Due episodi fra i tanti
che hanno insanguinato recentemente questo paese latino americano:
- sabato 5 febbraio otto campesinos sono stati uccisi a un
posto di blocco dei paramilitari( Autodifese Unite della Colombia)
presso Urao.
- venerdì 11 febbraio forze miste di polizia ed esercito ( aviotrasportate)
hanno attaccato la località di Canoas, presso Gibraltar, dove
erano accampati circa 450 indigeni, donne, vecchi e bambini
della comunità UWA. Utilizzando la violenza, i pestaggi e i
gas lacrimogeni hanno costretto gli indios a lanciarsi nelle
acque del fiume Cubujon. Come conseguenza si registrano alcuni
bambini morti annegati, decine di donne e bambini feriti e numerosi
“desaparecidos”.
Questa è ormai la realtà quotidiana della Colombia dove le violazioni
dei Diritti Umani si contano a centinaia. Paradossalmente un
singolo episodio, l’uccisione di uno studente padovano nel 1995,
sta diventando per gli stessi colombiani l’occasione per denunciare
all’opinione pubblica mondiale violenze e soprusi.
Abbiamo incontrato Guido Piccoli, giornalista e profondo conoscitore
della realtà colombiana in occasione di un incontro organizzato
in marzo a Padova dall’ Associazione Giacomo Turra. Vi hanno
preso parte varie Organizzazioni Non Governative e del volontariato
(Amnesty International, Lega per i diritti e la liberazione
dei popoli, il Centro Balducci di Udine, “Vento del Sud”, le
associazioni “Mondo” e “Aurora”, presenti con i loro volontari
anche in Colombia), oltre un rappresentante dei familiari di
Giacomo Turra.
Le recenti sentenze che hanno assolto i poliziotti colombiani
responsabili della morte di Giacomo Turra hanno riportato sotto
gli occhi dell’opinione pubblica il problema dell’impunità di
cui godono militari e paramilitari in Colombia. Cosa può dirci
della situazione attuale?
La situazione è sempre più tragica. Alla fine di febbraio in
una sola settimana, si sono registrate più di settanta vittime
( la maggior parte è stata ritrovata decapitata per impedirne
il riconoscimento) e la notizia è stata quasi completamente
ignorata dalla stampa europea. Questi fatti vengono presentati
come una conseguenza del narcotraffico, come regolamenti di
conti tra bande rivali, ma si tratta di una colossale menzogna.
La questione della droga viene usata quasi sempre (v. anche
il caso di Giacomo che in un primo tempo hanno tentato di far
passare per drogato) per coprire la realtà impresentabile nella
sistematica violazione dei Diritti Umani.
Non le sembra che sul problema dell’informazione, almeno
in Italia, ci sia stata una piccola svolta dopo la testimonianza
di Padre Javier Giraldo, il gesuita Segretario esecutivo della
Commissione Giustizia e pace delle congregazioni religiose della
Colombia e attuale vicepresidente della Lega internazionale
per i diritti dei popoli?
Bisogna riconoscere che padre Giraldo, oltre al dono dell’immediatezza,
ha quello di dire la verità anche se può essere scomoda. In
gennaio abbiamo preso parte entrambi ad un incontro organizzato
a Roma con esponenti del Governo italiano, di ONG, dei sindacati
e della cooperazione internazionale. La sua relazione non è
stata condivisa da tutti i presenti (per esempio dal responsabile
esteri dei DS che ritiene esistano ancora spazi di collaborazione
con lo Stato colombiano), ma tutti si sono trovati sostanzialmente
d’accordo sulla necessità di una maggiore informazione (in Italia
soltanto una decina di giornalisti si occupa saltuariamente
della Colombia). Da questo punto di vista l’area del vostro
Nord-Est mi sembra la più interessata, sia per la presenza della
famiglia e degli amici di Giacomo, sia per il gran numero di
gruppi già attivi in Colombia (vedi Udine e Padova).
Parlava prima dell’equazione droga-violenza regolarmente
evocata quando si parla della Colombia. Corrisponde alla realtà?
Si finge di ignorare che la violenza in Colombia è esplosa molto
tempo prima della questione del narcotraffico e che la lotta
contro la droga è spesso un comodo paravento per la repressione.
