rivista anarchica
anno 31 n. 269
febbraio 2001


Ponte di Messina / 2

Il sacrilegio del ponte
di Zelinda Carloni

Da sempre, nella mitologia delle più diverse popolazioni l'acqua ha una valenza sacra. E chi vuole infrangerne la sacralità...

"Egli, che il sacro Ellesponto come uno schiavo in catene ha sperato di fermare nel suo corso, il Bosforo, corrente di un dio, e ha preteso di sconvolgere uno stretto, e imprigionandolo con ceppi battuti a martello ha costruito una immensa strada al suo immenso esercito; lui, un mortale, ha creduto nel suo malconsiglio di trionfare di tutti gli dei e di Poseidone"

Eschilo, I Persiani

Costruire un ponte è un sacrilegio: ad affermare ciò non è l'ala più intransigente dell'ambientalismo, ma la storia stessa dell'uomo, e la profonda convinzione degli uomini, sotto tutte le latitudini e in tutti i tempi.
Cerchiamo di spiegare. In epoche, come quella in cui viviamo, in cui si fa gran parlare del rispetto delle culture, delle tradizioni, delle religioni anche di piccoli e piccolissimi gruppi etnici, per la difesa delle quali si è disposti anche ad azioni estreme, sembra davvero un paradosso che ad essere completamente disattese siano proprio quelle istanze che emergono prepotenti dall'intera storia dell'uomo, e che riunificano le culture e le tradizioni, invece che dividerle, su alcuni temi comuni che sono radicati e immutati. I miti e le leggende dei popoli costituiscono un patrimonio irrinunciabile per intendere le relazioni dell'uomo con le cose del mondo, e a meno che non si sia disposti a credere che l'esclusiva dell'intelligenza e dell'avvedutezza sia stata elargita agli uomini nostri contemporanei, c'è da ritenere che il perdurare per millenni e fino ai giorni nostri di alcune forme inossidabili di elaborazione nella relazione con le cose, espressa dai miti e dalle leggende, significhino qualcosa e suggeriscano un'immagine della realtà non trascurabile. Naturalmente la lettura di queste immagini è affidata ad una sorta di intelligenza culturale che non ha bisogno dell'accademia per attivarsi, ma che forse può essere aiutata da una maggiore e più estesa conoscenza di circostanze che normalmente non si hanno a disposizione, ovvero da una sensibilità che pare essere caduta in prescrizione.
Ma qui si è aperto usando un termine, sacrilegio, che, in tutta evidenza, appare quantomeno inusuale se usato in ambito politico-sociologico. Ebbene, abituati come siamo all'eresia, non sarà il caso di temere per quest'arditezza, ma sarà certamente il caso di spiegarne i termini. Si è usato il termine sacrilegio, e non nel senso generico ma proprio in quello canonico di profanazione del sacro, perché siamo convinti che di alcuni ambiti dell'esperienza umana si sia malamente appropriata la religione, la quale se da una parte ha operato al fine di mistificare i motivi primi dell'agire umano, dall'altra ha di fatto estromesso la laicità dal trattare ambiti che la religione stessa si è indebitamente riservata. Il concetto di sacro non appartiene alla sfera religiosa ma a quella laica. È necessario riappropriarsi di un patrimonio di conoscenza che arbitrariamente è stato sottratto alla critica e al pensiero laico. Il concetto di sacro, e l'esperienza del sacro, è un patrimonio di straordinaria portata che ha a che fare con la relazione primaria dell'uomo nei confronti della natura. Questa relazione è sacra perché investita di tutte le valenze di rispetto e di alta valutazione che l'uomo da sempre ha attribuito alla natura, dalla quale dipendeva e dipende la sua sorte stessa. Queste condizioni hanno fatto sì che il rapporto uomo-natura fosse caratterizzato da una economia e da una prudenza che erano pari al rispetto che la natura destava nell'uomo. Rispetto tutt'altro che superstizioso (come poi avvenne quando di questo sentimento se ne impossessò la religione), ma al contrario suggerito dalla consapevolezza della profonda dipendenza che legava l'uomo e la natura ad una sorte comune. Quindi il sentimento del "sacro" (che non bisogna confondere con quello di "santo") era la naturale proiezione di questa condizione. Non dimentichiamo che possono esistere, ed esistono, cose "sacre" anche per il più granitico ateo senza che questo lo renda meno convinto. Ebbene, così forte è stato nel tempo il portato di questo sentire che ha permeato di sé non solo la vita ma anche la storia dell'uomo. Una storia che non è stata scritta dai vincitori, ma che è nata attimo per attimo all'interno delle maglie stesse della vita attraverso la produzione di racconti, leggende, miti che sono la storia non scritta ma non per questo meno vera dell'umanità.
Esistono nel patrimonio dell'umanità alcune figure mitiche e leggendarie che accomunano le diverse tradizioni in un'unica immagine, che certo si sviluppa con toni diversi e con coloriture specifiche nelle singole circostanze, ma che contiene il portato di una stessa radice di osservazione e di elaborazione. Queste forme di unificazione dei temi mitici stanno ovviamente a significare che i temi trattati dalla mitopoietica sono in realtà radicati e persistenti nella esperienza dell'uomo, e che costituiscono il nucleo più importante del suo essere in relazione con le cose, nel tempo e nello spazio. L'elaborazione di un mito è in realtà l'espressione più alta di cultura collettiva nella forma della rappresentazione, e sottende messaggi fondamentali per intendere la storia stessa dell'uomo.
Ebbene, un mito che corrisponde a tutte le caratteristiche finora descritte fa riferimento al sacrilegio costituito dalla costruzione dei ponti.
La sacralità delle acque, tema assolutamente primario nello sviluppo dei miti di tutti i tempi, viene immediatamente sposato alla percezione del sacrilegio contenuto in un atto che violi, di questa sacralità, la condizione. Vengono ritenute "sacrileghe" in generale tutte le azioni che infrangano, anche moderatamente, l'intangibilità dell'acqua: perfino il "tuffo" è ritenuto oltraggioso, e qualunque forma che utilizzi l'acqua in modo arbitrario. Naturalmente il massimo di questo oltraggio è letto nella costruzione del ponte, che non solo "ferma il corso" delle acque, ma con il suo "balzo" ardisce superare un limite che la natura pose come invalicabile.


