Chiedo scusa ai lettori. I tempi e le
vicende della periodicità di questa rivista mi hanno
impedito, il mese scorso, di farli partecipi a botta calda di
quanto pensavo dell'assoluzione del senatore Andreotti. Mi permetterò
di farlo adesso, nella speranza che, in quanto lettori di "A",
non siano, come la maggior parte degli altri fruitori dell'informazione,
schiavi del mito dell'attualità a ogni costo e non abbiano
- quindi - già provveduto ad archiviare l'episodio nell'oblio,
seguendo, d'altronde, esempi illustri e attenendosi a modelli
di grande prestigio .
Tra l'altro, il ritardo, per imbarazzante che sia, presenta
qualche vantaggio. Una pausa di riflessione, sia pure forzosa,
può permettere di evitare le banalità che subito
dopo la sentenza commentatori ben più importanti di me,
e protagonisti assortiti di quello che, evidentemente, non sarà
il Processo del Secolo, non hanno negato a nessuno. Perché
ammetterete che faceva una certa impressione leggere che gli
inquirenti della Procura di Palermo avevano solennemente dichiarato
di aver fatto "soltanto il loro dovere", come se,
putacaso, avessero potuto ammettere di aver fatto qualcosa d'altro;
o apprendere che il Ministro di Grazia e Giustizia si era impegnato
a difendere, sempre e comunque, l'indipendenza dei magistrati
(e sarebbe stato curioso se si fosse impegnato a fare il contrario)
e che il Presidente della Repubblica, guarda un po', invitava
a rispettare la magistratura. Non potevano far altro, poveracci,
ma è abbastanza noto che quando una proposizione è,
per così dire, obbligatoria, nel senso che non è
in alcun modo pensabile che chi l'afferma possa sostenere il
contrario, tanto vale che l'affermatore, quale che sia la sua
posizione pubblica, tenga la bocca chiusa.
Classe
politica ignobile
Tuttavia, l'ovvio è il banale non coincidono sempre.
Né, nello specifico, tante banalità sono state
completamente inutili. Di fatto hanno avuto l'effetto, almeno
parziale, di far passare in secondo piano un'ovvietà
ben nota a tutti i cultori delle storie di Perry Mason, in versione
tanto letteraria quanto televisiva: quella per cui, in qualsiasi
processo serio, la vittoria di una delle due parti significa
la sconfitta dell'altra. Anche se in Italia, diversamente che
nella patria dell'Avvocato del Diavolo, l'accusa è sostenuta
da una branca della magistratura e quindi non è mai esattamente
sullo stesso piano della difesa, accusa e difesa restano comunque
in contraddizione tra loro e la ragione dell'una significa il
torto dell'altra. Tertium, in questo caso più che mai,
non datur. E visto che l'assoluzione di Andreotti, della quale,
personalmente, mi rallegro, perché credo sia giusto rallegrarsi
di ogni assoluzione, ha avuto comunque un certo numero di conseguenze
assai negative, come un'estensione indebita a livello politico
generale, con la conseguente riabilitazione di un partito le
cui nefandezze non vanno dimenticate e di una classe politica
assolutamente ignobile, compresi quei suoi membri che dai tribunali
di fronte a cui sono stati trascinati non sono stati assolti,
ma condannati almeno due volte con sentenza definitiva, mi sembra
abbastanza corretto attribuire questi sgradevoli esiti proprio
al torto di chi questo processo ha voluto, gestito e perso.
In altre parole, se dobbiamo credere, come ci chiedono Ciampi
e Diliberto, all'indipendenza della magistratura (di tutta la
magistratura, compreso il ramo giudicante) e rispettare le sue
sentenze, dobbiamo anche concludere che quella riabilitazione
della DC e del craxismo che tanti loschi figuri ci hanno in
quei giorni proposto, è una tragica conseguenza - non
importa se più o meno prevista - delle improvvide iniziative
degli inquirenti di Palermo.
