L’attuale modello produttivo concentra
la produzione agricola in pochi soggetti ed in ambiti geografici
limitati.
Gli operatori che gestiscono la produzione agricola hanno un
esclusivo interesse nell’aumento del profitto
Per ottenere questo risultato i produttori:
1. aumentano le quantità di produzione per ettaro, aumentando
l’artificializzazione dei sistemi produttivi anche inquinando
e mettendo a rischio gli equilibri complessivi e la salute delle
popolazioni;
2. ampliano il mercato delle loro merci, imponendo prodotti
da loro gestiti;
3. sfruttano le comunità rendendole dipendenti dalle loro politiche
aziendali, togliendo l’autonomia produttiva e gestionale, costringendo
i lavoratori alla miseria e a rischi per la salute derivanti
dall’uso di fitofarmaci e concimi chimici;
4. occupano terreni collettivi naturali eliminando le coperture
forestali e distruggendo le comunità locali; spingono i contadini
alla colonizzazione agricola di nuovi ambiti o ad inurbarsi
(non vi sarebbero i fenomeni di urbanizzazione mondiali se la
vita agricola fosse più decente e quindi meno spadroneggiata
dalle bande degli operatori).
Gli organismi di finanziamento internazionale supportano le
azioni di tali operatori attuando attraverso finanziamenti condizionati
la destrutturazione delle politiche agricole dei paesi e aprendo
così la strada ai grandi produttori.
Il maggiore connubio tra interesse dei grandi produttori e stato
si riscontra negli Stati Uniti che fondano appunto sugli interessi
dei produttori le politiche interne ed esterne, con il controllo
degli organismi internazionali, con il controllo militare dei
territori, e sostenendo la diffusione di un modello che conviene
quasi esclusivamente al loro assetto politico e produttivo.
Questa condizione comporta la destrutturazione delle comunità
locali che:
non controllano più l’ambiente in cui sono insediati, in quanto
trasformato per consentire le produzioni richieste dagli imprenditori
e dal mercato da essi controllato; dipendono dalla vendita di
un prodotto di cui non gestiscono nè le modalità produttive
nè il mercato; diventano succubi della vendita delle monoproduzioni
avendo abbandonato l’agricoltura tradizionale e dunque non avendo
alcuna possibilità di alimentarsi se non con l’acquisto degli
alimenti attuato con i ricavi della monocoltura; si alienano
in sistemi produttivi di tipo industriale che sono quelli che
garantiscono la maggiore quantità di prodotto.
Le comunità locali divengono dipendenti, si destrutturano, perdono
l’autonomia; l’ambiente alterato si trasforma, si degrada; le
scelte sociali e ambientali dipendono sempre più dalle scelte
operate dagli imprenditori e dal mercato da essi governato.
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La fame nel mondo:
l’aumento demografico
sostanza del mercato |
Cifre eloquenti: secondo le stime più accreditate la popolazione
mondiale aumenta di circa 90 milioni di individui ogni anno,
numero che può essere considerato grosso modo equivalente ad
un incremento pari alla popolazione dell’Italia e della Spagna
insieme.
Le variabili che intervengono a definire l’andamento demografico
sono molteplici, tuttavia tra esse alcune permettono una visione
leggibile di una crescita, che sebbene sempre presente nella
storia dell’umanità, è nelle sue dimensioni caso assolutamente
nuovo e preoccupante e la cui osservazione è indispensabile
per capire la dinamica di molte circostanze non solo legate
agli ambiti sociali, ma anche economici, politici e ambientali.
È di fatto molto difficile separare il problema della produzione
agricola mondiale dal problema dell’alimentazione, problema
che viene appunto utilizzato come stimolo per una sempre maggiore
produttività agricola e per una industrializzazione dei sistemi
di coltivazione.
Il primo luogo è opportuno porre attenzione su questa apparentemente
stretta relazione di necessità evidenziando tutte le mistificazioni
che sono state organizzate sul tema.
Alcuni dei fattori che hanno determinato l’esponenziale sviluppo
demografico degli ultimi secoli sono attribuibili all’aumento
della speranza di vita media (derivante dalla maggiore diffusione
di medicine e terapie), dalla diminuzione della mortalità infantile,
dall’aumento delle risorse alimentari. Tutti questi fattori
sono stati sviluppati e sostenuti dai paesi coloniali e sono
stati imposti ai paesi “in via di sviluppo” sostituendo forzatamente
al modello sociale esiente un modello da esso lontano e apparentemente
più efficiente.
Questa diffusione di “civiltà” ha destrutturato il benessere
esistente nelle società locali in ragione di un benessere maggiore,
sostenuto dall’imposizione delle armi e dell’usura, che ha messo
in condizioni le popolazioni locali di non potere scegliere
ma di dovere necessariamente assoggettarsi ad esso onde evitare
una marginalizzazione ancora superiore a quella in cui erano
costretti a vivere.
Ma il modello imposto, oltre a manifestare una arroganza sconvolgente
nei confronti delle comunità, nascondeva un inganno profondo:
quello dell’interesse commerciale.