Terrore sacrale

Questa circostanza mitica è presente uniformemente, ma spiccatamente nella cultura euro-asiatica: in modo particolare presso le nostre culture è ben chiaro il senso del sacrilegio del ponte, se pensiamo che la costruzione di un ponte veniva accompagnata da sacrifici umani, solo successivamente sostituiti da quelli di animali. Ma il ponte necessitava di più di questo; la figura del pontifex, che nel tempo (e ancora oggi) designò la massima autorità religiosa presso i romani, nacque come custode del ponte, colui cioè che doveva vegliare sulla costruzione, operando continui rituali sacrificali che stemperassero la gravità della violazione, e che vigilasse sui comportamenti degli uomini in relazione al ponte. Il terrore sacrale (sacrilegale, in realtà) che suscitava la costruzione del ponte era dovuto all'esatta consapevolezza di violare con l'atto l'essere della natura, le sue regole e i suoi equilibri; e di fronte ad essa, sacra per eccellenza, l'oltraggio andava pulito con una complessa salvaguardia rituale, imponente e persistente.
Ma il tema mitico fondava su tali, radicatissime basi, che anche in epoca cristiana, e fino ai nostri giorni, è perdurata la sua presenza. Esiste infatti in tutta la tradizione cristiana il persistere dell'immagine "dannata" del ponte: il ponte è inscindibilmente legato alla figura del diavolo, o di personaggi diabolici. La circostanza è facilmente verificabile fino nei nomi ("Ponte del Diavolo" è un toponimo assolutamente comune) ma molto di più nell'ambito della narrazione orale, della leggenda. In questi ambiti la costruzione del ponte è comunemente affidata ad un santo, che però per procedere ha bisogno dell'aiuto del diavolo, il quale, naturalmente, chiede in cambio un'anima (chiaro slittamento della pratica del sacrificio umano, e identica concezione). I machiavelli a cui ricorre il santo per ottenere il ponte e salvare l'anima sono non dissimili da quelli messi in atto in epoche più antiche per scongiurare ansie identiche.
È insomma un'assoluta certezza quella che nel tempo e nello spazio ha guidato gli uomini a ritenere sacrilego il mettere mano alla costruzione di un ponte, una circostanza diffusa e condivisa. Ora c'è da chiedersi perché per l'uomo contemporaneo tutto quello che è stato valido per millenni debba perdere di valore così drasticamente e radicalmente nel giro di pochi decenni. È evidente che ciò che guidava i sentimenti e le elaborazioni degli uomini era una relazione imprescindibile con la natura, la quale non veniva percepita come oggetto dell'azione dell'uomo, ma come soggetto essa stessa, capace cioè di rispondere in una relazione di causa-effetto a quanto su di essa veniva operato. Non era e non è "superstizione" quella che guida la costruzione di un mito o di una leggenda che sul mito si fonda, ma è una consapevolezza di "economia dell'agire" relativamente alle scelte operate dall'uomo, in modo particolare relativamente alla natura. Il tentare di sottrarsi al destino dell'empio tramite sacrifici o rituali significa percepire esattamente che la natura è in grado di rispondere clamorosamente e fatalmente all'atto su di lei compiuto, e la ritualità serve, se non a scongiurare concretamente questa circostanza, a manifestare l'esatta consapevolezza di questa possibilità. Una consapevolezza che predispone, se non altro, a mettere in atto misure preservative che limitino il portato dell'azione, e quindi anche della reazione.
Risulta quindi incomprensibile e fatalmente pericoloso che di questa consapevolezza si sia perduto l'uso, e non ci si interroghi più sulla portata delle nostre azioni relativamente al compierle sulla natura, dimenticando che questa è soggetto e non oggetto nel nostro agire e che dispone di ampie capacità di reazione.
È ben vero che quanto si è detto a proposito del sacrilegio non ha mai impedito agli uomini di compierne. Ma lo iato fondamentale che differenzia il nostro agire da quello dei nostri antecedenti risiede nella "fatale necessità": essi agivano in contrasto con la natura solo se era "fatalmente" necessario, vale a dire che, pur percependo di compiere "sacrilegio", a questo si esponevano solo se fatalmente costretti a farlo, solo se qualunque altro mezzo per operare non potesse raggiungere lo stesso risultato vitale per la collettività. Non c'è dubbio, per esempio, che per i romani costruire un ponte non fosse tecnicamente un problema arduo, eppure per centinaia di anni è esistito un solo ponte sul Tevere, e per altre centinaia non più di due, e questo anche quando la Roma imperiale contava un numero di abitanti e un'estensione non molto inferiore all'attuale. Oggi Roma getta sul Tevere 13 ponti, e non è per questo migliore di quella d'allora. E certamente Eschilo ritiene micidiale costruire un ponte sul Bosforo per farne passerella di un esercito invasore.


