rivista anarchica
anno 30 n.265
estate 2000


amarchia

Malatesta e il fascismo, gli anarchici e la democrazia
di Francesco Berti

Le insufficienze dell’anarchsimo “classico” nell’analisi storica dei regimi totalitari rischiano di condizionare negativamente il nostro agire, oggi.

La risposta di Massimo Ortalli su "A" n° 262 ad uno studente che gli chiedeva delucidazioni sul rapporto tra Malatesta (e più in generale l’anarchismo) e il fascismo non mi ha del tutto convinto. Vorrei dunque aggiungere qualche cosa alla questione, sperando di contribuire ad un dibattito che ritengo utile non solo su un piano storiografico, ma anche, e soprattutto, su un piano di attualità politica. Ortalli scrive che Malatesta e gli anarchici italiani non misero sullo stesso piano la democrazia e il fascismo, e che essi ´seppero pienamente cogliere le differenze sostanziali fra i due sistemi di potere, e quindi anche gli strumenti con cui impostare la lotta contro la reazione1. Confesso che nutro più di un dubbio in merito, poiché credo invece che Malatesta e gli anarchici italiani, come tutto il movimento socialista in generale, non solo sottovalutarono inizialmente la pericolosità del movimento fascista ma anche non compresero per molti anni la vera natura totalitaria del regime mussoliniano, che ne faceva qualcosa di irriducibilmente diverso, sotto il profilo qualitativo e quantitativo, da qualunque tipo di governo autoritario "alla Crispi".
Certo, per noi oggi fare certe distinzioni è relativamente semplice (scrivo relativamente perchè una buona parte dei compagni si ostina ancora a considerare la democrazia sullo stesso piano di ben peggiori regimi politici), mentr ottant’anni fa, era più difficile, se non quasi impossibile (alcuni comunque, tra i quali Francesco Saverio Merlino, avevano già tratto determinate conclusioni ben prima dell’avvento del fascismo). Malatesta, nel giudizio sulla democrazia, non seppe (o forse non volle) guardare così lontano come fece il suo compagno di tante battaglie, e rimase in questo, più di lui, un uomo del suo tempo, o, meglio, un rivoluzionario nel senso quasi bakuninano del termine, dopo esserlo stato, ba-kuninano più o meno integrale, per gran parte della sua vita. Non era facile comunque, ribadisco, capire allora certe differenze: la democrazia non era quale la conosciamo oggi, con tutti i suoi limiti, certo, ma anche con la relativa libertà che garantisce e con il benessere diffuso del capitalismo avanzato.

 

Tutti sullo stesso piano?