E negli ultimi anni lo spettro dell’altruismo che si aggirava
per il mondo ha mostrato quanto fosse limitato: il numero di
persone sotto la soglia della povertà è tragicamente aumentato,
le società sono sempre più scosse da guerre alla cui base vi
è il predominio delle risorse, la corruzione permea gli stati
fittiziamente costruiti su organizzazioni di comunità preesistenti.
Il “sud del mondo” è sempre più il luogo di prelievo delle risorse,
siano esse ambientali e umane, e nel mondo si muore sempre più
di malattie che in occidente non prevedono nemmeno l’ospedalizzazione.
Ma principalmente grazie a questo modello non vi è più nessuna
relazione tra territorio delle comunità e comunità stessa e
dunque tra comunità e risorse disponibili, e quindi non vi è
più nessuna forma di gestione nè naturale nè culturale dell’incremento
demografico.
Su questo hanno inciso inoltre le religioni che fondano il loro
potere principalmente sul numero degli adepti, e quindi cattolici
e mussulmani stimolano una continua crescita nella ricerca di
una colonizzazione planetaria.
L’enorme aumento di individui produce uno scompenso costante
tra necessità alimentari e risorse disponibili e, sempre nell’ipocrisia
che sostiene il modello, gli alimenti necessari a sfamare l’intera
popolazione mondiale divengono di interesse degli stati ricchi.
Con il costante aumento degli individui il problema alimentare,
nonostante anche la produzione mondiale aumenti costantemente,
è prioritario di anno in anno, in un continuo inseguimento dell’aumento
della produzione all’aumento del numero degli individui.
A livello internazionale la soluzione al problema della fame
nel mondo viene posta con un criterio riassumibile in una frase:
diamogli da mangiare.
E questo viene dichiarato anche quando sono noti o immaginabili
dei limiti per la produzione stessa, limiti di spazio fisico
per garantire la presenza di un così alto numero di individui,
limiti propri del sistema planetario.
Non solo, a questo si aggiunge un continuo aumento dei consumi
alimentari da parte dei paesi del “nord del mondo” e della proposizione
di un modello di spreco anche per i ricchi e i benestanti dei
paesi poveri.
Dunque sembrerebbe che il principale problema sia la riduzione
della domanda di alimenti e quindi in primo luogo la riduzione
del numero della popolazione e di una più equa distribuzione
perché il contemporaneo aumento di domanda e offerta non può
essere praticato all’infinito.
Eppure, tra le soluzioni che si prospettano a riguardo non si
fa mai cenno alla necessità di introdurre un drastico sistema
generalizzato di controllo delle nascite, nè di riduzione dei
consumi.
Tutte le soluzioni che si prospettano non pongono in relazione
questi fattori nè si interrogano sul modo di ridurre questa
evidente abnormità anche attraverso l’uso di una agricoltura
diversa da quella imposta dal modello commerciale, ma al contrario
sembra di rileggere nelle proposte formulate una specie di compiacimento,
come uno sfregarsi le mani prima di tuffarle in un forziere.
In realtà il problema demografico è tutt’altro che un problema
per chi, su questo fenomeno, fonda i propri profitti e sostiene
il proprio privilegio.
Il problema dell’alimentazione è dunque di fatto una necessità
del mercato come lo sono i disoccupati per la produzione industriale,
esso rappresenta la domanda di prodotti alimentari, e il mantenimento
di una quota di domanda insoddisfatta è funzionale al sistema
del mercato e garantisce una maggiore controllabilità in termini
sociali e politici delle comunità.
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L’Agricoltura soddisfa il consumo
ma non l’alimentazione.
Non è solo un problema di disponibilità
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La misura che più si caldeggia per la risoluzione del problema
alimentare è apparentemente ovvia e semplice: aumentare la produzione
di cereali. I cereali sono la base prima dell’alimentazione,
e per gran parte del terzo mondo costituiscono la fonte pressoché
esclusiva di nutrizione: mais, soia, grano sono la materia di
sopravvivenza per miliardi di persone.
Ma l’aumento della produzione cerealicola può derivare solo
da due circostanze: l’aumento della superficie coltivata e l’intensificazione
della produttività specifica.
Nel mondo, le risorse di terra coltivabile non sono illimitate:
già nell’ultimo secolo l’utilizzo di terre per la produzione
agricola si è esteso a comprendere la quasi totalità delle aree
disponibili.
In questo momento, inoltre, buona parte delle aree produttive
è oggetto di interesse da parte dell’allargamento degli insediamenti
e delle infrastrutture (sono stimati circa 5 milioni gli ettari
ogni anno consumati per urbanizzazione e infrastrutture), e
altre sono soggette a fenomeni erosivi e di perdita dei suoli
fertili che ne precludono l’utilizzo per l’agricoltura. Altra
parte delle terre disponibili è assegnata al pascolo e all’allevamento
animale in genere.
Quindi in realtà non è possibile ipotizzare una grande espansione
delle superfici agricole produttive a meno di interessare con
esse terreni che in qualche forma attualmente possiedono elevati
caratteri di naturalità (foreste, aree umide etc.) anch’esse
comunque in forte riduzione proprio per il continuo prelievo
di risorse e l’uso agricolo.
