La risposta di Massimo Ortalli su "A"
n° 262 ad uno studente che gli chiedeva delucidazioni sul rapporto
tra Malatesta (e più in generale l’anarchismo) e il fascismo
non mi ha del tutto convinto. Vorrei dunque aggiungere qualche
cosa alla questione, sperando di contribuire ad un dibattito
che ritengo utile non solo su un piano storiografico, ma anche,
e soprattutto, su un piano di attualità politica. Ortalli
scrive che Malatesta e gli anarchici italiani non misero sullo
stesso piano la democrazia e il fascismo, e che essi ´seppero
pienamente cogliere le differenze sostanziali fra i due sistemi
di potere, e quindi anche gli strumenti con cui impostare la
lotta contro la reazione1. Confesso che nutro più di
un dubbio in merito, poiché credo invece che Malatesta
e gli anarchici italiani, come tutto il movimento socialista
in generale, non solo sottovalutarono inizialmente la pericolosità
del movimento fascista ma anche non compresero per molti anni
la vera natura totalitaria del regime mussoliniano, che ne faceva
qualcosa di irriducibilmente diverso, sotto il profilo qualitativo
e quantitativo, da qualunque tipo di governo autoritario "alla
Crispi".
Certo, per noi oggi fare certe distinzioni è relativamente
semplice (scrivo relativamente perchè una buona parte
dei compagni si ostina ancora a considerare la democrazia sullo
stesso piano di ben peggiori regimi politici), mentr ottant’anni
fa, era più difficile, se non quasi impossibile (alcuni
comunque, tra i quali Francesco Saverio Merlino, avevano già
tratto determinate conclusioni ben prima dell’avvento del fascismo).
Malatesta, nel giudizio sulla democrazia, non seppe (o forse
non volle) guardare così lontano come fece il suo compagno
di tante battaglie, e rimase in questo, più di lui, un
uomo del suo tempo, o, meglio, un rivoluzionario nel senso quasi
bakuninano del termine, dopo esserlo stato, ba-kuninano più
o meno integrale, per gran parte della sua vita. Non era facile
comunque, ribadisco, capire allora certe differenze: la democrazia
non era quale la conosciamo oggi, con tutti i suoi limiti, certo,
ma anche con la relativa libertà che garantisce e con
il benessere diffuso del capitalismo avanzato.
Tutti sullo stesso piano?
Lo Stato liberale italiano di fine ’800 e di inizio ‘900 era
uno Stato autoritario, infinitamente più di classe di
quanto lo sia ora, nel senso che il potere politico era di fatto
il custode di un ordine economico fondato sulla divisione tra
una minoranza di proprietari e una grande maggioranza di proletari
e contadini che vivevano in condizioni di povertà estrema
quando non di miseria. Solo nel dopoguerra Giolitti tentò
di trasformare lo Stato liberale in uno Stato liberaldemocratico
ma non vi riuscì: anche negli anni precedenti il fascismo,
dunque, lo Stato italiano assomigliava molto più ai regimi
liberali precedenti che alle democrazie odierne. L’introduzione
del suffragio universale maschile e altre riforme varate dai
governi toccarono quasi esclusivamente l’assetto istituzionale
e non contribuirono a migliorare significativamente le condizioni
materiali delle classi oppresse.
Da un lato, dunque, era molto difficile comprendere la differenza
tra Stato autoritario e Stato liberale (perchè tale differenza
spesso era nei fatti irrisoria), e tra Stato liberale e Stato
democratico (perché le democrazie non erano ancora consolidate);
dall’altro, soprattutto, l’umanità non aveva ancora sperimentato
le gioie del totalitarismo, per cui il giochetto propagandistico
di mettere tutti i regimi politici più o meno sullo stesso
piano non era poi così grave, né da un punto di
vista etico né sul piano politico.
Con la presa del potere dei comunisti in Russia però,
le cose cambiarono, e la famosa lettera a Fabbri del 1919 dimostra
che Malatesta, sfidando l’impopolarità, seppe capire
come pochi altri quanto stava avvenendo nell’ex impero zarista.
