d'inizio secolo.
Più vicino ai giorni nostri, l'esperienza dei P.I.D., il movimento dei proletari in divisa, negli anni '70, non era figlio solo della protesta antimilitarista contro gerarchie militari che, nelle caserme italiane si erano fermate ai tempi del ventennio, ma derivava anche e soprattutto dall'ondata di rivolta di classe che riempiva le piazze, le scuole e le fabbriche, ed anche le caserme, in quegli anni.
Ma forse l'esempio più chiarificante in merito può essere quello di analizzare il recente movimento contro la guerra in Kosovo che, nella primavera scorsa, come durante la guerra del Golfo, si è attivato.
Per quasi tre mesi le piazze d'Italia si sono riempite a più riprese di manifestazioni contro la guerra. Non c'è stato un fine settimana in cui non fosse stata organizzata una "gitarella" davanti a qualche base militare. Tutto il fronte antiguerra, dal pacifismo cattolico all'antimilitarismo anarchico, passando per le strumentalizzazioni di ogni sorta di leniniana memoria, ha dato battaglia per settimane in mezzo ad una opinione pubblica anestetizzata dai media di regime, con forze molto limitate, ma frutto di militanti che, in un modo o nell'altro in questi decenni bui, hanno cercato di sviluppare un movimento di massa contro la disoccupazione, l'inquinamento, le lobby politiche ed economiche.
Purtroppo il fronte anti-guerra si è scontrato contro una realtà dove praticamente, al di là di ogni singola aspettativa o speranza ideologica, sono praticamente assenti veri e propri movimenti di massa, radicali, incisivi, di classe, che non siano il frutto di alchimie politiche o strumentalizzazioni di sorta che usa le piazze per i propri giochi di poltrona.
Forse il vero problema dell'antimilitarismo è questo: l'assenza di un qualche movimento di massa nel tessuto della società italiana ed occidentale. Vedere che militanti e simpatizzanti di ogni sorta questa primavera si sono ritrovati insieme, in piazza senza che però ad essi vi si sia unito qualcuno che era "fuori dal giro", ci ha fatto scoprire che il resto delle masse ormai non si eccita più di fronte a parole d'ordine ormai vecchie ed abusate (grazie alle sceneggiate della sinistra storica), e che in fondo considera una guerra tale, solo quando entra dentro la loro casa.
Cosa riproporre oggi per una strategia antimilitarista che vada oltre lo scendere emotivamente in piazza non è facile dirlo. Anche la chiusura delle basi e delle fabbriche di morte non sono che singoli obbiettivi contigenti, facilmente recuperabili dalle gerarchie statali. Una base militare di professionisti della morte non necessariamente sta qui, nel nostro primo mondo, sotto casa, a disturbarci la vista. La legione straniera alloggia esclusivamente in basi disperse nel cosiddetto terzo mondo. E le fabbriche militari, come quelle di scarpe o di auto, si possono facilmente spostare in luoghi dove la mano d'opera costa dieci volte di meno. Non sarà improbabile trovarsi di fronte, in futuro, a cortei che chiedono il mantenimento di una fabbrica di morte in nome dell'occupazione. L'Enichem di Porto Maghera ne può essere, sul fronte dell'inquinamento, un triste esempio.
Non basterà quindi all'antimilitarismo in futuro giocare a tutto campo smascherando gli interessi bancari e l'educazione colonialista fatta nelle scuole, opporsi ad ogni partecipazione militare a missioni di pace all'estero, e a qualsiasi nuovo finanziamento per la macchina bellica, e smascherare la falsa attrattiva occupazionale della carriera militare.
Esso dovrà certamente continuare ad essere uno degli elementi specifici di un progetto più ampio di cambiamento radicale della società, l'anarchismo, ma dovrà anche essere l'espressione di una presa di coscienza collettiva, più che di un sofferto rifiuto individuale, legandosi ad una strategia di lotta ampia che attraverso le questioni del mondo del lavoro, dell'ambiente, delle libertà e dei diritti sociali, fa dei diseredati un soggetto sociale pensante ed agente. E forse, più che l'abolizione della leva militare, è l'assenza di un qualche movimento di massa, di classe, antagonista e di base, che oggi rappresenta il limite maggiore ad una efficace azione antimilitarista contro ogni tipo di guerra e di gerarchia militare. Ma questo è un altro problema. O forse è il problema.

Giordano Cotichelli
(Jesi)

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni. Enrico Ardenghi (Monza), 20.000; Laura Fossetti (Montemagno di Calci), 50.000; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Gianni Furlotti e Alfonso Failla, 1.000.000; Alessandro Milazzo (Linguaglossa), 150.000; Alfredo Gagliardi (Ferrara) a ringraziamento del buon esito di un'operazione di ernia inguinale, 500.000; Antonio Gei (Piovene Rocchette), 20.000; Salvo Pappalardo (Acireale), 20.000; Lucio Brunetti (Campobasso), 10.000.
Totale lire 1.770.000.

Abbonamenti sostenitori. Cesare Vurchio (Milano), 200.000; Paolo Santorum (Arco), 150.000; Paolo Zonzini (Cailungo - Repubblica San Marino), 200.000.
Totale lire 550.000.