In fondo, che il processo ad Andreotti si fondasse su ben poco
(in pratica sulle dichiarazioni dei soliti pentiti e stop) e
che i suoi esiti non avrebbero potuto portare ad altro che a
un tentativo di rilegittimazione democristiana, non era una
cosa tanto difficile da prevedere. Persino io, che in fatto
di processi non ne azzecco mai una, l'avevo scritto in tempi
e sede non sospetti, sul n. 222 di questa rivista, nel novembre
del '95. Sicché può valere davvero la pena di
chiedersi perché mai Caselli e i suoi collaboratori si
siano accinti, con tanto poco in mano, a un'impresa così
disastrosa. Sì, d'accordo, avevano un forte senso del
dovere, oltre che una certa tendenza al protagonismo, ma il
senso del dovere, in Sicilia o altrove, non ha mai comportato
l'obbligo dell'autolesionismo.
Non essendo costituzionalmente in grado di entrare nel cervello
di un Procuratore della Repubblica, non mi azzarderò
certo a rispondere a questa domanda. Ma non posso nascondervi
di avere un sospetto. Quello che gli inquirenti di Palermo abbiano
fatto un po' troppo conto degli scarsi elementi che avevano
in mano perché elementi ancora più scarsi si erano
rivelati, in passato, perfettamente funzionali al fine che si
prefiggevano. Che, in altre parole, si siano lasciati accecare
da quell'atteggiamento pericoloso che la tragedia greca definiva
con il poetico nome di hybris e che noi potremmo considerare,
più banalmente, un eccesso di sicurezza. Visto che ricorrendo
sistematicamente alle delazioni pilotate dei meno raccomandabili
tra i pentiti e non ad altro avevano colto, nella loro carriera,
tanti folgoranti successi, con il gratificante risultato di
mandare in galera una quantità di persone (e non soltanto
mafiosi, perché il pentitismo non è stato inventato
contro la mafia, ma contro la devianza politica), si erano convinti
di riuscire a far condannare Andreotti con un paio di pentiti
e poco più. Non si erano resi conto che una cosa è
incastrare qualche presunto terrorista o togliere di mezzo dei
delinquenti riconosciuti e un poco usurati e un'altra è
mandare all'Ucciardone un uomo di potere al centro di una rete
fittissima di rapporti politici ad alto livello, un uomo, per
di più, che ha sempre goduto dell'amicizia personale
del papa e dell'appoggio unanime della chiesa e che, nei lunghi
mesi del processo, oltre a farsi graziosamente corteggiare dall'opposizione,
non ha mai smesso di essere parte attiva e autorevole della
maggioranza di governo. Tutti sono uguali di fronte alla legge,
ma qualcuno - si sa - è sempre più eguale degli
altri. Contro gli sconfitti si può calcare un poco la
mano, anche se non si dovrebbe, ma evidentemente il senatore
Andreotti era meno sconfitto di quanto si pensasse qualche anno
fa.
Al
loro posto
Con che termini, poi, si possa definire questa tipica forma
di megalomania egoriferita, è cosa che conta assai meno.
Chiamatela arroganza, se volete, o senso del dovere, se preferite.
I risultati, tanto, sono gli stessi. In ogni caso, vedrete che
al prossimo processo basato su un pentito e rivolto contro qualcuno
che non sia Andreotti (che so, il processo di revisione a Sofri
& C.) le cose torneranno al loro posto, con una bella, esemplare
condanna che riporterà la serenità nell'animo
di tutti i giustizialisti di lungo corso, con la sola eccezione,
forse, di quelli che hanno militato a suo tempo in Lotta Continua
e dei cronisti giudiziari di Radio Popolare, ma queste - si
sa - sono contraddizioni loro. Certo, se invece di blaterare
tanto pro e contro, qualcuno tra i nostri beneamati governanti
si rendesse conto che è ora di occuparsi seriamente del
riequilibrio del processo penale, sarebbe una gran bella cosa.
Ma non speriamoci troppo.
Carlo Oliva
“È
ora di occuparsi
seriamente del
riequilibrio del processo
penale.”
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