Alla necessità di reperire sempre nuove superfici produttive
nel corso del tempo si è infatti risposto con misure devastanti,
come, per esempio, il disboscamento di vaste aree di foreste,
il non rispetto dei cicli di riposo del terreno. Oltre ai danni
all’ambiente queste misure non assicurano affatto un raccolto
soddisfacente: nel primo caso infatti, non si verificano le
potenzialità effettive dei suoli e non si rispetta il periodo
di ristabilizzazione del terreno convertito (periodo che può
arrivare fino a cinquant’anni); nel secondo caso, non rispettando
il criterio della rotazione delle colture, si forzano i suoli
con prevedibili collassi in termini anche produttivi.
In realtà il problema delle superfici agricole disponibili non
è correttamente trattato: quella che è sicuramente ridotta nel
pianeta è la presenza di superfici utili all’attuale sistema
produttivo ovvero la presenza di superfici utili controllabili
dagli attuali produttori e che garantiscano uguali o superiori
profitti.
Ai produttori di banane non interessa che vi siano dei banani
a conduzione familiare o locale, anche se sfamano un gruppo
di persone, anzi questa disponibilità riduce il mercato potenziale
della stessa azienda produttrice. Il suo interesse è avere superfici
produttive prossime a quelle già controllate o di tali dimensioni
da essere funzionali ai sistemi produttivi e di commercializzazione.
Di fatto, se è vero che si continuano a cercare nuovi terreni
per la coltivazione estensiva, è altrettanto vero che il criterio
dell’industrializzazione nell’agricoltura comporta la necessità
di vaste aree da trattare, scartando i piccoli appezzamenti
e i terreni impervi (da sempre ostinatamente coltivati dall’uomo)
sui quali non è possibile applicare tecniche di coltivazione
estensiva, tant’è che la superficie agri cola utilizzata dagli
anni ‘50 ad oggi è diminuita.
Questa circostanza produce un fenomeno aberrante e socialmente
devastante: da una parte si assiste all’abbandono delle piccole
e medie aree da parte di coltivatori diretti che vanno ad ingrossare
le fila della disoccupazione urbana, dall’altra i nuovi metodi
di coltivazione si inseriscono in modo sconsiderato nell’ambiente,
producendo guasti naturali e sociali di pesante impatto.
Quindi quando si parla di disponibilità assoluta di superfici
agricole si trattano i grandi numeri come se non potesse sussistere
una distribuzione più equa delle produzione e come se tutti
i sistemi di produzione locale dovessero essere destrutturati
per fare posto alle grandi produzioni.
Partendo sempre dall’obiettivo categorico, e mai discusso, dell’aumento
della produzione e dalla considerazione della impossibilità
di aumentare significativamente le superfici agricole la ricerca
si è concentrata sulle soluzioni atte ad aumentare la quantità
di prodotto per ettaro.
L’aumento delle aree irrigue, l’introduzione massiccia dell’uso
dei fertilizzanti chimici e dei fitofarmaci ha dagli anni ‘60
portato ad un’impennata della produzione cerealicola ed in generale
della produttività per ettaro di tutte le colture.
Ma, al momento attuale, dopo un progressivo lieve decremento
di produzione registrato dagli anni ‘80, si è praticamente giunti
al limite della possibilità di spingere la produzione ai massimi
livelli attraverso i metodi di fertilizzazione artificiali.
Anzi l’abuso dei concimi dei fitofarmaci e dell’irrigazione
ha reso meno produttivi i suoli portando a collasso interi sistemi
agricoli in diverse aree del pianeta.
E proprio partendo dalla falsante considerazione di non esservi
più superfici disponibili si rilancia quella battaglia dell’aumento
della produttività che fa di nuovo aumentare i profitti dei
grandi produttori, che crea ulteriori differenze tra le diverse
modalità di fare agricoltura e che, di nuovo, impone un modello
basato sulla sudditanza locale ad un interesse lontano quanto
potente.
Ed è così che oggi, giustificandola con le necessità alimentari
della popolazione mondiale, si prospetta come inderogabile l’introduzione
delle tecniche transgeniche, che consentirebbero un ulteriore
incremento della produzione a parità di superficie coltivata.
Si sostanzia così l’ipotesi che il problema non sia la quantità
di prodotto ma che sia il sistema di produzione e commercializzazione.
Sovrapproduzione, spreco, consumo e abuso delle merci sono tutti
caratteri funzionali alla ottimizzazione dei profitti, ineliminabili
nell’attuale conduzione senza ipotizzare l’annullamento o la
drastica riduzione e ridistribuzione degli stessi.
La produzione agricola dovrebbe essere mirata a soddisfare le
necessità e i piaceri delle comunità prima di soddisfare il
profitto delle aziende (l’ananas è migliore mangiata sui tavoli
delle famiglie europee che nei luoghi di produzione dove le
monocolture, i fitofarmaci, i concimi, l’organizzazione degli
impianti e del lavoro, lo sfruttamento dei lavoranti, le angherie
la rendono piuttosto indigesta).
