rivista anarchica
anno 31 n. 269
febbraio 2001


Ponte di Messina / 1

L'isola che c'è
di Adriano Paolella

Alcune considerazioni sul perché lo Stretto debba rimanere tale e il ponte non abbia ragione di esistere.

Nel dibattito serrato che ha accompagnato l'insorgere del progetto per un ponte tra la Calabria e la Sicilia hanno avuto un considerevole spazio le argomentazioni tecniche costruttive.
Ancora oggi vi sono alcune soluzioni adottate in un progetto oramai definito che suscitano perplessità, mentre altri temi, quali la congruità delle funzioni dell'opera in relazione al danno ambientale comportato e alla capacità di autosostenersi economicamente, sono invece in piena verifica.
Già il solo fatto che i caratteri dell'opera siano così tanto suscettibili di integrazioni e verifiche mostra quanto l'idea progettuale, così come originariamente presentata, fosse piuttosto velleitaria, non avendo operato nessuna di quelle verifiche che connotano un processo progettuale di qualità, e che non attengono al solo sistema costruttivo ma alle relazioni che questo avrà con l'ambiente e la società in cui si inserisce.
Ma è ancora possibile in questa fase uscire da una visione esclusivamente costruttiva e riepilogare una riflessione che attiene all'intero processo e alle motivazioni sociali, ambientali, antropologiche e logiche, riflessione che evidenzia chiaramente la non plausibilità del ponte.
In particolare è interessante evidenziare come la stessa idea di un ponte scaturisca da un modello che non è condivisibile e i cui danni sono riscontrabili non solo nell'ambiente ma anche direttamente nella salute degli individui.
L'idea di un ponte è infatti figlia del mito del progresso e dell'evoluzione tecnica, dove ogni problema è risolto da un'opera (manufatto) e dove se problema non c'è se ne costituisce uno, appunto per permettere la realizzazione di un opera.
Al di là degli interessi economici insiti nella costruzione del manufatto, il progetto è sostenuto dalla capacità di rappresentazione del ponte stesso: esso mostra la potenza tecnica della società, impiegata a vincere una guerra unilateralmente dichiarata contro i vincoli naturali, attraverso la quale si ritiene, demagogicamente, di migliorare le condizioni dell'esistenza degli individui.
Questo atteggiamento non è condivisibile perché mina le basi delle relazioni tra individui e tra individui e ambiente e traccia un cammino di grande semplificazione e degradazione della complessità dei luoghi e delle comunità.
Il ponte per questo non ha ragione di esistere ed è pericoloso. Pericoloso per l'impatto sull'ambiente ma pericoloso per gli uomini e per la loro esistenza. In questo senso va il contributo di Z. Carloni e in questo senso sono riassunte le successive considerazioni.

1. Il ponte non ha ragione di esistere perché la Sicilia è un'isola
L'insularità della regione è alla base della caratterizzazione della popolazione, della sua cultura, delle sue modalità di esistenza. La costruzione di un collegamento stabile modificherebbe questa condizione riportando i rapporti con il continente ad una continentalità attualmente inesistente.
In Sicilia si va in nave, attraverso il mare: è questa una condizione imprescindibile nella struttura sociale della popolazione. Si supera un elemento naturale, il mare, che fa la differenza e che interrompe la continuità culturale con il continente, che impedisce una omogeneità e qualifica la società locale.
Superare questa interruzione di continuità tende ad annullare le differenze culturali che sono alla base della qualità sociale e culturale dei siciliani.