Lo Stato liberale italiano di fine ’800 e di inizio ‘900 era uno Stato autoritario, infinitamente più di classe di quanto lo sia ora, nel senso che il potere politico era di fatto il custode di un ordine economico fondato sulla divisione tra una minoranza di proprietari e una grande maggioranza di proletari e contadini che vivevano in condizioni di povertà estrema quando non di miseria. Solo nel dopoguerra Giolitti tentò di trasformare lo Stato liberale in uno Stato liberaldemocratico ma non vi riuscì: anche negli anni precedenti il fascismo, dunque, lo Stato italiano assomigliava molto più ai regimi liberali precedenti che alle democrazie odierne. L’introduzione del suffragio universale maschile e altre riforme varate dai governi toccarono quasi esclusivamente l’assetto istituzionale e non contribuirono a migliorare significativamente le condizioni materiali delle classi oppresse.
Da un lato, dunque, era molto difficile comprendere la differenza tra Stato autoritario e Stato liberale (perchè tale differenza spesso era nei fatti irrisoria), e tra Stato liberale e Stato democratico (perché le democrazie non erano ancora consolidate); dall’altro, soprattutto, l’umanità non aveva ancora sperimentato le gioie del totalitarismo, per cui il giochetto propagandistico di mettere tutti i regimi politici più o meno sullo stesso piano non era poi così grave, né da un punto di vista etico né sul piano politico.
Con la presa del potere dei comunisti in Russia però, le cose cambiarono, e la famosa lettera a Fabbri del 1919 dimostra che Malatesta, sfidando l’impopolarità, seppe capire come pochi altri quanto stava avvenendo nell’ex impero zarista. Nella missiva in questione, e in altri successivi interventi, l’anarchico italiano, applicando ed approfondendo le analisi di Bakunin che indicavano nel marxismo l’ideologia di una nuova classe burocratica in ascesa, la quale, una volta giunta al potere, avrebbe instaurato il peggiore dei dispotismi immaginabili, affermò che quello bolscevico era un regime molto più autoritario di quello liberale, poichè si trattava di un “governo assoluto e senza limiti costituzionali”, di una “dittatura di un partito, o piuttosto dei capi di un partito”, che avrebbe consolidato “i nuovi interessi che si vanno costituendo” e che avrebbe difeso “contro la massa una nuova classe privilegiata”2. Per Malatesta, i bolscevichi in Russia avevano instaurato un vero e proprio regime poliziesco, e la polizia del nuovo governo “uguagliò e superò in ferocia e mania liberticida quella stessa del regime zarista”3.
Nell’analisi del fenomeno bolscevico l’anarchico italiano dimostrò dunque di saper comprendere con grande anticipo sugli sviluppi futuri la natura totalitaria, liberticida e poliziesca del comunismo. Lo Stato comunista era un regime qualitativamente diverso da tutti gli altri precedenti: mai nella storia si era data una tale concentrazione di potere politico ed economico, mai il governo aveva avuto un tale dominio sugli individui. Quella dei bolscevichi era una dittatura che respingeva quelle libertà “formali”, quelle norme costituzionali e quelle divisioni del potere tipiche degli Stati liberali e tanto irrise e disprezzate dalla sinistra rivoluzionaria. I comunisti in Russia stavano dando vita ad una forma di dominio che rigettava quegli argini giuridici che si frapponevano al dispiegamento assoluto del potere statale che il liberalismo e la classe borghese avevano imposto alle monarchie europee tra il XVIII e il XIX secolo, cercando di proteggere, certo e in primo luogo, i loro interessi economici e politici, i loro interessi di classe, ma proteggendo o meglio ponendo le premesse perché lo Stato salvaguardasse le libertà fondamentali di ogni cittadino.
Certo, gli Stati liberali perseguitavano, imprigionavano, in alcuni casi uccidevano gli anarchici e i rivoluzionari, servendosi spesso di leggi speciali per oltrepassare i limiti suddetti (cosa che talvolta accade, ma certo in forme non paragonabili al passato, anche oggi). In alcuni paesi, la forma liberale dello Stato era solo una maschera con la quale si copriva un autoritarismo che di liberale aveva ben poco, così come ora in alcuni paesi, ad esempio sudamericani, alla facciata democratica fa da contralto un contenuto militare o paramilitare, una tale divisione in classi della società, con pochi ad aver tutto, e la gran parte degli altri ad avere un bel niente, da rendere oggettivamente poco significativi per non dire mistificanti i paramenti democratici e liberali.

 