Di fatto il nodo sostanziale dell’agricoltura è che essa deve
avere come obiettivo il benessere e non il consumo del prodotto
e i profitti che ne scaturiscono.
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Il monopolio dell’agricoltura
e il peso del mondo industrializzato
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Le aziende degli Stati Uniti controllano il 40% del mercato
mondiale dei cereali, molto di più di quanto non facciano i
paesi arabi con il petrolio.
Per queste macro-aziende il problema demografico si tramuta
non solo in un proficuo affare, ma anche in un terreno favorevole
alla legittimazione di pratiche aberranti ai danni degli uomini,
della società, della natura.
Quella in atto è una massiccia concentrazione della produzione
agricola in immense piantagioni, che consentono l’uso esteso
di tecniche e materiali, per una superproduzione condotta da
alcune aziende divenute di fatto i gestori della alimentazione
mondiale.
Questo monopolio alimentare fa sì che queste stesse mega-aziende
abbiano un notevolissimo potere di contrattazione con gli Stati
e i governi, ai quali possono imporre anche l’uso di tecniche
non giustificate e fortemente nocive per l’ambiente e per le
società.
L’introduzione della transgenetica nell’agricoltura che, come
si è visto, è totalmente ingiustificata dalla necessità di alimentare
la popolazione, è invece ulteriore consolidamento del sistema
agricolo esistente e di rafforzamento dei monopoli.
Essa comporta, oltre ad oggettivi problemi di tipo biologico,
la possibilità per una azienda di detenere l’esclusiva sulla
produzione di un determinato tipo di coltivazione, possedendo
essa il brevetto dei semi. Molti nuovi cultivar sono frutto
di semi che producono piante sterili, di cui non si può utilizzare
il seme per la piantagione successiva. Questa circostanza rende
completamente dipendenti dall’acquisto di sementi vincolate
al brevetto, e che quindi possono avere un prezzo esclusivamente
deciso dai possessori del brevetto medesimo.
È evidente quindi come la preoccupazione di aumentare la produzione
agricola per sfamare il mondo mostri la sua vera faccia: il
problema alimentare si è tramutato in un immenso affare.
In realtà i criteri di superspecializzione dell’industria agricola
messi in atto implicano che le forme agricole tradizionali,
praticate e praticabili dalle popolazioni locali, siano del
tutto inadeguate a competere con questi elefantiaci concorrenti;
il risultato è l’abbandono delle campagne da parte dei piccoli
e medi produttori e la concentrazione della popolazione nelle
aree urbane.
Inoltre questa pratica rende fatalmente dipendenti interi territori
e i paesi più deboli dalle importazioni: dipendenza economica
che si tramuta in dipendenza politica e crea danni incalcolabili
sul tessuto sociale e naturale di un paese.
Il già potente “nord del mondo” utilizza organismi internazionali,
quali la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale,
per supportare i propri fini di ristrutturazione di economie
nazionali. Attraverso di essi pongono condizioni radicali alle
scelte dei paesi che contraggono accordi di prestito o convenzioni
commerciali tutti tendenti alla riduzione delle autonomie attraverso
un controllo politico e sociale richiesto per assicurare il
buon adempimento degli interventi.
Ma la richiesta smisurata di cereali non è tutta attribuibile
alla necessità di provvedere a sfamare la popolazione mondiale:
una consistente fetta di questa produzione (circa un terzo)
viene assorbita dall’alimentazione per il bestiame, in modo
particolare per l’allevamento di bovini, suini, pollame. Se
però per un americano medio la richiesta è di 800 kg di cereali
l’anno, tanti ne richiede la sua alimentazione basata principalmente
sul consumo di carni e derivati del latte, per un indiano la
richiesta è di 200 kg di cereali, quasi esclusivamente consumati
direttamente. Si valuta che una giusta quantità, calcolata su
una dieta equilibrata di tipo mediterraneo, sarebbe di 400 kg
di cereali a persona.
Questa macroscopica condizione di disparità di consumi fa apparire
chiaro come il problema alimentare sia anche un problema di
distribuzione della ricchezza: se si producessero, per esempio,
2 miliardi di tonnellate di cereali l’anno, questi basterebbero
a sfamare un mondo ipotetico fatto di 2,5 miliardi di americani,
oppure di 10 miliardi di indiani.
È evidente quindi come, sulle esigenze alimentari, pesino i
modelli di vita praticati nella società occidentale, modelli
che però non vengono mai messi in discussione quando si tratta
di trovare soluzioni al problema della fame nel mondo.
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Conclusioni
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Da quanto detto risulta chiaro quanto la produzione agricola
non serva ad alimentare ma a fare commercio.
Il disinteresse verso i problemi sociali connessi alla produzione
e il concentrarsi solo sui termini quantitativi dei prodotti
sono la chiara testimonianza di come l’argomento dell’agricoltura
e della nutrizione sia trattato in termini funzionali all’aumento
del mercato delle merci.
