rivista anarchica
anno 30 n.265
estate 2000


Una voce di vento

Solo sapendo dire no si può da vvero dire sì.

Juliette Greco

Scesi dall’auto a toccare il vento, come venuti dalle stelle, ci guardavamo attorno senza fretta.
I colletti alzati delle giacche erano rondini senza vento.
- “Brigata partigiana Alphaville”

Lalli

Le parole sono come il mare, a volte l’impressione di un’onda, altre volte la profondità che è degli oceani. Una voce è anche una traccia, un’impronta, ciò che conferma non tanto i nomi ma il silenzio: ciò che le parole non dicono mai. Nessuno può finire lo spazio e lì crescono le voci immense che si fanno memoria e quell’impazzire di nomi nel vento di cui ci ricordiamo a malapena. Una voce di solitudini scende tra parola e parola e pare aspetti e pare sapere, che niente potrà sfiorarla se l’istante che ferma riposa in sé stesso, nell’intensità di ciò che è. Una voce che si fonde con questo istante si fa però, paesaggio-ricordo : un ricordarsi che plana come un aquilone e lascia scia di sapori-spazi-tempo-brandelli d’aria e di vita che non sono toccati da lancette, da un ticchettare di orologi, ma piuttosto versano la loro poesia nel presente perché renda più tangibile il mondo. Non importa poi che nel mondo, orchi e orchesse, che non hanno mai amato la poesia cerchino di confutarla, di azzopparne il canto o zittirla a seconda delle convenienze e dei casi, perché madama poesia ha le sue strade che più si fanno lontananza più diventano intime, belle, vicine. Disse il saggio “ perché piangi? ...“La gente si nutriva di quella bellezza, ne viveva, e dunque era ben utilizzata.” Così anche in quest’epoca stitica, la bellezza rimasta deve nutrirci, ma insegnandoci che la vita, quella che conta davvero, non quella impacchettata da qualcuno, è creativa, è l’attimo che trova qualcosa che prima non c’era. Senza che a volte lo sappiamo, noi ricreiamo gli attimi, l’istante che si fa bellezza e ci infonde la certezza di qualcosa che aspetta, anche se noi non ne sappiamo più il nome. Da quanto non cantiamo più? Allora, qualcuno deve farlo per noi, per tutti. Un po’ per caso e un pò per gioco pescando tra gli scaffali di una libreria, come al solito con l’urgenza della scoperta e percorrendo mentalmente le mie mappe “nootiche” (S. Benni) in cerca di un po’ di sale - senno - amore e perché no, di desiderio, la mia rete da acque dolci pesca un cofanetto cd con foto in bianco e nero di una ragazza e un titolo bellissimo: Tempo di vento. È così che incontro Lalli o meglio la sua voce. Subito, è una voce, che mi pare vicina a rovesciare il vento da cui i testi sono percorsi e di cui si fanno percorso. Probabilmente, non avendo grande cultura musicale, dirò qualche sciocchezza subito, ma al primo ascolto (poi confermato), ombre esistenzialiste sembrano intrufolarsi tra le parole.