Gli errori di Malatesta

Tuttavia, il potere degli Stati liberali e spesso anche di quelli autocratici, come la Russia, non era quasi mai così capillare e pervasivo da impedire completamente una qualche forma di propaganda, anche clandestina, dei libertari e una qualche forma di autonomia della società civile e degli individui. Esistevano inoltre paesi nei quali le libertà fondamentali si andavano consolidando da secoli, e lo Stato liberale si stava trasformando rapidamente e senza grandi traumi in Stato democratico. L’Inghilterra era uno di questi, e proprio in quel paese, non a caso, trovarono rifugio molti rivoluzionari e anarchici, tra i quali Malatesta e Kropotkin.
Tornando a Mala-testa, a me pare che nella disamina del fascismo egli fu assai più contraddittorio che nell’atteggiamento assunto nei confronti del bolscevismo, cosicché occorre meditare profondamente ancor oggi sugli errori suoi e su quelli della sua generazione: quello che all’epoca di Malatesta può essere stato storicamente comprensibile, oggi non lo é più, e il non portare alle conclusioni certi ragionamenti significa, sempre secondo la mia opinione, condannarsi ad una sterilità e ad una marginalità imperdonabili. È vero: Malatesta, prima di altri, capì già durante il biennio rosso che la sconfitta del movimento dei lavoratori avrebbe portato l’Italia alla catastrofe, che Stato e padronato avrebbero scatenato sulle classi popolari una reazione senza precedenti. Quando montò la reazione fascista, fu tra i primi a denunciare la gravità della violenza squadrista, ad appoggiare la resistenza armata, a cercare alleanze di grande respiro per impedire il precipitare degli eventi. Èsortò i partiti della sinistra e le masse a reagire in maniera compatta. Quando i fascisti marciarono su Roma scese nelle strade, a settant’anni, per combattere egli stesso sulle barricate. Malatesta fece insomma molto, moltissimo. Cosa gli si può imputare, dunque? Non certo la creazione di quel clima di violenza generalizzata che egli molto acutamente additò come una delle cause che avevano di fatto favorito l’affermazione del fascismo: tanto fu radicale nelle idee e nei propositi, tanto era misurato negli atteggiamenti e non incitò mai alla violenza per la violenza. Le sue pur contraddittorie riflessioni degli ultimi anni proprio sul problema della violenza sono tra le pagine più belle e commoventi che ci ha lasciato, fonte, per quanto mi riguarda, di lunghe meditazioni.
Tuttavia, è oggi necessario riconoscere che la delegittimazione dello Stato liberale alla quale anch’egli contribuì ebbe la sua non piccolissima parte nel far sì che non vi fosse, da parte del popolo italiano, quella reazione in difesa delle libertà fondamentali che lo Stato liberale, bene o male, garantiva. Si può spiegare solo con la stanchezza derivata dal fallimento del moto rivoluzionario del biennio rosso e con la protezione e l’appoggio governativo di cui godevano le squadre fasciste la scarsa e in alcuni casi nulla reazione popolare di fronte al dilagare della violenza fascista?
Io penso sinceramente di no, e credo che una certa propaganda anarchica - anche dello stesso Malatesta - abbia avuto il suo non irrilevante peso nel tracollo delle istituzioni liberali. Non avevano forse ripetuto per decenni - Malatesta e gli anarchici - che le libertà democratiche erano libertà formali e borghesi, e che le libertà vere erano ben altre?
Ortalli ritiene che Malatesta e gli anarchici del tempo ebbero ben chiaro il concetto di male minore. Leggendo certe pagine di Malatesta ne ricavo piuttosto l’impressione contraria. In un articolo del 1922, scritto pochi mesi prima della marcia su Roma, così si espresse il nostro compagno: “Nessuno vorrà mettere in dubbio il nostro vivo desiderio di veder debellato il fascismo e la nostra ferma volontà di concorrere, come possiamo, a debellarlo. Ma noi non vorremmo abbattere il fascismo per sostituirgli qualche cosa di peggio, e peggio del fascismo sarebbe il consolidamento dello Stato”... I fascisti bastonano, incendiano, uccidono, violano ogni libertà, calpestano nel modo più oltraggioso la dignità dei lavoratori. Ma, francamente, tutto il male che il fascismo ha fatto in questi ultimi due anni e che farà in quel tempo che i lavoratori gli lasceranno la vita, è forse paragonabile al male che lo Stato ha fatto, tranquillamente, normalmente, per anni innumerevoli e che farà fino a che avrà esistenza?4.

 

