rivista anarchica
anno 29 n.259
dicembre 1999 - gennaio 2000


Banalità ad alto livello
di Carlo Oliva

Tutti sono uguali di fronte alla legge, ma qualcuno - si sa - è sempre più eguale di altri.

 

Illustrazione di Natale Galli
Illustrazione di Natale Galli

 

Chiedo scusa ai lettori. I tempi e le vicende della periodicità di questa rivista mi hanno impedito, il mese scorso, di farli partecipi a botta calda di quanto pensavo dell'assoluzione del senatore Andreotti. Mi permetterò di farlo adesso, nella speranza che, in quanto lettori di "A", non siano, come la maggior parte degli altri fruitori dell'informazione, schiavi del mito dell'attualità a ogni costo e non abbiano - quindi - già provveduto ad archiviare l'episodio nell'oblio, seguendo, d'altronde, esempi illustri e attenendosi a modelli di grande prestigio .
Tra l'altro, il ritardo, per imbarazzante che sia, presenta qualche vantaggio. Una pausa di riflessione, sia pure forzosa, può permettere di evitare le banalità che subito dopo la sentenza commentatori ben più importanti di me, e protagonisti assortiti di quello che, evidentemente, non sarà il Processo del Secolo, non hanno negato a nessuno. Perché ammetterete che faceva una certa impressione leggere che gli inquirenti della Procura di Palermo avevano solennemente dichiarato di aver fatto "soltanto il loro dovere", come se, putacaso, avessero potuto ammettere di aver fatto qualcosa d'altro; o apprendere che il Ministro di Grazia e Giustizia si era impegnato a difendere, sempre e comunque, l'indipendenza dei magistrati (e sarebbe stato curioso se si fosse impegnato a fare il contrario) e che il Presidente della Repubblica, guarda un po', invitava a rispettare la magistratura. Non potevano far altro, poveracci, ma è abbastanza noto che quando una proposizione è, per così dire, obbligatoria, nel senso che non è in alcun modo pensabile che chi l'afferma possa sostenere il contrario, tanto vale che l'affermatore, quale che sia la sua posizione pubblica, tenga la bocca chiusa.

 