Sono tenaci queste ombre e vive come le parole stesse che intagliano il mondo “come nebbia in dicembre” e risalgono con il loro tempo fino al nostro tempo, con gli stessi cappotti, gli stessi maglioni, la stessa fu liggine e il ricordo, la ribellione e gli occhi caldi, ma tristi, un po’ amari, disillusi, che sembrano non distinguere il sorriso dal sogno.
“Guardaci qui, sorridici ora” (a Donatella) ed è struggente l’intensità di una memoria che si lascia cadere come una foglia e rimane come una foglia tra questo attimo e ogni attimo, in un impensato aprirsi di universo. “Senti la neve come è calda qui” (Mostar) ed ecco i ponti e la neve ovunque e un freddo che non è freddo di neve ma spezzarsi, accorarsi di voce. Un koan zen dice: “ascoltare con gli occhi, vedere con le orecchie” e allora ecco che la morte fa rumore dietro gli occhi, copre gli occhi di chi sta ancora sparando e non ha più una voce, nemmeno l’eco di un qualunque stralunato vento, ed ecco che i suoni si ammalano, nessuno ascolta perché nessuno può vedere nell’altro ciò che fino a poco prima sentiva dentro di sé. Pare stanca in certi momenti la voce di Lalli, arriva come se ritagliasse fiori-parola, sapiente e fragile (anche se vocalmente tutt’altro che fra gile), semplice, diretta. Forse prova soltanto che non apparteniamo al sonno, al riparo o al risveglio, o forse ci incide, ci graffia, ci brucia, dove potremo dimenticare ma solo dimenticando noi stessi. Il suo vento torna a prenderci in una notte in cui potremmo anche dimenticare il buio, alzarci, uscire, sederci su una panchina non importa dove, o sui gradini di casa e ascoltare da soli quello che non ascoltiamo mai e fare cerchi col dito nella polvere, mappe-invenzioni o chissà, e ancora frugare l’aria con sguardo di coraggio e gentilezza e poi risalire la strada con occhi che ascoltano e l’orecchio rapito dal cedere di un pianto che pare muto e da un passo che libera la geografia e non scorda chi si veste di pioggia in un cammino “ che non si racconta, non si legge mai” (Le donne quando restano sole). Nel paese dove vivo, vicino all’Appennino, la pioggia quando cade porta una bruma leggera che rassomiglia i campi alle pianure del nord, dove tra i pioppi pare cancellarsi e scriversi il ricordo di gente che ormai non vediamo quasi più, ma ascoltando con gli occhi, bucando questa realtà con occhi che cantano ecco che a tratti, per caso, per gioco, ho visto un uomo scendere da un’auto “toccare il mondo” e chiedere a qualcuno di cantare perché “è aprile è vento e ho più paura” e perché ascoltando quando si è soli, si possono toccare le stelle e si può vedere il mare che riposa e in quell’azzurro immergersi nel proprio confine tra le parole e il cuore. “Senti la neve? Senti la neve”. (Mostar).

Nadia Agustoni

NOTA: le frasi tra virgolette sono quasi tutte citazioni dai testi di Lalli. Anche dove non le indico espressamente per non appesantire il testo. Il detto del saggio all’inizio è tratto da “ Usa cio che sei”, Edizioni Armita..

 

Dal totalitarismo al cannibalismo

Maggio 1986: Zheng Yi, noto romanziere e apprezzato giornalista, ritorna nello Guanxi, la provincia della Cina meridionale che confina con il Vietnam, per fare un’inchiesta (Stèles rouges di Zheng Yi, Ed. Bleu de Chine, 1999, pp. 288, 149 FF di J-J-Gandini) sulle voci che corrono a proposito di episodi di cannibalismo nel corso della Rivoluzione Culturale e di cui aveva avuto sentore quando, da giovane guardia rossa, era stato in quella regione nel 1968, quando, nei mesi estivi, la lotta tra le varie fazioni per il potere aveva raggiunto il culmine. Grazie a due lettere di presentazione dell’associazione degli scrittori cinesi e del “Giornale di Diritto Cinese” , sarebbe riuscito ad avere accesso agli archivi del partito comunista del capoluogo, Nanning. In particolare era riuscito a mettere le mani sui materiali raccolti in occasione della campagna ideologica del 1983, lanciata per “la composizione dei problemi lasciati aperti dalla Rivoluzione Culturale”, un eufemismo per indicare gli autentici massacri che si erano verificati ai tempi. Quello che scoprì era talmente agghiacciante che, per trovare conferme, si mise alla ricerca dei testimoni del dramma, dei figli delle vittime, oltre che di certi protagonisti (almeno quelli che accettavano di parlare), recandosi sul posto per tentare di ritrovare le tracce.