2. Il ponte non ha ragione di esistere perché nasce dalle frustrazioni degli operatori
Le tecniche disponibili nel mondo contemporaneo hanno grandi capacità.
Per quanto riguarda le opere di gestione del territorio esse sono sicuramente in condizione di affrontare quasi tutti i problemi che si incontrano.
Ogni problema può però avere diverse soluzioni e solo ponendo delle condizioni limitative presenti si riducono le possibili soluzioni fino ad annullarle.
Maggiore è il numero e la consistenza delle condizioni limitanti e maggiormente l'apparato tecnico che supporta le soluzioni deve essere ridondante.
È una specie di gioco al rialzo attraverso il quale si possono impegnare le capacità tecniche degli operatori.
Infatti se le tecniche per gestire e strutturare il territorio sono numerose e possiedono grandi potenzialità, sia in termini di efficacia strutturale sia in termini di efficienza di sistema, nell'ordinario le soluzioni adottate sono preconfigurate e semplificate da una consuetudine ripetitiva resa possibile dalla scarsa considerazione dell'ambiente e del sistema in cui si inseriscono.
Questa prassi sostenuta dagli operatori per ridurre i tempi della progettazione, per uniformare le modalità costruttive, in sintesi per aumentare i profitti connessi dalla realizzazione delle opere produce però una insoddisfazione professionale degli operatori stessi.
Così facendo, infatti, non si affronta nessun problema tecnico adeguato alle loro capacità. Disdegnando di qualificare con la loro esperienza gli interventi ordinari e frustrati da una ripetitività da loro stessi voluta scatenano la loro fantasia in opere complesse su cui mostrare finalmente con orgoglio le proprie capacità.
E quando queste opere non ci sono e non sono necessarie le inventano.
Così quando è emerso, tanti anni addietro, il bisogno di ottimizzare le modalità di relazione tra un'isola e il continente non si sono verificati i possibili miglioramenti nell'ordinaria conduzione, riduzione dei tempi di traghettamento e miglioramento della qualità dei servizi, ma si è intuito essere questo il caso ottimale per un'opera eccezionale che finalmente potesse rappresentare un problema.
Il problema è così divenuta la struttura del ponte e non il miglioramento delle relazioni, ed in questo gli operatori hanno finalmente potuto scatenare le autofrustrazioni di una vita professionale distratta e volutamente piatta.

3. Il ponte non ha ragione di esistere in quanto è la mostra del potere tecnico di questa società
La realizzazione di opere pubbliche ha sempre avuto una componente demagogica. Rappresentazione dell'efficienza dello stato, autorappresentazione della capacità tecnica, concretizzazione della possenza della collettività.
Come da bimbi ci si inorgoglisce nel sapere che il monte più alto d'Europa è in Italia, con lo stesso spirito il palazzo più alto, la strada più grande, la galleria più lunga, la diga più alta stupiscono e consolidano rozzamente lo spirito nazionale.
Ed ecco la diga del Vajont, la più alta, la rete autrostradale degli anni '60, la più estesa e confortevole, la galleria del Gran Sasso, la più lunga.
Nella realizzazione di ciascuna di queste opere si confonde alla necessità un livello di demagogia così spaventoso da offuscarne le reali ragioni di esistenza.
Del Vajont e della sua tragedia non se ne parli.
Le autostrade furono la rappresentazione del "boom economico": luoghi di visita, di incontro, di pubblicità mostravano come si potesse essere moderni ed uguali. Mangiare uguale e moderno agli "autogrill" con vista sull'autostrada. L'uomo moderno che guarda se stesso che viaggia: non vi è panorama più stupefacente e rassicurante della mobilità grandiosa e organizzata delle auto.
La galleria del Gran Sasso, attuata per lo sviluppo di una regione montana, fu un inutile sfregio ad un monte: migliaia di miliardi attuali, decine di morti, per permettere di collegare L'Aquila, oggi poco più di centomila abitanti, con Teramo, oggi sotto i cinquantamila, ovvero insieme meno di un quartiere di Roma. Per ottenere lo stesso risultato il monte poteva essere aggirato, ma si voleva lo scontro "duro" con la montagna, si voleva dimostrare che potere aveva la modernità, si voleva infrangere l'equilibrio di un rapporto tradizionale disprezzato dal nuovo modello.
Questo è l'uso peggiore della tecnologia, una tecnologia senza scopo, asservita alla rappresentazione; una tecnologia che mostra i muscoli, palestrata, vacua, autoincensatoria.
Questo luna park tecnologico affronta l'ambiente e l'individuo come se fossero oggetto e non soggetto del vivere, travisando il ruolo della tecnica da riparatrice a carnefice.
E tutto ciò è reso possibile dall'artificiosa immagine dello sviluppo e dello svilupparsi. Impostazione demagogica che cela gli interessi insiti nella realizzazione di opere pubbliche, pagate dalla comunità, di grandi dimensioni ad elevatissimi margini e profitti sia per l'entità dei finanziamenti sia per l'incommensurabilità delle dimensioni economiche.