Nella missiva in questione, e in altri successivi interventi,
l’anarchico italiano, applicando ed approfondendo le analisi
di Bakunin che indicavano nel marxismo l’ideologia di una nuova
classe burocratica in ascesa, la quale, una volta giunta al
potere, avrebbe instaurato il peggiore dei dispotismi immaginabili,
affermò che quello bolscevico era un regime molto più
autoritario di quello liberale, poichè si trattava di
un “governo assoluto e senza limiti costituzionali”, di una
“dittatura di un partito, o piuttosto dei capi di un partito”,
che avrebbe consolidato “i nuovi interessi che si vanno costituendo”
e che avrebbe difeso “contro la massa una nuova classe privilegiata”2.
Per Malatesta, i bolscevichi in Russia avevano instaurato un
vero e proprio regime poliziesco, e la polizia del nuovo governo
“uguagliò e superò in ferocia e mania liberticida
quella stessa del regime zarista”3.
Nell’analisi del fenomeno bolscevico l’anarchico italiano dimostrò
dunque di saper comprendere con grande anticipo sugli sviluppi
futuri la natura totalitaria, liberticida e poliziesca del comunismo.
Lo Stato comunista era un regime qualitativamente diverso da
tutti gli altri precedenti: mai nella storia si era data una
tale concentrazione di potere politico ed economico, mai il
governo aveva avuto un tale dominio sugli individui. Quella
dei bolscevichi era una dittatura che respingeva quelle libertà
“formali”, quelle norme costituzionali e quelle divisioni del
potere tipiche degli Stati liberali e tanto irrise e disprezzate
dalla sinistra rivoluzionaria. I comunisti in Russia stavano
dando vita ad una forma di dominio che rigettava quegli argini
giuridici che si frapponevano al dispiegamento assoluto del
potere statale che il liberalismo e la classe borghese avevano
imposto alle monarchie europee tra il XVIII e il XIX secolo,
cercando di proteggere, certo e in primo luogo, i loro interessi
economici e politici, i loro interessi di classe, ma proteggendo
o meglio ponendo le premesse perché lo Stato salvaguardasse
le libertà fondamentali di ogni cittadino.
Certo, gli Stati liberali perseguitavano, imprigionavano, in
alcuni casi uccidevano gli anarchici e i rivoluzionari, servendosi
spesso di leggi speciali per oltrepassare i limiti suddetti
(cosa che talvolta accade, ma certo in forme non paragonabili
al passato, anche oggi). In alcuni paesi, la forma liberale
dello Stato era solo una maschera con la quale si copriva un
autoritarismo che di liberale aveva ben poco, così come
ora in alcuni paesi, ad esempio sudamericani, alla facciata
democratica fa da contralto un contenuto militare o paramilitare,
una tale divisione in classi della società, con pochi
ad aver tutto, e la gran parte degli altri ad avere un bel niente,
da rendere oggettivamente poco significativi per non dire mistificanti
i paramenti democratici e liberali.
Gli errori di Malatesta
Tuttavia, il potere degli Stati liberali e spesso anche di
quelli autocratici, come la Russia, non era quasi mai così
capillare e pervasivo da impedire completamente una qualche
forma di propaganda, anche clandestina, dei libertari e una
qualche forma di autonomia della società civile e degli
individui. Esistevano inoltre paesi nei quali le libertà
fondamentali si andavano consolidando da secoli, e lo Stato
liberale si stava trasformando rapidamente e senza grandi traumi
in Stato democratico. L’Inghilterra era uno di questi, e proprio
in quel paese, non a caso, trovarono rifugio molti rivoluzionari
e anarchici, tra i quali Malatesta e Kropotkin.
Tornando a Mala-testa, a me pare che nella disamina del fascismo
egli fu assai più contraddittorio che nell’atteggiamento
assunto nei confronti del bolscevismo, cosicché occorre
meditare profondamente ancor oggi sugli errori suoi e su quelli
della sua generazione: quello che all’epoca di Malatesta può
essere stato storicamente comprensibile, oggi non lo é
più, e il non portare alle conclusioni certi ragionamenti
significa, sempre secondo la mia opinione, condannarsi ad una
sterilità e ad una marginalità imperdonabili.
È vero: Malatesta, prima di altri, capì già
durante il biennio rosso che la sconfitta del movimento dei
lavoratori avrebbe portato l’Italia alla catastrofe, che Stato
e padronato avrebbero scatenato sulle classi popolari una reazione
senza precedenti. Quando montò la reazione fascista,
fu tra i primi a denunciare la gravità della violenza
squadrista, ad appoggiare la resistenza armata, a cercare alleanze
di grande respiro per impedire il precipitare degli eventi.