Aspettando Caronte

E dunque, quale è oggi la fatale necessità che consiglierebbe l'estremo atto di violare lo stretto di Messina con un balzo di migliaia di metri? Cos'è che s'impone così drasticamente come irrinunciabile, tanto da far passare come trascurabile il consiglio di innumerevoli generazioni di uomini riguardo alla costruzione di ponti, tanto da omettere la considerazione che così facendo si altera la natura di un'intera etnia, quella siciliana, che vive connaturata con l'essere "isola", e che di questa natura è permeata da millenni, che identifica se stessa nel mare che la circonda e nella terra che la sostiene, che vede nell'inviolabilità degli accessi una salvaguardia e un riconoscimento del proprio "essere isola"? Cos'è che s'impone come "fatale necessità" tale da far dimenticare che la Sicilia, per essere grande, non ha avuto bisogno di ancorarsi ad uno scoglio?
La risposta che all'osservatore appare più immediata sembra essere legata al tempo, e sintetizzabile in un "fare prima" che è il tormento e l'ossessione della nostra epoca. Ma fare prima non significa fare meglio, anzi, normalmente è vero il contrario. Con i soldi e le energie che si impiegherebbero per costruire questo impudico balzo, si potrebbero traghettare per decenni in barche d'oro uomini e cose, ma certo ci si metterebbe circa un'ora di più.
Viene poi da pensare al turismo "usa e getta", quello che "ha fretta". È forse per loro che stiamo rischiando "l'empietà" collettiva e i rischi che ne conducono? Possibile che un turismo capace di cercare nell'universo mondo l'isoletta incontaminata, sulla quale fatalmente dovrà essere traghettato, non sia in grado di aspettare con pazienza il Caronte che lo conduca nella terra del mirto e degli aranci? E foss'anche, interessa davvero alimentare questo insano procedere a fagocitare in fretta un'immagine che "altri" hanno raccontato, perché cosa sarebbe della Sicilia, se sacrifichiamo Cariddi, se non la proiezione di un'immagine antica e ormai persa?
Non possiamo non sapere che Messina poggia su tre colonne marine, così come suggerisce la leggenda diffusa in Sicilia e che ha origini nel mito; due di queste colonne sarebbero piuttosto malmesse ma una ancora integra, e su questa si confidava. Bisognerà andarci piano…

Zelinda Carloni

Per tutte le indicazioni relative al tema del sacrilegio del ponte siamo debitori ad Anita Seppilli e al suo prezioso volume "Sacralità dell'acqua e sacrilegio dei ponti", Sellerio, Palermo 1990.

A.P.-Z.C.