4. Il ponte non ha ragione di esistere perché uniforma
Congiungere l'isola con il continente rafforza il modello vigente teso ad uniformare le condizioni spaziali, l'ambiente e gli individui.
Trascinati dall'interpretazione secondo la quale lo sviluppo è costituito dalle infrastrutture e dai beni materiali e certi che lo sviluppo abbia una sola configurazione, si è ritenuto corretto clonare le stesse soluzioni per territori differenti.
Lo sviluppo sarà forse questo ma allora non ha nulla a che vedere con il benessere degli individui e delle comunità.
In ogni luogo vi è un particolare modo di raggiungere la massima qualità della vita, modo che dipende dalla adeguata correlazione con l'ambiente e dalla considerazione della società insediata. Da tale adattarsi autonomo alle condizioni esistenti, da questo abitare così diverso tra le diverse zone scaturisce la diversità culturale, sociale, paesaggistica.
Questa diversità è un bene imprescindibile per la salute dell'uomo.
Ciò implica che ogni luogo ha una sua maniera ed un suo tempo per essere percorso; maniere e tempi derivanti dalle caratteristiche fisiche dei luoghi e da come la comunità insediata li utilizza. E ciò implica che la differenza di qualità delle società insediate non sarà misurata nella quantità di infrastrutture o nella velocità di percorrenza dei diversi luoghi.
Se così non fosse si attuerebbe un processo di uniformazione dei luoghi e delle comunità che non ha ragione di esistere se non nel profitto che si ricava dal controllare un mercato, e quindi una domanda di merci, unico e omogeneo.
Costruire il ponte è come asfaltare la laguna di Venezia.

5. Il ponte non ha ragione di esistere perché rafforza un modello di mobilità insostenibile
Il mondo è bloccato dagli autoveicoli ed il nostro paese ha una sudditanza anomala all'interno di un quadro già aberrante. Gran parte delle emissioni planetarie di CO2 derivano dall'uso dei veicoli a motore, circa 85.000 sono le vittime annue in Europa per tumori derivati dall'uso degli autoveicoli, e centinaia di migliaia i morti annui per incidenti stradali.
Costruire una strada qualunque essa sia, adeguarne il tracciato, ampliarne la capacità vuol dire rafforzare il sistema della mobilità su gomma. Ogni finanziamento in quella direzione contribuisce ad aumentare la dipendenza da un sistema di mobilità che ha mostrato evidenti limiti e che costituisce un rischio sociale (il monopolio dei trasporti su gomma) e per la salute degli individui.
Il progetto del ponte introduce il modello su gomma in un luogo in cui è ancora preminente un altro vettore di trasporto e mobilità.
Sarebbe invece necessario utilizzare questa disomogeneità del sistema di trasporto su strada per potenziare forme di mobilità diverse favorendo alcune soluzioni già esistenti e che proprio in queste condizioni rendono il massimo vantaggio energetico, ambientale, di sistema (cabotaggio).
Insistere con le strade sottomette ancora di più i cittadini ad un dominio di cui sono già schiavi culturalmente e socialmente. Infine, se si volesse costruire un ponte per risparmiare tempo si potrebbe mettere in conto, per definire delle priorità su scala nazionale, tutto il tempo impegnato dagli automobilisti nelle file urbane.

6. Il ponte non ha ragione di esistere perché è un fuoriscala paesaggistico e ambientale
Inserire un oggetto in un contesto non implica una sua mimesi all'interno dell'unità paesaggistica in cui si colloca ma implica il relazionarsi con la forma e la struttura ecologica del contesto stesso. È evidente che in questo senso un'opera del genere non può che destrutturare la percezione dell'intera area inserendosi come un fuoriscala che riconduce ogni carattere del sito alla sudditanza gerarchica all'opera stessa. Ogni percezione dello Stretto sarà dominata dall'infrastruttura modificando in maniera indelebile il paesaggio e le connotazioni sociali e ambientali ad esso connesso.