Il male minore

Ripeto, è sempre facile giudicare a posteriori, col senno di poi, e soprattutto in questo caso occorre tenere conto di una serie innumerevole di fattori: in effetti, il fascismo si presentò inizialmente con un programma politico confuso ed eterogeneo, e il partito di Mussolini pareva essere nulla più che un movimento foraggiato dalla borghesia e dal capitale per ripristinare quell’ordine “borghese” che il movimento operaio aveva tentato di scardinare. Inoltre, il partito fascista dava l’impressione di essere poco più di un’accozzaglia di delinquenti e cialtroni che sarebbe rientrata nei ranghi dopo aver seminato un po’ di scompiglio e di terrore. Leggiamo ad esempio cosa scrive Malatesta subito dopo la marcia su Roma: “A parte le pose che vorrebbero parere napoleoniche, e non sono invece che pose da operetta, quando non sono atti da capobrigante, noi crediamo che in fondo non vi sarà nulla di cambiato, salvo per un certo tempo una maggiore pressione poliziesca contro i sovversivi e contro i lavoratori. Una nuova edizione di Crispi e di Pelloux”5. Ancora dopo alcuni anni che Mussolini si era insediato al potere, molti ( tra cui lo stesso Malatesta ) ritenevano che il regime fascista non sarebbe durato a lungo.
Malatesta perciò, a mio avviso, sottovalutò sia Mussolini che il fascismo, anche se comprese sin dall’inizio che tra i fascisti e i comunisti c’erano molte più similitudini che differenze, e che entrambi i movimenti miravano all’instaurazione di un tipo di regime molto simile6. Negli ultimissimi anni di vita, poi, a dimostrazione della sua intelligenza fuori dal comune e della sua elasticità mentale, egli intuì che fascismo e comunismo stavano dando vita ad un tipo di potere inedito e ad un tipo di regime assai simile: uno Stato caratterizzato dall’”accentramento economico, con relativo assolutismo politico, divenuti a poco a poco, soprattutto dopo la guerra, una specie di credo universale7. Si tratta di quel tipo di Stato che è stato successivamente definito totalitario - l’invenzione del termine è dello stesso Mussolini - e che non rientrava, proprio perché si trattava di una primizia, nelle tradizionali forme di classificazione del potere politico: categoria contestatissima, naturalmente, dalla storiografia marxista sino a tempi recenti, e ancor oggi negata da alcuni dinosauri dell’era marxista leninista8.
Per quanto riguarda poi il problema del male minore, non credo che i giudizi di Malatesta siano dovuti solo ad errori di valutazione (relativi alla forza del movimento fascista e alla sua durata), e dunque non penso che si tratti solo di errori tattici. Ritengo invece che essi siano stati causati da un’effettiva incapacità degli anarchici e dello stesso Malatesta di comprendere il valore delle libertà democratiche e liberali. Si leggano gli articoli che Malatesta scrisse sulla democrazia negli anni ’20. Certo, sono più “raffinati” di quelli scritti precedentemente, e in più di un’occasione l’anarchico italiano arrivò a sostenere che la peggiore delle democrazie è comunque preferibile alla migliore delle dittature, come in “Pensiero e Volontà” del 15 marzo 1924. Siamo però appunto nel 1924, e, come si suol dire, il latte era già stato versato. Non solo: il “riconoscimento” di Malatesta è sempre fatto a denti stretti, c’è sempre la tendenza a mettere sullo stesso piano i due regimi, perché Malatesta considera democrazia e dittatura quasi esclusivamente sotto il profilo di varianti “formali” dell’essenza statale: rapportate all’anarchia, le differenze tra democrazia e dittatura appaiono poco significative, gli sembrano addirittura fuorvianti. Si legga a questo proposito l’articolo scritto da Malatesta su “Pensiero e volontà” del 6 maggio 1926 e si mediti sul seguente passo: “Potrei dilungarmi per dimostrare, col ragionamento appoggiato ai fatti contemporanei, come non sia nemmeno vero che quando vi e governo, cioe comando, possa davvero comandare la maggioranza, e come in realtà ogni “democrazia” sia stata, sia e debba esre nient’altro che una “oligarchia”, un governo di pochi, una dittatura”9. La democrazia, per Malatesta, è dunque nella sostanza, ancora nel 1926, equiparabile alla dittatura.

 