All’inizio le prime vittime della “violenza di massa” sono ammazzate a colpi di forcone e di pala, strangolate, annegate, decapitate, impiccate a un albero, oppure precipitate ancora vive nelle fosse e finite a colpi di pietra. Si arrivò addirittura a far esplodere petardi nella vagina di alcune donne sottoposte al supplizio. Dopo poco tempo le vittime erano mangiate. SÌ, MANGIATE ! “Ogni volta che c’era una ‘manifestazione di lotta’, le vecchie arrivavano a precipizio con il cesto per le vivande sotto il braccio e si mettevano in attesa. Appena la vittima emetteva l’ultimo sospiro, tutti si riversavano: i primi arrivati tagliavano i pezzi pregiati, i ritardatari si dividevano le ossa”. Certe volte gli infelici erano sventrati e fatti a pezzi ancora vivi: “Quando il condannato era ancora in vita, gli si staccava la carne pezzo per pezzo, la si metteva a friggere nell’olio e la si mangiava sotto i suoi occhi”. Le interiora sono le parti più ambite, perché secondo le credenze locali servono a guarire diverse malattie: cervello, cuore, intestino, utero e soprattutto “il fegato che si ritiene dia coraggio e sia anche un efficace tonico...” purché lo si gusti nelle condizioni stabilite: “Uno camminava tenendo il fegato in mano: incontrò un vecchio amico che gli chiese: “Quel tale – la vittima – era d’accordo che tu gli mangiassi il fegato?’ Interdetto, l’uomo rispose: ‘E come avrebbe potuto essere d’accordo?’ Al che l’amico gli obietto: ‘Se non era d’accordo, il fegato perde tutti i suoi poteri!’ Al che il nostro si mise in cerca di un’altra vittima. Dopo averle strappato con la tortura l’assenso, strappò il fegato dall’infelice ancora vivo. Dopo di che andò a mostrarlo alla madre della vittima e le disse: ‘Guarda, è il fegato di tuo figlio!’ La donna, sconvolta, cadde svenuta.” Anche il cervello era apprezzato: mangiandolo, i vecchi si aspettavano di ringiovanire. “Ognuno infilava nel cranio un tubo d’acciaio di un diametro adeguato, una cui estremità era stata passata alla mola e risultava affilata come la lama di pugnale, poi s’inginocchiava a terra per aspirare il cervello, come un gruppo di vecchi amici che bevono insieme con la cannuccia da una grossa scodella piena di yogurt!”
Il cannibalismo che si fece strada nel Guangxi, soprattutto nel distretto di Wuxuang, durante la rivoluzione culturale, raggiunse il suo parossismo durante il mese di giugno ‘68 (pensiamo ai discorsi dei “maoisti” dell’epoca!...), può essere analizzato come indice di un arretramento superstizioso e di un’avidità esacerbata dal permissivismo di un ordine che considera l’omicidio di massa come un mezzo di appropriazione tra tanti altri.
Anche se a noi sembra agli antipodi rispetto all’umanesimo confuciano, non è che il “marchio” della minoranza Zhuang che popola il distretto di Wuxuang, marchio di cui si trovano tracce in una vecchia ballata popolare citata dall’autore di “Stèles Rouges”: “(Essi) uccidevano e mangiavano il loro primogenito immediatamente dopo la sua nascita per portare fortuna al secondogenito”. In effetti, oltre alle descrizioni di scene di cannibalismo negli “Anziani Annali di Tang”, redatti nel corso del X secolo, due dei più famosi classici della letteratura cinese, “Au bord de l’eau” e “Le Roman des trois Royaumes” sono pieni di scene di uccisioni e di cannibalismo.

Ecco una sola citazione tratta dal primo: “... i viaggiatori ci fanno arricchire, noi gli facciamo bere un narcotico e quando sono morti, tagliati in grossi pezzi di carne, vengono venduti come carne di buffalo giallo; le frattaglie e i piccoli pezzettini servono come ripieno per la pasta. Ogni giorno, io (l’albergatore, autore del libro, n.d.a.) vado a vendere questa pasta farcita nei villaggi vicini, ecco cosa ci dà da vivere”. Nel suo primo romanzo, “Il giornale di un pazzo” (1918), Lu Xun diceva indignato: “...quando si percorre tutta la storia della Cina, si ritrova un sola parola: quella del cannibalismo”!
Una violenza tanto sfrenata, che nel solo Guanxi aveva provocato la morte di decine di migliaia di persone, non si era sviluppata spontaneamente, non era stato il frutto di una perdita di controllo dei “cattivi istinti”, ma trovava la sua origine dal “tifone forza dodici della lotta di classe”, provocato e incoraggiato dalle locali autorità politico-militari dipendenti dal partito comunista. Infatti, alla fine del “Comunicato del 3 luglio” emesso congiuntamente dal Comitato centrale del partito, dalla Commissione degli affari di Stato, dalla Commissione militare centrale e dal gruppo incaricato della Rivoluzione Culturale formato da Comitato centrale, ormai schierato con Mao Zedong, si affermava che era necessario intensificare la repressione contro i “nemici di classe”. Per questo si doveva lasciare libero corso alla “collera popolare”, il che equivaleva a dire che era ormai lecito spargere il sangue nei confronti delle “quattro categorie”, latifondisti, contadini ricchi, controrivoluzionari e cattivi elementi, e dei ventitré generi, reazionari, spie, ex membri attivi del Guomindang, ex detenuti eccetera, in altre parole i beneficiari del vecchio regime come i refrattari al nuovo ordine sociale, con un campo d’azione amplissimo, che toglieva ogni ostacolo all’arbitrio totale, perché non era necessaria un’imputazione precisa nei confronti delle vittime: bastava la loro “appartenenza di classe”. Siccome l’origine di classe era considerata redibitoria ed ereditaria, intere famiglie furono sterminate. Le “riunioni di lotta” si succedevano incessantemente e si concludevano automaticamente con condanne a morte, seguite da esecuzioni immediate e dallo smembramento dei cadaveri, lì sul posto. Gli autori di queste violenze erano “le guardie rosse, giovani studenti e adulti poveri, coolies, uomini di fatica, lavoratori sul fondo della scala sociale, insoddisfatti dell’ordine esistente [che] esprimevano con questa striscia di sangue la propria opposizione all’ingiustizia sociale.”