Èsortò i partiti della sinistra e le masse a reagire
in maniera compatta. Quando i fascisti marciarono su Roma scese
nelle strade, a settant’anni, per combattere egli stesso sulle
barricate. Malatesta fece insomma molto, moltissimo. Cosa gli
si può imputare, dunque? Non certo la creazione di quel
clima di violenza generalizzata che egli molto acutamente additò
come una delle cause che avevano di fatto favorito l’affermazione
del fascismo: tanto fu radicale nelle idee e nei propositi,
tanto era misurato negli atteggiamenti e non incitò mai
alla violenza per la violenza. Le sue pur contraddittorie riflessioni
degli ultimi anni proprio sul problema della violenza sono tra
le pagine più belle e commoventi che ci ha lasciato,
fonte, per quanto mi riguarda, di lunghe meditazioni.
Tuttavia, è oggi necessario riconoscere che la delegittimazione
dello Stato liberale alla quale anch’egli contribuì ebbe
la sua non piccolissima parte nel far sì che non vi fosse,
da parte del popolo italiano, quella reazione in difesa delle
libertà fondamentali che lo Stato liberale, bene o male,
garantiva. Si può spiegare solo con la stanchezza derivata
dal fallimento del moto rivoluzionario del biennio rosso
e con la protezione e l’appoggio governativo di cui godevano
le squadre fasciste la scarsa e in alcuni casi nulla reazione
popolare di fronte al dilagare della violenza fascista?
Io penso sinceramente di no, e credo che una certa propaganda
anarchica - anche dello stesso Malatesta - abbia avuto il suo
non irrilevante peso nel tracollo delle istituzioni liberali.
Non avevano forse ripetuto per decenni - Malatesta e gli anarchici
- che le libertà democratiche erano libertà formali
e borghesi, e che le libertà vere erano ben altre?
Ortalli ritiene che Malatesta e gli anarchici del tempo ebbero
ben chiaro il concetto di male minore. Leggendo certe pagine
di Malatesta ne ricavo piuttosto l’impressione contraria. In
un articolo del 1922, scritto pochi mesi prima della marcia
su Roma, così si espresse il nostro compagno: “Nessuno
vorrà mettere in dubbio il nostro vivo desiderio di veder
debellato il fascismo e la nostra ferma volontà di concorrere,
come possiamo, a debellarlo. Ma noi non vorremmo abbattere il
fascismo per sostituirgli qualche cosa di peggio, e peggio del
fascismo sarebbe il consolidamento dello Stato”... I fascisti
bastonano, incendiano, uccidono, violano ogni libertà,
calpestano nel modo più oltraggioso la dignità
dei lavoratori. Ma, francamente, tutto il male che il fascismo
ha fatto in questi ultimi due anni e che farà in quel
tempo che i lavoratori gli lasceranno la vita, è forse
paragonabile al male che lo Stato ha fatto, tranquillamente,
normalmente, per anni innumerevoli e che farà fino a
che avrà esistenza?4.
Il male minore
Ripeto, è sempre facile giudicare a posteriori, col
senno di poi, e soprattutto in questo caso occorre tenere conto
di una serie innumerevole di fattori: in effetti, il fascismo
si presentò inizialmente con un programma politico confuso
ed eterogeneo, e il partito di Mussolini pareva essere nulla
più che un movimento foraggiato dalla borghesia e dal
capitale per ripristinare quell’ordine “borghese” che il movimento
operaio aveva tentato di scardinare. Inoltre, il partito fascista
dava l’impressione di essere poco più di un’accozzaglia
di delinquenti e cialtroni che sarebbe rientrata nei ranghi
dopo aver seminato un po’ di scompiglio e di terrore. Leggiamo
ad esempio cosa scrive Malatesta subito dopo la marcia su Roma:
“A parte le pose che vorrebbero parere napoleoniche, e non sono
invece che pose da operetta, quando non sono atti da capobrigante,
noi crediamo che in fondo non vi sarà nulla di cambiato,
salvo per un certo tempo una maggiore pressione poliziesca contro
i sovversivi e contro i lavoratori. Una nuova edizione di Crispi
e di Pelloux”5. Ancora dopo alcuni anni che Mussolini si era
insediato al potere, molti ( tra cui lo stesso Malatesta ) ritenevano
che il regime fascista non sarebbe durato a lungo.