Bene assoluto e bene relativo

Evitiamo di considerare il rifiuto di Malatesta e degli anarchici del suo tempo (e di gran parte degli anarchici anche oggi) del principio di maggioranza come criterio regolatore delle decisioni politiche, in nome di un principio, quello del “libero accordo” di ardua applicazione in una buona parte della vita pubblica anche di una società libertaria, come aveva già dimostrato Merlino a cavallo del secolo scorso nella famosa polemica che lo vide contrapposto proprio a Malatesta.
Limitiamoci a prendere in esame l’analisi malatestiana del rapporto tra democrazia e dittatura. Come avrebbe potuto Malatesta sostenere che, aldilà del fatto indubbio che anche in regime democratico, a ben guardare, sono le minoranze a comandare, la democrazia è comunque migliore, da un punto di vista libertario, delle dittature?
A mio avviso, egli avrebbe potuto considerare democrazia e dittatura non in rapporto al bene assoluto (l’anarchia), bensì al bene relativo (la libertà sostanziale e reale resa possibile da quella istituzionale e “formale”): è sotto questo profilo, infatti, che democrazia e dittatura, che democrazia e totalitarismo sono radicalmente diversi.
Democrazia e dittatura differiscono infatti non solo per i meccanismi con i quali vengono selezionate le èlites dirigenti, ma soprattutto per le libertà fondamentali di cui godono i cittadini, per la libertà che anima la società civile sottostante e che esiste ed è possibile proprio in quanto al potere dello Stato sono posti limiti e vincoli precisi. Paragoniamo infatti, da un punto di vista della libertà degli individui e della società, dittatura, Stato totalitario e democrazia. Nel caso della dittatura, la libertà sia della società che dell’individuo è minima; nel caso dello Stato totalitario l’una e l’altra sono inesistenti, perché il potere politico assorbe completamente la società e irregimenta gli individui, non solo imponendo il disciplinamento dei corpi, ma pure pretendendo l’adesione delle coscienze; nel caso delle democrazie, invece, la libertà della società civile e degli individui che la compongono è generalmente grande, anche se non sempre e non per tutti. Bisogna dunque operare per rafforzarla ed estenderla, non combatterla come una mistificazione. Come scriveva Pier Carlo Masini nell’introduzione al libro di Luce Fabbri che abbiamo già citato: “Una cosa è denunziare le illusioni della democrazia; altra cosa è condannare la democrazia come illusione”10.

 

Un rivoluzionario ostile alla democrazia

Io credo che Malatesta e più in generale l’anarchismo di quel periodo storico, per tutta una serie di motivi che solo in parte ho sfiorato, abbia combattuto la democrazia come un’illusione, e che questa propaganda abbia tra l’altro favorito, insieme ad una serie di altri fattori sicuramente più importanti e decisivi, l’instaurarsi del fascismo. Come ho già scritto da un’altra parte, Malatesta non seppe portare alle estreme conseguenze, per le chiare cadute antirivoluzionarie che l’applicazione di tale principio nel campo politico comportava, il criterio metodologico da lui stesso elaborato: la distinzione tra giudizi di fatto e di valore. Egli in verità lo aveva pure applicato al campo della politica, quella rivoluzionaria, concependo la rivoluzione come l’atto violento con il quale un ampio fronte progressista, del quale gli anarchici avrebbero dovuto costituire la punta più avanzata, avrebbe abbattuto lo Stato borghese e instaurato non già l’anarchia, la quale non può essere imposta con la forza, bensì un regime più libero, nel quale fosse soppresso lo Stato e il sistema di produzione capitalistico: in questo terreno di libertà neutra ciascuno avrebbe potuto, secondo Malatesta, sperimentare le forme sociali ed economiche che avrebbe ritenuto più opportune, senza naturalmente limitare l’eguale libertà degli altri di fare altrettanto.
Malatesta aveva insomma compreso che la libertà, storicamente e politicamente, viene prima dell’anarchia, e che all’”assoluto” si può tendere solo se è prima stato realizzato il “relativo”. Tuttavia, egli rimase fino in fondo un rivoluzionario ostile alla “democrazia borghese”, e ritenne sino alla fine che la democrazia non potesse costituire quel terreno neutro di libertà, quello spazio di libera sperimentazione che invece le masse avrebbero dovuto creare con l’insurrezione.
Certo, alcune sue riflessioni possono far pensare che forse egli avrebbe fatto evolvere il suo pensiero nel senso di considerare la democrazia non solo il male minore ma anche il bene relativo, dal quale poter iniziare il lavoro di costruzione di una società libertaria11. Ma... fermiamoci qui. Non sarebbe infatti né utile né corretto interpretare il pensiero di Malatesta e cercare di capire cosa avrebbe detto e fatto.
Malatesta visse cento anni fa, e io penso che, in fatto di democrazia, senza per questo diventare “elettoralisti” o abiurare l’idea che la costruzione di una società libera debba avvenire principalmente fuori dalle istituzioni statali, si possa e si debba andare oltre le sue considerazioni. Del resto, alcuni nostri compagni, negli ultimi cinquant’anni, lo hanno già fatto: non sto scrivendo dunque nulla di troppo nuovo o di troppo eterodosso12.