Al termine della sua inchiesta, Zheng Yi distingue tre fasi del fenomeno di cannibalismo:
1. una fase di “lancio”, con azioni furtive condotte in un clima di terrore: esecuzioni operate nella notte e smembramento dei corpi umani attuato a casaccio;
2. una fase di “festa”: il cannibalismo si diffonde su vasta scala e in un clima d’entusiasmo. Chi vi partecipa acquista una certa esperienza nel prelievo di cuore e fegato, grazie ai consigli degli anziani combattenti . Nel corso di questi pranzi collettivi, veri e propri “banchetti di carne umana”, che si svolgono un po’ dappertutto, fin nelle mense delle scuole e degli ospedali e nei refettori degli edifici pubblici , si cuoce nella stessa pentola, in pezzetti delle stessi dimensioni, carne umana mista a carne di maiale; poi si mette il recipiente molto in alto, in modo che il contenuto non sia visibile ai convitati e tutti quanti in fila, uno per volta ne pescano un pezzo. Quest’idea “ingegnosa” fa sì che si possa accettare l’eliminazione cannibalesca della vittima senza, per quanto possibile, inghiottire davvero carne umana. È la trasgressione dell’interdetto senza un vero e proprio passaggio all’atto, almeno esplicitamente.
È una forma di autoinganno: “L’isteria collettiva e la coscienza individuale possono marciare di pari passo senza inconvenienti.”
3. Una fase di “follia collettiva”: il cannibalismo è promosso al rango di “movimento di massa”. Si tratta di realizzare “l’eliminazione delle classi” predicata dalla teoria marxista-leninista, nel senso più radicale del termine.

Siamo così in presenza di una violenza organizzata i cui diretti responsabili sono Mao Zedong e il partito comunista. Secondo l’autore “nel corso della Rivoluzione Culturale nello Guangxi il cannibalismo corrisponde al dispotismo sanguinario del partito comunista”. In discussione non è “una sorta di particolare difetto innato del popolo cinese o profondamente radicato nell’animo umano”, ma la struttura del potere, quella del totalitarismo.
Per questo è giusto che una “stele commemorativa di colore rosso [sia] eretta nello Guanxi [e che] i bambini di ogni parte del mondo vi incidano con la propria grafia infantile le parole: ‘Mai più questo!’”.

NOTA Molto attivo nel corso del movimento dell’aprile-maggio 1989, Zheng Yi è rimasto per tre anni nella clandestinità dopo la repressione che è seguita al massacro della piazza Tienanmen, nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989, prima di riuscire a raggiungere Hong Kong. Oggi risiede negli Stati Uniti.
Gli avvenimenti descritti in questo articolo si sono svolti nel corso del 1969, nello stesso momento in cui in Francia i “maoisti” vantavano i meriti della “Grande Rivoluzione Culturale Proletaria”...

Jean-Jaques Gandini

MERCANTI DI LIQUORE
Concerti Luglio-Settembre 2000

6 luglio
h 21.30
Vivi la tua città
Parco S. Agostino, Bergamo città alta
8 luglio
h 22.00
Resinelli Rock
Piani dei Resinelli (LC)
13 luglio
h 22.00
Festa di Liberazione
Fiera di Osnago, Osnago (LC)
20 luglio
h 22.00
Festa dell'Unità
Bergamo località Celadina
30 luglio
h 21.30
Villa Molea summer festival
Moglia (MN)
proiezione del video Faber e concerto
3 agosto
h 21.30
Tributo a Fabrizio De André
Arena estiva Cinema Astra, Parma
proiezione del video Faber e concerto
12 agosto
h 22.00
Concerto per la Comunità montana
Castel del Monte (AQ)
21 agosto
h 22.00
Festa dell'Unità
Sant'Arcangelo di Romagna (FO)
1 settembre
h 22.00
Festa dell’Unità
Fiera di Osnago, Osnago (Lc)

Durante i concerti sarà in vendita “Signora Libertà, Signorina Anarchia”, numero speciale di “A” dedicato a Fabrizio De André.

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