Il commercio del prodotto agricolo impone i tipi delle colture,
i luoghi in cui produrre e definisce gli ambiti di commercio:
il commerciante sceglie di acquisire le merci nei luoghi dove
ottiene il maggiore profitto indipendentemente dagli effetti
ambientali e sociali che il realizzarsi del suo profitto comporta.
Lo scenario che si sta configurando tende al continuo avvicinamento
della produzione agricola a quella industriale.
Ad una riduzione complessiva del numero dei cultivar corrisponde
una riduzione della sostanziale diversità di tipi di alimenti
presenti sul mercato: ad esempio l’enorme incremento di tipi
di merendine non corrisponde ad una reale diversità in quanto
esse hanno le stesse componenti, cereali e creme.
La questione del controllo della qualità dei processi produttivi
e dei prodotti può ulteriormente contribuire alla riduzione
del numero dei produttori; le specifiche tecniche di qualità
dei prodotti sia a livello igienico sanitario, sia dei processi
sono fatte a misura delle grandi aziende e difficilmente attuabili
da quel diffuso artigianato che in passato attuava la trasformazione
dei raccolti.
Queste misure, adeguatamente pilotate dalle grandi aziende,
possono ridurre significativamente la concorrenza imponendo
limiti alla produzione tali da porre in difficoltà la piccola
produzione.
In sintesi, in uno scenario incredibile quanto probabile, si
può ipotizzare che si verifichi sempre una maggiore concentrazione
delle produzioni e un sempre maggior controllo del mercato degli
alimenti; è possibile che il coltivatore diretto possa essere
limitato nelle sue attività in quanto esse non corrispondono
alle specifiche di qualità della produzione e delle merci definite
a misura delle grandi aziende, tanto che l’autoproduzione e
distribuzione diretta diventi perseguibile legalmente o impraticabile
oggetivamente.
Il fenomeno perverso dell’industrializzazione dell’agricoltura
ha comportato e comporta un’altra conseguenza di pesante riscontro
sociale: la disoccupazione di grandi masse di coltivatori che
si sono trovate estromesse dai nuovi criteri produttivi. Per
rendersi conto della situazione basta pensare che nel 1850,
negli Stati Uniti, il 60% della popolazione attiva era impiegata
in agricoltura: oggi, nello stesso paese, meno del 2,7% della
forza lavoro è direttamente occupata nel settore agricolo. A
fronte di questo si è creata una sacca di disoccupazione che
ha comportato, ai giorni nostri, circa 9 milioni di persone
che vivono al di sotto della soglia di povertà nelle aree rurali
depresse. Evidentemente qualcuno ha pagato e paga ancora il
prezzo di quella tecnologia agraria che ha reso gli Stati Uniti
una potenza del settore, perché è evidente, da quanto detto
finora, che se così pesa in America, molto più drasticamente
risulta micidiale per quei paesi che hanno ancora l’agricoltura
come strumento principe di produzione di ricchezza.
Infine una delle maggiori alterazioni che la nostra contemporaneità
sta vivendo è la perdita della conoscenza dei sistemi di produzione.
Fino a non molto tempo fa anche nelle società “sviluppate” gran
parte della popolazione era collegata alla agricoltura. I discorsi
delle persone erano quasi tutti incentrati su elementi che avevano
a che vedere con l’agricoltura e con le condizioni che ne determinavano
la produttività. Era un sistema di comunicazione, attraverso
cui si costituiva la comunicazione e il contatto tra le persone,
ma era anche un mezzo di informazione e conoscenza: la comunità
continuava ad affinare la propria cultura e a definire sistemi
che maggiormente si adattassero ai propri caratteri e ai caratteri
dell’ambiente.
Oggi i discorsi più diffusi attengono allo sport, alla telefonia
mobile, agli autoveicoli, etc.: la conoscenza scambiata afferisce
il funzionamento di un oggetto che non produce, e che non si
controlla nè nella sua fase di fabbricazione, nè di manutenzione
ma solo, e parzialmente, di uso. Gli utilizzatori infatti non
posseggono alcuna cognizione di come realmente funzioni l’oggetto,
nè di come sia gestito nè tantomeno di come si ripari.
Di fatto la comunicazione è fatta su passatempi mentre la organizzazione
del lavoro e la gestione delle produzioni è ignorata e totalmente
delegata ad altri.
Ma proprio relativamente al tema dell’agricoltura si assiste
ad una riduzione della conoscenza: attualmente l’agricoltore
possiede una conoscenza degli effetti della chimica o dell’uso
dei macchinari ma non possiede una coscienza del sistema. Egli
di fatto sempre più ignora l’agricoltura e la sua complessità
sociale e ambientale, ignora come essa interagisca con le componenti
naturali, come i cicli naturali e il leggero modificarsi delle
stagioni possa influire sul sistema. Egli utilizza strumentazioni
che sovrastano la conoscenza della morfologia, dei vantaggi
del posizionamento dei siti, dell’importanza del susseguirsi
delle colture, del variare delle stagioni.