Malatesta perciò, a mio avviso, sottovalutò sia
Mussolini che il fascismo, anche se comprese sin dall’inizio
che tra i fascisti e i comunisti c’erano molte più similitudini
che differenze, e che entrambi i movimenti miravano all’instaurazione
di un tipo di regime molto simile6. Negli ultimissimi anni di
vita, poi, a dimostrazione della sua intelligenza fuori dal
comune e della sua elasticità mentale, egli intuì
che fascismo e comunismo stavano dando vita ad un tipo di potere
inedito e ad un tipo di regime assai simile: uno Stato caratterizzato
dall’”accentramento economico, con relativo assolutismo politico,
divenuti a poco a poco, soprattutto dopo la guerra, una specie
di credo universale7. Si tratta di quel tipo di Stato che è
stato successivamente definito totalitario - l’invenzione del
termine è dello stesso Mussolini - e che non rientrava,
proprio perché si trattava di una primizia, nelle tradizionali
forme di classificazione del potere politico: categoria contestatissima,
naturalmente, dalla storiografia marxista sino a tempi recenti,
e ancor oggi negata da alcuni dinosauri dell’era marxista leninista8.
Per quanto riguarda poi il problema del male minore, non credo
che i giudizi di Malatesta siano dovuti solo ad errori di valutazione
(relativi alla forza del movimento fascista e alla sua durata),
e dunque non penso che si tratti solo di errori tattici. Ritengo
invece che essi siano stati causati da un’effettiva incapacità
degli anarchici e dello stesso Malatesta di comprendere il valore
delle libertà democratiche e liberali. Si leggano gli
articoli che Malatesta scrisse sulla democrazia negli anni ’20.
Certo, sono più “raffinati” di quelli scritti precedentemente,
e in più di un’occasione l’anarchico italiano arrivò
a sostenere che la peggiore delle democrazie è comunque
preferibile alla migliore delle dittature, come in “Pensiero
e Volontà” del 15 marzo 1924. Siamo però appunto
nel 1924, e, come si suol dire, il latte era già stato
versato. Non solo: il “riconoscimento” di Malatesta è
sempre fatto a denti stretti, c’è sempre la tendenza
a mettere sullo stesso piano i due regimi, perché Malatesta
considera democrazia e dittatura quasi esclusivamente sotto
il profilo di varianti “formali” dell’essenza statale: rapportate
all’anarchia, le differenze tra democrazia e dittatura appaiono
poco significative, gli sembrano addirittura fuorvianti. Si
legga a questo proposito l’articolo scritto da Malatesta su
“Pensiero e volontà” del 6 maggio 1926 e si mediti sul
seguente passo: “Potrei dilungarmi per dimostrare, col ragionamento
appoggiato ai fatti contemporanei, come non sia nemmeno vero
che quando vi e governo, cioe comando, possa davvero comandare
la maggioranza, e come in realtà ogni “democrazia” sia
stata, sia e debba esre nient’altro che una “oligarchia”, un
governo di pochi, una dittatura”9. La democrazia, per Malatesta,
è dunque nella sostanza, ancora nel 1926, equiparabile
alla dittatura.
Bene assoluto e bene relativo
Evitiamo di considerare il rifiuto di Malatesta e degli anarchici
del suo tempo (e di gran parte degli anarchici anche oggi) del
principio di maggioranza come criterio regolatore delle decisioni
politiche, in nome di un principio, quello del “libero accordo”
di ardua applicazione in una buona parte della vita pubblica
anche di una società libertaria, come aveva già
dimostrato Merlino a cavallo del secolo scorso nella famosa
polemica che lo vide contrapposto proprio a Malatesta.
Limitiamoci a prendere in esame l’analisi malatestiana del rapporto
tra democrazia e dittatura. Come avrebbe potuto Malatesta sostenere
che, aldilà del fatto indubbio che anche in regime democratico,
a ben guardare, sono le minoranze a comandare, la democrazia
è comunque migliore, da un punto di vista libertario,
delle dittature?
A mio avviso, egli avrebbe potuto considerare democrazia e dittatura
non in rapporto al bene assoluto (l’anarchia), bensì
al bene relativo (la libertà sostanziale e reale resa
possibile da quella istituzionale e “formale”): è sotto
questo profilo, infatti, che democrazia e dittatura, che democrazia
e totalitarismo sono radicalmente diversi.