Di questo sono consapevoli anche alcuni settori della stampa
colombiana. Alla morte del noto narcotrafficante Escobar uscì
un significativo editoriale su “La Semana”: “ E adesso a chi
daranno la colpa?” Dovendo leggere ogni mattina i quotidiani
colombiani (su Internet) posso confermare che lo stillicidio
dei morti ammazzati e delle stragi è costante. Più che abbastanza
per deprimersi per il resto della giornata. Purtroppo sulla
stampa italiana arriva ben poco. Qualche trafiletto su “Il Manifesto”
e, più recentemente, qualche articolo su “Liberazione” e “La
Repubblica” , ma permane l’equivoco sulle vere cause della violenza.
Ha parlato spesso del dramma dei “desplazados”, dei cosiddetti
“sfollati”. In che cosa consiste?
Forse più che di sfollati bisognerebbe parlare di “profughi
interni”. Sono persone, intere comunità costrette ad abbandonare
tutto (i campi, le case, gli animali) e fuggire, incolonnati,
verso le aree urbane. Fuggono dalle zone di conflitto che, guarda
caso, spesso sono le più ricche per risorse naturali, quelle
che fanno gola alle multinazionali. Finora solitamente si trattava
di zone con giacimenti petroliferi o con minerali preziosi.
Attualmente sono sotto tiro le zone con maggiore biodiversità.
Probabilmente quello della biodiversità diventerà l’affare del
millennio con le multinazionali che possono “brevettare” piante
e animali geneticamente modificati da immettere poi sul mercato.
Da questo punto di vista la Colombia è sicuramente una delle
nazioni del pianeta più appetibili. Il “desplazamiento” serve
appunto per allontanare gli indigeni dalle zone interessanti
per le multinazionali. Quando le minacce non bastano intervengono
i gruppi paramilitari che ultimamente compiono le loro stragi
usando anche le motoseghe, per terrorizzare ulteriormente le
popolazioni. Ho potuto verificare come questo produca panico,
vera e propria “malattia mentale” nei sopravvissuti che pensano
solo a fuggire. A questo punto la terra, “liberata” dalla scomoda
presenza degli indios, è pronta per le multinazionali. Attualmente
su trentacinque milioni di abitanti vi sono almeno due milioni
di “desplazados”, per la maggior parte confinati nelle periferie
di Bogotà dove sono costretti a vivere di espedienti alimentando
l’esercito di ladri, prostitute, mendicanti.
Il prossimo obiettivo dei gruppi paramilitari sembra dover essere
la regione del Cauca, un’area della Cordigliera occidentale,
verso il Pacifico. Secondo le dichiarazioni dei gesuiti di “Justitia
e Pax”, vi operano elementi dell’esercito governativo travestiti
da paramilitari. Altre zone interessate dal “desplazamiento”
si trovano al centro del paese (v. Cartagena) e nell’area denominata
El Salado, dove sono state rinvenute le ultime vittime decapitate.
Nelle prossime settimane sono previsti altri trecentomila “sfollati”.
Ricordo che un documento dell’ONU di qualche tempo fa poneva
la Colombia al terzo posto per violazioni dei Diritti Umani
(dopo il Burundi e il Papua Nuova Guinea). Ma ormai, anche secondo
l’ONU, l’emergenza Colombia sta approdando al primo posto.
Di fronte a tutto questo viene spontaneo chiedersi perchè
mai il caso di Giacomo Turra susciti tanta emozione. Non si
tratta in fondo “soltanto” di un morto in più?
Giacomo Turra, soprattutto per merito della famiglia, è diventato
un simbolo anche in Colombia perchè ci sono stati ben due processi.
In un paese in cui ci sono circa trentamila persone ammazzate
all’anno (e dal 1978 in media un desaparecido al giorno), nessuna
vittima ha avuto tanto, sebbene gli uccisori di Giacomo restino
in libertà. Presto ci sarà anche il terzo processo della Corte
Suprema (corrispondente alla nostra Cassazione). Questo in Colombia
resta un fatto eccezionale, anche se dalle sentenze (ovviamente
di assoluzione per gli uccisori di Giacomo) traspare con evidenza
tutta l’arroganza dei militari, la loro sostanziale impunità.
Tra le poche voci di denuncia in Colombia ci sono quelle
dei Gesuiti e dei Francescani. Qual è il loro atteggiamento
nei confronti della giustizia colombiana?