Egli conosce gli strumenti produttivi, forse, ma non conosce
il contesto in cui essi si applicano, nè gli effetti e dunque
non li controlla ma anche in questo caso li consuma.
Adriano Paolella
e Zelinda Carloni
Alcuni riferimenti
bibliografici
Fonte dei dati
Renner M. (Worldwatch Institute), State of the War. I dati
economici e ambientali del fenomeno guerra nel mondo, Edizioni
Ambiente, Milano, 1999
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ambientali e sociali che disegnano il nostro futuro, Edizioni
Ambiente, Milano, 1999.
UNDP, Rapporto 1998 su Lo sviluppo umano. I consumi ineguali,
Rosemberg & Sellier, Torino, 1998
Brown L.R., Flavin C., French H., State of the World,
ISEDI, Torino, 1997
The Economist, Il mondo in cifre 1999, Internazionale,
Roma, 1999
Biotecnologie
Ministero dell’Ambiente, Le biotecnologie, Atti del seminario
del 24 settembre 1999, Roma, 1999
Rifkin J., Il secolo biotech, Baldini & Castoldi, Milano,
1998
The Ecologist, The Monsanto Files, numero speciale vol.
28 n°5 set/ott 1998, pubblicato in italiano da Editoriale Verde
Ambiente, come supplemento di Avvenimenti, Roma 1999
Nomisma, VII Rapporto Nomisma sull’agricoltura italiana 1999.
La frontiera biotecnologica, Ed. Il sole 24 ore, Milano,
1999
Globalizzazione
Chomsky N., Sulla nostra pelle, Marco Tropea Editore,
Milano, 1999
George S., Sabelli F., Crediti senza frontiere, Edizioni
Gruppo Abele, Torino, 1994
Chossudovsky M., La globalizzazione della povertà, Edizioni
Gruppo Abele, Torino, 1998
Gesualdi F., Manuale per un consumo responsabile, Feltrinelli,
Milano,1999
Varie
Faggi P., La desertificazione, Etaslibri, Milano, 1991
Indice internazionale, La ricerca infinita, Internazionale
2/97, Roma 1997
Rifkin J., La fine del lavoro, Baldini & Castoldi, Milano,
1997
Vallin J., La popolazione mondiale, Il mulino, Bologna,
1992
Myers N., Simon J., Scarsità o Abbondanza. Un dibattito tra
ambiente ed economia, Franco Muzzio Editore, Padova, 1995
Nel 1950 la popolazione mondiale
era di 2.556 milioni di persone con un incremento annuale
di 38 milioni; nel 1998 la popolazione mondiale era di
5.190 (3,3 miliardi in più in 38 anni) con un incremento
annuale di 78 milioni di persone. La progressione demografica
più consistente si registra il Africa e in alcuni paesi
del sud e sud-est asiatico, la più bassa nei paesi del
nord del mondo. In Africa il numero medio di figli per
donna è di 6,3, a fronte di un livello di mortalità infantile
del 10%; negli Stati Uniti ogni donna ha, in media, 1,9
figli, a fronte di una mortalità infantile del 1% (Brown
L.R. et al. 1999).
12 erano i conflitti armati nel 1950, 31 sono stati quelli
del 1998; tra il 1989 e il 1997 sono scoppiati 103 conflitti
armati; nel 1998 i rifugiati assistiti dall’ONU erano
22,4 milioni; il numero
di morti per guerra dopo la seconda guerra mondiale è
superiore a quello delle vittime di quel conflitto; tra
il 1984 e il 1995 sono stati venduti ai “paesi in via
di sviluppo” circa 15.000 carri armati, 34.000 pezzi di
artiglieria, 27.000 veicoli blindati, 1.000 navi da guerra
e sommergibili, 4.200 aerei da combattimento, 3.000 elicotteri,
48.000 missili, milioni di armi di piccolo calibro (Renner,
1999)
Quasi un miliardo di persone nel pianeta è malnutrito;
circa 828 milioni di persone soffre la fame ogni giorno;
circa 600 milioni di persone (soprattutto in nord-America
e in Europa) sono sovranutrite e sovrappeso (Brown L.R.
et al. 1999).
Circa settanta paesi hanno più del 10% della popolazione
sotto il livello di povertà (meno di un dollaro al giorno)(UNDP,
1998).
L’area coltivata a cereali nel 1950 era di 587 milioni
di ettari, nel 1998 di 687 milioni di ettari, nel 1981
aveva raggiunto il massimo dell’espansione con 732 milioni
di ettari (Brown L.R. et al. 1997)..
L’area mondiale irrigata nel 1961 era di 139 milioni di
ettari, nel 1996 di 263 milioni di ettari (Brown L.R.
et al. 1999).
La produzione di cereali era nel 1950 di 631 milioni di
tonnellate, nel 1990 di 1780 milioni di tonnellate con
una crescita dal 1950 al 1990 del 182%. Dal 1990 al 1996
la crescita è stata del 3%; questa è una ragione della
ricerca sugli OGM (Brown L.R. et al. 1997).