 

Rafforzare le libertà

Credo che il miglior rispetto che possiamo portare alle idee di Malatesta - come alle idee dell’anarchismo in generale - consista a mio avviso nello sviluppare le intuizioni migliori, rimanergli fedeli nello spirito applicando il suo metodo - che mi pare tuttora il migliore tra quelli esistenti - alla realtà di oggi. Essere malatestiani nel senso di ripetere quanto ha detto Malatesta in condizioni storiche molto diverse da quelle attuali può infatti portare alla morte del suo pensiero se non, e peggio, alla sua caricatura, mentre invece penso che quello che ci interessi è rendere vivo il suo insegnamento nella forma in cui oggi può prosperare.
Credo, in definitiva, che, con tutti i suoi limiti e i suoi difetti - e ogni società, anche più libera e più uguale di questa, anche libertaria, ne avrebbe, di limiti e di difetti, perchè la libertà realizzata storicamente non potrà che essere sempre, come ogni cosa vivente, relativa, conflittuale, pluralista - la democrazia possa essere ritenuta vicina a quel terreno di libertà “neutra” che per Malatesta doveva essere il punto di partenza per l’avanzamento stesso della società verso l’anarchia. La democrazia, per un anarchico, non può costituire naturalmente un fine. Può costituire, laicamente, lo spazio per il confronto e lo scontro delle idee, per il mercato delle opzioni nel quale operare per “far vincere” - senza imposizioni, senza violenza - la propria.
Anche alla luce delle esperienze totalitarie del secolo appena concluso, io credo che il miglior modo per avvicinarci ad una società senza Stato e senza classi - obiettivo che ritengo non possa comunque essere storicamente conseguibile nel senso letterale e assoluto del termine, perché l’assoluto non potrà mai darsi nella storia umana - sia quello di rafforzare e di estendere le libertà democratiche, i diritti dell’individuo sia su un piano sociale e politico sia su quello economico, campo nel quale sono decisamente minacciati da un potere economico e finanziario oligarchico che vuole sempre più svincolarsi da ogni controllo politico (e questa è certo una forma di autoritarismo da non sottovalutare, come ha giustamente ricordato Massimo Ortalli e come l’attualità politica ci ricorda di continuo). Rafforzare le libertà e le autonomie comunali, controllare ancor più e ancor meglio l’esercizio del potere, lavorare per il suo decentramento e per costruire un po’ alla volta una democrazia il più diretta possibile che sostituisca l’attuale forma di democrazia rappresentativa; battersi affinché vengano rispettati e ampliati i diritti dei lavoratori e dei consumatori in ogni parte del mondo e lavorare perché la democrazia cominci ad essere applicata anche nell’ambito economico, dal quale, per compiacere la classe imprenditrice, è stata sempre respinta; estendere i diritti di cittadinanza e i diritti politici alle fasce che non ne godono, come gli immigrati, difendere sempre e in ogni caso le libertà fondamentali degli individui, di tutti gli individui indipendentemente dal colore della pelle, dalla razza o dalla religione, dalle idee politiche.
Queste e molte altre sono, a mio parere, le lotte che noi anarchici dovremmo svolgere oggi - e in parte, nei limiti delle nostre forze, le stiamo già svolgendo - per puntare all’instaurazione di una anarchia possibile, che non è altro a mio parere che una forma libertaria di democrazia. Far avanzare la democrazia verso l’anarchia, non lavorare per abbattere la democrazia. Come ha affermato Martin Buber e prima di lui Gustav Landauer, lo Stato si distrugge nel momento in cui gli uomini instaurano tra di loro altri tipi di rapporti diversi da quelli statuali. È necessario dunque lavorare prima di tutto per far sì che gli uomini instaurino tra di loro rapporti libertari, e si liberino dello Stato nelle loro menti e nelle loro azioni: il superamento dello Stato, nel senso di un avanzamento della società verso l’anarchia, sarà possibile solo quando la società civile sarà così forte, così comunitariamente strutturata, così democraticamente matura da poter fare a meno di un potere politico centralizzato e gerarchico. Altrimenti la rivoluzione non potrà che essere un pericoloso salto nel vuoto, che rischierebbe di portare indietro la società, aldiquà della democrazia, invece che aldilà, come ha scritto Amedeo Bertolo e come vorremmo tutti noi13.