Non dimentichiamo che in Colombia la giustizia è poco più di
una burla, non per incapacità ma per una precisa scelta politica.
Per questo i Gesuiti, da un anno a questa parte, hanno deciso
di non andare più dai giudici perchè tutte le prove sono a carico
dei testimoni che però non vengono tutelati. I giudici non si
espongono, non fanno più inchieste e gli stessi famigliari delle
vittime non testimoniano per paura di ritorsioni. In compenso
talvolta vengono accusati di omertà dai giudici. Attualmente
i Gesuiti si rivolgono alla giustizia internazionale chiedendo
solidarietà per far conoscere agli altri paesi (soprattutto
USA ed Europa che con la Colombia hanno stretti rapporti commerciali,
compreso il traffico d’armi) quello che succede. Inoltre continuano
a contabilizzare le violazioni dei Diritti Umani, da qualsiasi
parte provengano. Si può calcolare che al 90% sono attribuibili
all’esercito e ai paramilitari, ma non vanno dimenticate quelle
commesse dai guerriglieri. Tra queste vorrei ricordare l’uccisione
di tre ecologisti americani (uno dei quali conoscevo personalmente)
da parte delle Farc, dopo averli ingiustamente accusati di essere
spie della Cia.
Gianni Sartori
CHI
ERA GIACOMO TURRA
Nel 1997 il Senato Accademico
dell’università di Padova ha votato all’unanimità di
dedicare un’aula a Giacomo Turra, il giovane assassinato
due anni prima in Colombia dove era andato per completare
la tesi in antropologia. Un giusto riconoscimento sia
per Giacomo che per il padre Sisto, docente di Ortopedia
nel policlinico di Padova, una spinta per continuare
a lottare invocando giustizia.
Giacomo, studente padovano di 24 anni, era partito il
27 luglio del 1995 per trascorrere un periodo di vacanze
a Cartagena, in Colombia. La sera del 3 settembre, pochi
giorni prima del rientro, viene fermato dalla polizia
all’interno di un ristorante cinese. Si era recato nel
locale per chiedere aiuto. Avvertiva dolori allo stomaco
e si trovava in evidente stato di malessere. I gestori
del locale, invece di dargli soccorso, avvertirono la
polizia. Senza alcun preavviso un vigilante di un vicino
residence lo colpì ripetutamente. All’arrivo della pattuglia
di polizia Giacomo viene buttato a terra e massacrato
di botte. Viene colpito alla testa e al torace ( come
dichiarano i testimoni) e poi trascinato nella camionetta.
All’ospedale arriva con mani e piedi legati. Dopo due
iniezioni con sedativi viene riconsegnato ai poliziotti.
Ritornerà all’ospedale dopo due ore, già cadavere. Il
referto medico parla di morte dovuta a “politraumatismo
e trauma cranico encefalico”. Successivamente si assiste
a vari tentativi di insabbiamento da parte della polizia
colombiana che, contro ogni evidenza, parla prima di
morte per overdose e poi di suicidio. I colpevoli restano
impuniti e i testimoni vengono minacciati di morte.
Va ricordato per il suo coraggio nel testimoniare Julio
Cesar Londono che quella notte del 3 settembre 1995
vide il massacro. Julio ha subito un pestaggio ed è
stato minacciato di morte con pistola alla tempia. Ha
quindi dovuto rifugiarsi in Italia, dato che in Colombia
la sua sorte sarebbe segnata. Recentemente la Lega Internazionale
per i diritti e la liberazione dei popoli ha dato parere
affermativo alla richiesta di istituire un Tribunale
internazionale di opinione sul caso Giacomo Turra, considerandolo
il modo “più pertinente per sollevare la questione dell’impunità
degli uccisori di Giacomo e dell’impunità in generale
in Colombia” ricordando che “nella sua riunione dell’8/9
gennaio 2000 il Consiglio Internazionale della Lega
aveva posto l’impunità come una delle priorità, insieme
ad autodeterminazione e globalizzazione”.
L’obiettivo di un Tribunale di opinione è quello di
supplire alla mancanza di giustizia portando all’attenzione
dell’opinione pubblica internazionale i casi di gravi
violazioni dei diritti fondamentali in modo da creare
le condizioni affinchè cessino le violazioni e i responsabili
siano deferiti alla giustizia ordinaria, nazionale o
internazionale.
G.S.
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