Nel 1950 l’impiego di fertilizzanti è stato di 14 milioni
di tonnellate, nel 1989 è stato di 146 milioni di tonnellate;
nel 1996 di circa 120 milioni di tonnellate (Brown L.R.
et al. 1997).
Continua a crescere il numero delle specie resistenti
ai pesticidi; attualmente circa 1.000 tra i maggiori flagelli
per l’agricoltura (comprendenti grosso modo 550 fra insetti
e piccoli parassiti, 230 agenti infettivi e 230 erbe infestanti)
sono immuni ai pesticidi. È questa un’altra ragione delle
ricerche sugli OGM (Brown L.R. et al. 1999).
12,7 milioni di tonnellate, ovvero l’1% della produzione
di granaglie, viene perso ogni anno a causa dell’impoverimento
del suolo e dei danni derivati dall’inquinamento (fonte
FAO 1998).
Nel 1998 l’area agricola mondiale dedicata ai raccolti
transgenici è di 28 milioni di ettari, quasi il triplo
dell’anno precedente(Brown L.R. et al. 1999).
La quantità delle superfici interessate dal degrado dei
suoli è in costante aumento: negli anni novanta sono stati
riconosciute le seguenti quantità di superficie con suoli
degradati (in milioni di ettari): America del Nord 158,
Europa 219, America Latina 243, Africa 494, Asia 747 (UNDP,1998).
Negli anni ottanta sono stati consumati più di 15 milioni
di ettari di foresta (America latina 7,4, Africa 4,1)
(UNDP,1998).
Gli
Stati Uniti, tra grano e granaglie, producono 329.700.000
tonnellate e consumano 242.000.000 tonnellate, hanno così
una differenza esportabile di 87.700.000 tonnellate di
cereali (quantità superiore al consumo annuale dell’intera
Unione Europea a 15 stati). Questa è una condizione unica
nel pianeta che influenza significativamente l’autonomia
dei paesi e le politiche alimentari planetarie. La Cina,
ad esempio,che è uno dei maggiori produttori di cereali,
produce 252.200.000 tonnellate annue di granaglie ma ne
utilizza per consumi interni 245.000.000 avendo così una
disponibilità di esportazione quasi nulla, 7.200.000 tonnellate,
senza considerare la necessità di creare delle scorte
(The Economist, 1999).
Gli Stati Uniti, nonostante siano tra i tre maggiori produttori
mondiali di cereali, carne e ortaggi e quarti nella produzione
di frutta non hanno che meno del 4% della popolazione
addetta all’agricoltura (con meno del quattro per cento
della popolazione di un solo paese si produce quasi il
30% della produzione agricola e zootecnica mondiale) (The
Economist, 1999).
Nel modello attuato e spesso imposto l’incidenza dell’agricoltura
sul PIL è bassissima: 2% negli Stati Uniti, mentre molto
significativo è il PIL connesso alla trasformazione dei
prodotti alimentari e alla sua commercializzazione.
IL DANNO CULTURALE DELLA SPECIALIZZAZIONE
E CONCENTRAZIONE DELLA PRODUZIONE AGRICOLA
L'agricoltura,
come qualunque altra attività produttiva umana prima dell'industrializzazione,
era non solo l’oggettivazione di un lavoro relativo al
soddisfacimento dei bisogni primari, ma anche, e non di
meno, un'attività culturale.
La memoria dell’arte agricola, tramandata di generazione
in generazione, è stata per millenni ricchezza e patrimonio
del genere umano, dalla quale è scaturita un’immensa ricchezza
di conoscenza e di osservazione del mondo. L'osservazione
del movimento degli astri può aver avuto origine o incremento
dall'importanza che questi elementi avevano sulla fertilità
della terra; la chimica, la biologia, la botanica, e in
generale, tutte le scienze che hanno come oggetto la terra
e i suoi frutti, possono aver avuto impulso dalla necessità
di conoscere le caratteristiche della natura agricola.
L'agricoltura, in sintesi, è stata per l'uomo non solo
fonte di alimentazione, ma di conoscenza. La memoria storica
della pratica agricola ha rappresentato per centinaia
di anni un serbatoio di cultura e di ricchezza.
Di fronte a queste osservazioni appare evidente come l'applicazione
alla realtà agricola di criteri simili a quelli che hanno
condotto la rivoluzione industriale non può che depauperare
l'umanità intera non solo del diritto inalienabile alla
terra (e quindi al suo uso) ma anche del patrimonio culturale
che questo possesso e quest’uso sottendono.
La concentrazione della produzione agricola, l'uso di
tecniche di coltivazione con elementi di forzatura biologica,
l'introduzione dei brevetti per la pratica della coltivazione
transgenica, la drastica riduzione della manodopera, e,
comunque, l'utilizzo di una manodopera che compie parziali
operazioni dell'intero processo, fa sì che l'attività
agricola perda completamente quei connotati storici che
l'hanno fatta essere motore propulsore di costruzione
dell'identità umana.