Francesco Berti

 


Armando Borghi e Luciano Farinelli

1 - Scrivo “quasi” perchè la concezione gradualistica del mutamento sociale così come concepita da Malatesta negli ultimi anni di vita, se pure strutturata ancora intorno al momento centrale dell’insurrezione, rappresenta certo un passo in avanti verso una visione strategica più aderente alla realtà del suo e anche del nostro tempo. Un passo in avanti che però oggi non può essere considerato un punto di arrivo. Cfr. il capitolo Riformismo, gradualismo e rivoluzione in Malatesta E., Il buon senso della rivoluzione, Elèuthera, Milano 1999, pp. 83-115.
2 - Id., Lettera a Luigi Fabbri sulla “dittatura del proletariato”, Londra, 30 luglio 1919, ora in Id., Il buon senso della rivoluzione, cit. pp. 200-1.
3 - Id., Bolscevismo e anarchismo, “Libero Accordo”, 7 novembre 1923, ora in ivi, p. 202.
4 - Id., “Umanità Nova”, 14 marzo 1922, ora in ivi, p. 230. Corsivo mio.
5 - Id., Il fascismo e la legalità, “Umanità Nova” 25 novembre 1922, ora in ivi, p. 234.
6 - Cfr. ad esempio Id., Comunisti e fascisti, “Pensiero e volontà”, 1 maggio 1924, ora in ivi, pp. 237-8.
7- Id., Francesco Saverio Merlino, “Il Risveglio”, 26 luglio 1930, ora in Id., Pensiero e volontà, Movimento anarchico italiano, Carrara 1975, pp. 356-7.
8 - Ha scritto giustamente e con una buona dose d’ironia Pier Carlo Masini, a proposito del rifiuto dei marxisti di riconoscere le similitudini esistenti tra Stati comunisti e Stati nazifascisti: “I marxisti si guardavano bene dall’affrontarlo [il tema del totalitarismo], anzi respingevano come insultante una tesi che, fondata sulla “categoria politica” del totalitarismo, coinvolgeva nella condanna tanto i regimi di Hitler, Mussolini, Franco, ecc. quanto quelli di Stalin, Mao, Tito, ecc.. I marxisti ragionavano come il manzoniano don Ferrante che negava l’esistenza della peste perché sul piano dottrinale, non essendo né sostanza né accidente, non rientrava nei suoi schemi logici (e poveretto morì di peste). I marxisti di osservanza staliniana similmente argomentavano che il totalitarismo non essendo né struttura né sovrastruttura non poteva esistere come “categoria” della politica tanto meno come morfologia unificante dei regimi fascisti e comunisti. (Masini P. C., Introduzione a Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia di un uomo libero, BFS, Pisa 1996, p. 9).
9- Malatesta, Nè democratici, nè dittatoriali: anarchici, “Pensiero e volontà”, 6 maggio 1926, ora Id., Il buon senso, cit., p. 218.
10 - Masini, Introduzione, cit., p. 11.
11 - Si legga a questo riguardo una lettera scritta da Malatesta a Luigi Fabbri pochi mesi prima della morte e pubblicata dallo stesso Fabbri in “Studi Sociali” del 30 settembre 1932, ora in Malatesta, Il buon senso, cit.,pp.224-26.
12 - Penso agli interventi critici e “revisionisti” di Luce Fabbri, di Rudolf Rocker, di Paul Goodman, di Colin Ward, di Joao Freire, di Murray Bookchin, e, qui in Italia, tanto per citarne alcuni, di Amedeo Bertolo, di mio padre, di Giampiero Landi, di Furio Biagini, di Andrea Papi, di Franco Melandri, di Pietro Adamo. Penso all’encomiabile lavoro culturale di Elèuthera, di “Volontà”, di “Libertaria” e della stessa “Rivista Anarchica” e dei suoi redattori.
13 - Bertolo A., Al di là della democrazia. L’anarchia, in Volontà, Democrazia e oltre, Milano n° 4 1994, pp. 9-31. Spero vivamente che l’autore di questo importante saggio ci allieti presto con altri stimolanti interventi: nel frattempo mi permetto di consigliare la lettura e un’ampia divulgazione di questo scritto.