Democrazia e dittatura differiscono infatti non solo per i meccanismi
con i quali vengono selezionate le èlites dirigenti,
ma soprattutto per le libertà fondamentali di cui godono
i cittadini, per la libertà che anima la società
civile sottostante e che esiste ed è possibile proprio
in quanto al potere dello Stato sono posti limiti e vincoli
precisi. Paragoniamo infatti, da un punto di vista della libertà
degli individui e della società, dittatura, Stato totalitario
e democrazia. Nel caso della dittatura, la libertà sia
della società che dell’individuo è minima; nel
caso dello Stato totalitario l’una e l’altra sono inesistenti,
perché il potere politico assorbe completamente la società
e irregimenta gli individui, non solo imponendo il disciplinamento
dei corpi, ma pure pretendendo l’adesione delle coscienze; nel
caso delle democrazie, invece, la libertà della società
civile e degli individui che la compongono è generalmente
grande, anche se non sempre e non per tutti. Bisogna dunque
operare per rafforzarla ed estenderla, non combatterla come
una mistificazione. Come scriveva Pier Carlo Masini nell’introduzione
al libro di Luce Fabbri che abbiamo già citato: “Una
cosa è denunziare le illusioni della democrazia; altra
cosa è condannare la democrazia come illusione”10.
Un rivoluzionario ostile alla democrazia
Io credo che Malatesta e più in generale l’anarchismo
di quel periodo storico, per tutta una serie di motivi che solo
in parte ho sfiorato, abbia combattuto la democrazia come un’illusione,
e che questa propaganda abbia tra l’altro favorito, insieme
ad una serie di altri fattori sicuramente più importanti
e decisivi, l’instaurarsi del fascismo. Come ho già scritto
da un’altra parte, Malatesta non seppe portare alle estreme
conseguenze, per le chiare cadute antirivoluzionarie che l’applicazione
di tale principio nel campo politico comportava, il criterio
metodologico da lui stesso elaborato: la distinzione tra giudizi
di fatto e di valore. Egli in verità lo aveva pure applicato
al campo della politica, quella rivoluzionaria, concependo la
rivoluzione come l’atto violento con il quale un ampio fronte
progressista, del quale gli anarchici avrebbero dovuto costituire
la punta più avanzata, avrebbe abbattuto lo Stato borghese
e instaurato non già l’anarchia, la quale non può
essere imposta con la forza, bensì un regime più
libero, nel quale fosse soppresso lo Stato e il sistema di produzione
capitalistico: in questo terreno di libertà neutra ciascuno
avrebbe potuto, secondo Malatesta, sperimentare le forme sociali
ed economiche che avrebbe ritenuto più opportune, senza
naturalmente limitare l’eguale libertà degli altri di
fare altrettanto.
Malatesta aveva insomma compreso che la libertà, storicamente
e politicamente, viene prima dell’anarchia, e che all’”assoluto”
si può tendere solo se è prima stato realizzato
il “relativo”. Tuttavia, egli rimase fino in fondo un rivoluzionario
ostile alla “democrazia borghese”, e ritenne sino alla fine
che la democrazia non potesse costituire quel terreno neutro
di libertà, quello spazio di libera sperimentazione che
invece le masse avrebbero dovuto creare con l’insurrezione.
Certo, alcune sue riflessioni possono far pensare che forse
egli avrebbe fatto evolvere il suo pensiero nel senso di considerare
la democrazia non solo il male minore ma anche il bene relativo,
dal quale poter iniziare il lavoro di costruzione di una società
libertaria11. Ma... fermiamoci qui. Non sarebbe infatti né
utile né corretto interpretare il pensiero di Malatesta
e cercare di capire cosa avrebbe detto e fatto.
Malatesta visse cento anni fa, e io penso che, in fatto di democrazia,
senza per questo diventare “elettoralisti” o abiurare l’idea
che la costruzione di una società libera debba avvenire
principalmente fuori dalle istituzioni statali, si possa e si
debba andare oltre le sue considerazioni. Del resto, alcuni
nostri compagni, negli ultimi cinquant’anni, lo hanno già
fatto: non sto scrivendo dunque nulla di troppo nuovo o di troppo
eterodosso12.