IPOTESI PERSEGUIBILI
È
indispensabile sottrarre il mondo di sotto questo taglione,
contrastando in modo netto la politica alimentare proposta/imposta
dal criterio monopolistico occidentale. Questo è possibile
se si considera come inalienabile il diritto alla terra,
e quindi alla gestione diretta delle risorse del suolo
da parte di chi su quelle terre vive.
È indispensabile che si modifichi il criterio produttivo
basato sulla quantità e lo si sostituisca con la coltivazione
di qualità direttamente gestita. Utilizzare i reali terreni
disponibili (e non quelli sottratti agli ambiti naturali)
con le tecniche, le produzioni e le quantità appropriate
al loro uso, riappropriandosi delle tecniche agricole
direttamente gestibili dai coltivatori. Questo obiettivo
è ovviamente destinato a scontrarsi con gli enormi interessi
in campo, ma qualunque altra soluzione che prescinda da
questo appare un palliativo che consentirebbe un’ulteriore
concentrazione della produzione e della distribuzione
nelle mani di pochi.
Nonostante questo sussistono alcune condizioni che possono
rendere plausibile un cambiamento di rotta, facilitato
dalla presenza dei seguenti caratteri:
La presenza capillare, di un numero ancora elevato di
piccole, medie aziende e la connessione in sede locale
dell’agricoltura con le abitudini alimentari e, in genere,
con la domanda locale
La presenza di azioni che tendono a favorire un recupero
di sistemi produttivi integrati e la consapevolezza abbastanza
diffusa tra la popolazione del nord del mondo della potenzialità
di inquinamento, e di corrispondente rischio per la salute
umana, che l’abuso di fitofarmaci e concimi produce
La presenza di una, ancora strisciante, reazione alle
forme alimentari imposte dal mercato e quindi dei sistemi
produttivi da cui derivano e conseguentemente la tendenza
di una nicchia di mercato a recuperare la qualità dei
prodotti a fronte della quantità
È
evidente che i problemi sono di ordine diverso se osservati
a scala nazionale piuttosto che a scala mondiale, e le
misure che possono essere intraprese per i paesi del nord
del mondo dovrebbero essere integrate da misure adottate
globalmente.
Per permettere una effettiva modificazione dell’assetto
agricolo e rendere possibile una inversione di tendenza
a livello globale del pianeta e di comunità locali è necessario:
1. interrompere l’uso di superficie agricola utilizzata
per insediamenti e infrastrutture così da rendere possibile
la conservazione di superfici produttive qualificate nelle
aree di pianura prossime agli insediamenti;
2. ridurre le superfici irrigue; riportando la
produzione agricola ad adattarsi alle condizioni specifiche
dei luoghi. La riduzione della quantità di acqua porta
alla necessità di abbandonare colture esogene rispondenti
a mercati globali e dunque gestite da soggetti estranei
alla comunità;
3. ridurre la mobilità delle merce riorganizzando
la produzione agricola in ambiti territoriali semi autonomi;
si ridurrebbe l’inquinamento prodotto dal trasporto delle
merci e si ridurrebbe la concentrazione della produzione
in aree specifiche e quindi il loro controllo da parte
di soggetti numericamente limitati;
4. promuovere la produzione di qualita superando
la considerazione quantitativa-commerciale del prodotto;
5. annullare il consumo dei fitofarmaci e dei concimi
chimici (già un abbattimento del 20-30% metterebbe in
difficoltà i produttori industrializzati);
6. facilitare il mantenimento di aziende di piccola,
media dimensione attraverso la riorganizzazione dei circuiti
distributivi e commerciali locali (commercio equo e solidale,
circuiti alternativi di produzione e consumo, etc.);
7. non permettere la produzione transgenica e
la sua commercializzazione;
8. sostenere le comunità agricole;
9. aumentare il numero degli addetti nell’agricoltura
ripristinando alcune pratiche manuali; etc.
Per ottenere questi obiettivi si può agire sulle amministrazioni
che possono regolamentare già all’interno del quadro normativo
esistente il settore. Vi è la possibilità, a parità di
assetto sociale, di indirizzare un percorso a minor danno
sociale e ambientale; in questo senso vanno le attività
delle numerose associazioni di agricoltori, ambientali
e sociali che richiedono un modello maggiormente sostenibile.
Ma vi è un grande spazio per l’azione diretta da parte
di tutte le comunità e degli individui a diversi livelli
di impegno e di coinvolgimento.
Da un’azione minima, quale quella di non mangiare prodotti
fuori stagione, di non mangiare prodotti esotici di importazione
(solitamente controllati dalle grandi imprese), di partecipare
ai boicottaggi sulle singole merci (dall’ananas alle banane),
di utilizzare le merci che sono prodotte da comunità autogestite
e le merci che sono distribuite direttamente da comunità
(in subordine privilegiare le merci distribuite anche
da grandi catene che hanno però preso impegni di qualità
complessiva dei prodotti), di non consumare prodotti transgenici,
di ridurre l’alimentazione con carni; passando all’organizzazione
dei contatti diretti con produttori di alimenti fino alle
attività di maggiore impegno quale la costituzione di
insediamenti alimentarmente autonomi e all’impegno diretto
nella produzione del proprio cibo.
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