Classe politica ignobile

Tuttavia, l'ovvio è il banale non coincidono sempre. Né, nello specifico, tante banalità sono state completamente inutili. Di fatto hanno avuto l'effetto, almeno parziale, di far passare in secondo piano un'ovvietà ben nota a tutti i cultori delle storie di Perry Mason, in versione tanto letteraria quanto televisiva: quella per cui, in qualsiasi processo serio, la vittoria di una delle due parti significa la sconfitta dell'altra. Anche se in Italia, diversamente che nella patria dell'Avvocato del Diavolo, l'accusa è sostenuta da una branca della magistratura e quindi non è mai esattamente sullo stesso piano della difesa, accusa e difesa restano comunque in contraddizione tra loro e la ragione dell'una significa il torto dell'altra. Tertium, in questo caso più che mai, non datur. E visto che l'assoluzione di Andreotti, della quale, personalmente, mi rallegro, perché credo sia giusto rallegrarsi di ogni assoluzione, ha avuto comunque un certo numero di conseguenze assai negative, come un'estensione indebita a livello politico generale, con la conseguente riabilitazione di un partito le cui nefandezze non vanno dimenticate e di una classe politica assolutamente ignobile, compresi quei suoi membri che dai tribunali di fronte a cui sono stati trascinati non sono stati assolti, ma condannati almeno due volte con sentenza definitiva, mi sembra abbastanza corretto attribuire questi sgradevoli esiti proprio al torto di chi questo processo ha voluto, gestito e perso.
In altre parole, se dobbiamo credere, come ci chiedono Ciampi e Diliberto, all'indipendenza della magistratura (di tutta la magistratura, compreso il ramo giudicante) e rispettare le sue sentenze, dobbiamo anche concludere che quella riabilitazione della DC e del craxismo che tanti loschi figuri ci hanno in quei giorni proposto, è una tragica conseguenza - non importa se più o meno prevista - delle improvvide iniziative degli inquirenti di Palermo.
In fondo, che il processo ad Andreotti si fondasse su ben poco (in pratica sulle dichiarazioni dei soliti pentiti e stop) e che i suoi esiti non avrebbero potuto portare ad altro che a un tentativo di rilegittimazione democristiana, non era una cosa tanto difficile da prevedere. Persino io, che in fatto di processi non ne azzecco mai una, l'avevo scritto in tempi e sede non sospetti, sul n. 222 di questa rivista, nel novembre del '95. Sicché può valere davvero la pena di chiedersi perché mai Caselli e i suoi collaboratori si siano accinti, con tanto poco in mano, a un'impresa così disastrosa. Sì, d'accordo, avevano un forte senso del dovere, oltre che una certa tendenza al protagonismo, ma il senso del dovere, in Sicilia o altrove, non ha mai comportato l'obbligo dell'autolesionismo.
Non essendo costituzionalmente in grado di entrare nel cervello di un Procuratore della Repubblica, non mi azzarderò certo a rispondere a questa domanda. Ma non posso nascondervi di avere un sospetto. Quello che gli inquirenti di Palermo abbiano fatto un po' troppo conto degli scarsi elementi che avevano in mano perché elementi ancora più scarsi si erano rivelati, in passato, perfettamente funzionali al fine che si prefiggevano. Che, in altre parole, si siano lasciati accecare da quell'atteggiamento pericoloso che la tragedia greca definiva con il poetico nome di hybris e che noi potremmo considerare, più banalmente, un eccesso di sicurezza. Visto che ricorrendo sistematicamente alle delazioni pilotate dei meno raccomandabili tra i pentiti e non ad altro avevano colto, nella loro carriera, tanti folgoranti successi, con il gratificante risultato di mandare in galera una quantità di persone (e non soltanto mafiosi, perché il pentitismo non è stato inventato contro la mafia, ma contro la devianza politica), si erano convinti di riuscire a far condannare Andreotti con un paio di pentiti e poco più. Non si erano resi conto che una cosa è incastrare qualche presunto terrorista o togliere di mezzo dei delinquenti riconosciuti e un poco usurati e un'altra è mandare all'Ucciardone un uomo di potere al centro di una rete fittissima di rapporti politici ad alto livello, un uomo, per di più, che ha sempre goduto dell'amicizia personale del papa e dell'appoggio unanime della chiesa e che, nei lunghi mesi del processo, oltre a farsi graziosamente corteggiare dall'opposizione, non ha mai smesso di essere parte attiva e autorevole della maggioranza di governo. Tutti sono uguali di fronte alla legge, ma qualcuno - si sa - è sempre più eguale degli altri. Contro gli sconfitti si può calcare un poco la mano, anche se non si dovrebbe, ma evidentemente il senatore Andreotti era meno sconfitto di quanto si pensasse qualche anno fa.

 

Al loro posto

Con che termini, poi, si possa definire questa tipica forma di megalomania egoriferita, è cosa che conta assai meno. Chiamatela arroganza, se volete, o senso del dovere, se preferite. I risultati, tanto, sono gli stessi. In ogni caso, vedrete che al prossimo processo basato su un pentito e rivolto contro qualcuno che non sia Andreotti (che so, il processo di revisione a Sofri & C.) le cose torneranno al loro posto, con una bella, esemplare condanna che riporterà la serenità nell'animo di tutti i giustizialisti di lungo corso, con la sola eccezione, forse, di quelli che hanno militato a suo tempo in Lotta Continua e dei cronisti giudiziari di Radio Popolare, ma queste - si sa - sono contraddizioni loro. Certo, se invece di blaterare tanto pro e contro, qualcuno tra i nostri beneamati governanti si rendesse conto che è ora di occuparsi seriamente del riequilibrio del processo penale, sarebbe una gran bella cosa. Ma non speriamoci troppo.

Carlo Oliva

 

“È ora di occuparsi
seriamente del
riequilibrio del processo
penale.”