Rafforzare le libertà
Credo che il miglior rispetto che possiamo portare alle idee
di Malatesta - come alle idee dell’anarchismo in generale -
consista a mio avviso nello sviluppare le intuizioni migliori,
rimanergli fedeli nello spirito applicando il suo metodo - che
mi pare tuttora il migliore tra quelli esistenti - alla realtà
di oggi. Essere malatestiani nel senso di ripetere quanto ha
detto Malatesta in condizioni storiche molto diverse da quelle
attuali può infatti portare alla morte del suo pensiero
se non, e peggio, alla sua caricatura, mentre invece penso che
quello che ci interessi è rendere vivo il suo insegnamento
nella forma in cui oggi può prosperare.
Credo, in definitiva, che, con tutti i suoi limiti e i suoi
difetti - e ogni società, anche più libera e più
uguale di questa, anche libertaria, ne avrebbe, di limiti e
di difetti, perchè la libertà realizzata storicamente
non potrà che essere sempre, come ogni cosa vivente,
relativa, conflittuale, pluralista - la democrazia possa essere
ritenuta vicina a quel terreno di libertà “neutra” che
per Malatesta doveva essere il punto di partenza per l’avanzamento
stesso della società verso l’anarchia. La democrazia,
per un anarchico, non può costituire naturalmente un
fine. Può costituire, laicamente, lo spazio per il confronto
e lo scontro delle idee, per il mercato delle opzioni nel quale
operare per “far vincere” - senza imposizioni, senza violenza
- la propria.
Anche alla luce delle esperienze totalitarie del secolo appena
concluso, io credo che il miglior modo per avvicinarci ad una
società senza Stato e senza classi - obiettivo che ritengo
non possa comunque essere storicamente conseguibile nel senso
letterale e assoluto del termine, perché l’assoluto non
potrà mai darsi nella storia umana - sia quello di rafforzare
e di estendere le libertà democratiche, i diritti dell’individuo
sia su un piano sociale e politico sia su quello economico,
campo nel quale sono decisamente minacciati da un potere economico
e finanziario oligarchico che vuole sempre più svincolarsi
da ogni controllo politico (e questa è certo una forma
di autoritarismo da non sottovalutare, come ha giustamente ricordato
Massimo Ortalli e come l’attualità politica ci ricorda
di continuo). Rafforzare le libertà e le autonomie comunali,
controllare ancor più e ancor meglio l’esercizio del
potere, lavorare per il suo decentramento e per costruire un
po’ alla volta una democrazia il più diretta possibile
che sostituisca l’attuale forma di democrazia rappresentativa;
battersi affinché vengano rispettati e ampliati i diritti
dei lavoratori e dei consumatori in ogni parte del mondo e lavorare
perché la democrazia cominci ad essere applicata anche
nell’ambito economico, dal quale, per compiacere la classe imprenditrice,
è stata sempre respinta; estendere i diritti di cittadinanza
e i diritti politici alle fasce che non ne godono, come gli
immigrati, difendere sempre e in ogni caso le libertà
fondamentali degli individui, di tutti gli individui indipendentemente
dal colore della pelle, dalla razza o dalla religione, dalle
idee politiche.
Queste e molte altre sono, a mio parere, le lotte che noi anarchici
dovremmo svolgere oggi - e in parte, nei limiti delle nostre
forze, le stiamo già svolgendo - per puntare all’instaurazione
di una anarchia possibile, che non è altro a mio parere
che una forma libertaria di democrazia. Far avanzare la democrazia
verso l’anarchia, non lavorare per abbattere la democrazia.
Come ha affermato Martin Buber e prima di lui Gustav Landauer,
lo Stato si distrugge nel momento in cui gli uomini instaurano
tra di loro altri tipi di rapporti diversi da quelli statuali.
È necessario dunque lavorare prima di tutto per far sì
che gli uomini instaurino tra di loro rapporti libertari, e
si liberino dello Stato nelle loro menti e nelle loro azioni:
il superamento dello Stato, nel senso di un avanzamento della
società verso l’anarchia, sarà possibile solo
quando la società civile sarà così forte,
così comunitariamente strutturata, così democraticamente
matura da poter fare a meno di un potere politico centralizzato
e gerarchico. Altrimenti la rivoluzione non potrà che
essere un pericoloso salto nel vuoto, che rischierebbe di portare
indietro la società, aldiquà della democrazia,
invece che aldilà, come ha scritto Amedeo Bertolo e come
vorremmo tutti noi13.
