Nel film Pane e tulipani di Soldini
si racconta di una madre di famiglia che, cogliendo con acume
e coraggio l’occasione di esser stata dimenticata in un autogrill,
si concede quella che soltanto sulle prime sembra una vacanza,
mentre poi div ia esistenza. Scappa dalla prigione dell’ottusità
e dell’indifferenza familiare, per affrontare la vita con uno
sguardo tutto nuovo e per riassaporare la gioia dell’applicare
categorie sopite. Al fianco di questa donna, dopo qualche vicissitudine
un po’ troppo comica, si viene a trovare un idraulico tanto
senza lavoro da improvvisarsi detective. Goffo e dunque triste,
saprà anch’egli cogliere al volo la prima possibilità di cambiamento
che il destino gli riserverà.
In Risorse umane di Cantet, il giovane laureato sembra
avviato al successo sociale a spese del babbo e della classe
operaia che costui malamente rappresenta. Tuttavia, il giovanotto
vede bene, vede alla svelta e vede lontano - tanto da saper
rifiutare ciò che lo aspetta: il disdegno di sé e degli altri,
la pozione di cinismo sufficiente e necessaria per la vita agiata.
Suo padre stesso, crumiro incallito, ritrovando il calore della
solidarietà di classe - perché, checché ne dicano sociologi
ed economisti, non è mai troppo tardi - si deciderà a picchettare
la fabbrica.
“Marais”, in francese, sta per “palude”. Lungo la costa atlantica
c’erano un tempo due regioni alluvionali che vennero nominate
Marais - il Marais bretone e il Marais poitevin (o del Poitou).
La loro bonifica è storia lunga, tanto da iniziare fin dall’XI
secolo e finire negli anni Trenta del secolo scorso. I ragazzi
del Marais di Becker racconta anche di un tale che, nelle paludi
ci è vissuto libero e felice, che poi se n’è andato, che con
le sue mani si è costruito un impero di fortune e che, quindi,
torna da dove è partito giusto per ridarci un’occhiata. All’impatto,
tuttavia, risente il gusto perduto della libertà di un tempo
e, pur di non dimenticarlo più, riterrà fin leggero il sacrificare
qualcosa. Qualcosa come la vita, non so se mi spiego.
Sono storie raccontate da film tutti realizzati più o meno in
contemporanea e la tentazione di rilevarne questo elemento in
comune è forte. Se ci raccontiamo vicende in cui qualcuno non
ce la fa più nella normalità che gli è toccata in sorte un motivo
ci sarà e, se non sbaglio di grosso, può far perfino ben sperare.
Al cospetto del cambiamento di sé - nella consapevolezza del
tempo che passa e dei mali che insidiano la convivenza tra gli
esseri umani -, il costo della stabilità risulta esorbitante.
In un mondo zeppo di contraddizioni, rimanere con il sederino
al caldo costa troppo. Troppi sono gli sguardi da evitare, troppi
sono i pensieri da non fare, troppe le logiche conseguenze che
è consigliabile non tirare - prima di arrivare a casa e accendere
la televisione in attesa di farla finita con la giornata e,
senza accorgercene, con il tempo che ci è stato dato su questa
terra.
La lingua del narratore batte sul dente cariatissimo della rispettabilità
sociale. Alla madre di famiglia, al giovane che cerca un lavoro
fisso, all’operaio sfruttato e al padrone sfruttatore tornano
i conti fino a che stanno al loro posto, fino a che assecondano
il mansionario insignificante del ruolo che una forza che sembra
trascenderli ha assegnato loro. Nel momento in cui, per scelta,
s’infilano nel varco della ribellione si sentono per la prima
volta costruttori dell’unico mondo di cui erano in attesa. Le
relazioni umane diventano leali, la propria individualità è
tollerata, perfino amata. Se ci vengono raccontate, queste storie,
vorrà pur dire che qualcuno ne sente il bisogno. Se le si racconta
a nostra volta, chi lo sa che questo bisogno non si diffonda.
Felice Accame
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