Francesco Berti
Armando Borghi e Luciano Farinelli
1 - Scrivo “quasi” perchè la concezione
gradualistica del mutamento sociale così come concepita
da Malatesta negli ultimi anni di vita, se pure strutturata
ancora intorno al momento centrale dell’insurrezione, rappresenta
certo un passo in avanti verso una visione strategica più
aderente alla realtà del suo e anche del nostro tempo.
Un passo in avanti che però oggi non può essere
considerato un punto di arrivo. Cfr. il capitolo Riformismo,
gradualismo e rivoluzione in Malatesta E., Il buon senso della
rivoluzione, Elèuthera, Milano 1999, pp. 83-115.
2 - Id., Lettera a Luigi Fabbri sulla “dittatura del proletariato”,
Londra, 30 luglio 1919, ora in Id., Il buon senso della rivoluzione,
cit. pp. 200-1.
3 - Id., Bolscevismo e anarchismo, “Libero Accordo”, 7 novembre
1923, ora in ivi, p. 202.
4 - Id., “Umanità Nova”, 14 marzo 1922, ora in ivi, p.
230. Corsivo mio.
5 - Id., Il fascismo e la legalità, “Umanità Nova”
25 novembre 1922, ora in ivi, p. 234.
6 - Cfr. ad esempio Id., Comunisti e fascisti, “Pensiero e volontà”,
1 maggio 1924, ora in ivi, pp. 237-8.
7- Id., Francesco Saverio Merlino, “Il Risveglio”, 26 luglio
1930, ora in Id., Pensiero e volontà, Movimento anarchico
italiano, Carrara 1975, pp. 356-7.
8 - Ha scritto giustamente e con una buona dose d’ironia Pier
Carlo Masini, a proposito del rifiuto dei marxisti di riconoscere
le similitudini esistenti tra Stati comunisti e Stati nazifascisti:
“I marxisti si guardavano bene dall’affrontarlo [il tema del
totalitarismo], anzi respingevano come insultante una tesi che,
fondata sulla “categoria politica” del totalitarismo, coinvolgeva
nella condanna tanto i regimi di Hitler, Mussolini, Franco,
ecc. quanto quelli di Stalin, Mao, Tito, ecc.. I marxisti ragionavano
come il manzoniano don Ferrante che negava l’esistenza della
peste perché sul piano dottrinale, non essendo né
sostanza né accidente, non rientrava nei suoi schemi
logici (e poveretto morì di peste). I marxisti di osservanza
staliniana similmente argomentavano che il totalitarismo non
essendo né struttura né sovrastruttura non poteva
esistere come “categoria” della politica tanto meno come morfologia
unificante dei regimi fascisti e comunisti. (Masini P. C., Introduzione
a Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia di un uomo libero, BFS,
Pisa 1996, p. 9).
9- Malatesta, Nè democratici, nè dittatoriali:
anarchici, “Pensiero e volontà”, 6 maggio 1926, ora Id.,
Il buon senso, cit., p. 218.
10 - Masini, Introduzione, cit., p. 11.
11 - Si legga a questo riguardo una lettera scritta da Malatesta
a Luigi Fabbri pochi mesi prima della morte e pubblicata dallo
stesso Fabbri in “Studi Sociali” del 30 settembre 1932, ora
in Malatesta, Il buon senso, cit.,pp.224-26.
12 - Penso agli interventi critici e “revisionisti” di Luce
Fabbri, di Rudolf Rocker, di Paul Goodman, di Colin Ward, di
Joao Freire, di Murray Bookchin, e, qui in Italia, tanto per
citarne alcuni, di Amedeo Bertolo, di mio padre, di Giampiero
Landi, di Furio Biagini, di Andrea Papi, di Franco Melandri,
di Pietro Adamo. Penso all’encomiabile lavoro culturale di Elèuthera,
di “Volontà”, di “Libertaria” e della stessa “Rivista
Anarchica” e dei suoi redattori.
13 - Bertolo A., Al di là della democrazia. L’anarchia,
in Volontà, Democrazia e oltre, Milano n° 4 1994, pp.
9-31. Spero vivamente che l’autore di questo importante saggio
ci allieti presto con altri stimolanti interventi: nel frattempo
mi permetto di consigliare la lettura e un’ampia divulgazione
di questo scritto.
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