7. Il ponte non ha ragione di esistere perché è un fuoriscala sociale
La comunità locale non è in condizione né di costruirlo né di gestirlo. È un oggetto esterno al contesto sociale in cui si situa, non scaturisce da esso e lo ignora palesemente utilizzandolo passivamente per obiettivi esterni al benessere dalla società locale.
Il fuoriscala è anche economico ovvero si inserisce con una quantità di finanziamenti tanto consistenti, ancor più considerando l'attuale assetto economico del territorio, da prevedere effetti dilanianti sulla struttura sociale e produttiva locale.
Questi effetti, riscontrabili in esperienze spazialmente prossime e ancora in atto, possono innescare processi di degradazione sociale proprio in un'area che faticosamente ha avviato un processo di riqualificazione della società civile.

8. Il ponte non ha ragione di esistere perché rappresenta la più retriva cultura delle Opere Pubbliche
Il ponte si inserisce nella più retriva cultura delle OO.PP. dove ogni occasione è buona per grandi opere. Se si verificasse a livello locale la qualità e l'efficacia delle altre opere pubbliche realizzate in passato nell'area interessata, si manifesterebbe chiaramente l'incapacità di migliorare attraverso di esse la qualità del vivere e l'incapacità tecnica e amministrativa a gestire processi. Forse le cose sono cambiate ma l'accanimento nel perseguire il progetto di un ponte dimostra che la mentalità è la stessa di quella che ha governato le opere pubbliche in passato. Prima di avviare la costruzione di un ponte bisognerebbe avere la riprova che si sappiano progettare, costruire, gestire dei muretti.

9. Il ponte non ha ragione di esistere perché è un sacrilegio
La gran parte dei popoli che hanno avuto un rapporto non impositivo nei confronti dell'ambiente considerava la relazione con la natura come una interazione qualificata ed essenziale della propria esistenza.
Dai Lakota, ai Nuer, alle popolazioni della Polinesia, in qualunque luogo dove la natura è stata conservata si è in presenza di una interlocuzione diretta tra gli individui e le comunità e le forme e le manifestazioni naturali.
La natura era un agente a cui veniva conferita una identità spesso simile a quella dell'uomo ed i rapporti con essa erano regolati ed attenti. Regolati per evitare il deperimento delle risorse e attenti in quanto su di essi si costruiva l'esistenza delle persone e dei gruppi.
Il rapporto con la natura permeava l'intera esistenza umana e questa dipendeva, come oggi ancora dipende, dalle condizioni della natura e questa dipendenza definiva una relazione non paritetica ma nemmeno di sudditanza: un rapporto quasi paritetico con un soggetto, la natura, di maggior prestigio, da ascoltare, e a tratti da temere, trasformata in una relazione di "sacralità" che sottendeva ogni azione di trasformazione che l'uomo compiva nei confronti del suo habitat.
Così i Lakota cacciavano i bisonti ma ne sceglievano i capi da abbattere, ne regolavano le quantità e gran parte della loro esistenza era volta alla considerazione della condizione favorevole del poter cacciare bisonti. Il rapporto con i bisonti non era quello con una "risorsa", non si fermava alla tutela degli animali ma si spingeva alla comprensione, non scientifica ma interpretativa dei fenomeni e di fatto alla modificazione dei propri comportamenti per diventare anch'essi un poco bisonti ribadendo l'appartenenza ad un solo sistema.
La "sacralità" era appunto basata su questo rapporto simbiotico tra uomini e ambiente.
Nel momento in cui in alcune società il rapporto con la natura da "sacro" è divenuto religioso sono stati divisi i soggetti e gli oggetti: da una parte gli uomini sostenuti dalla garanzia di un dio posto dalla loro parte, da comportamenti e riti che davano sicurezza, e dall'altra la natura evidentemente meno dotata dell'uomo e succube delle sue azioni.
La religione, che non può che essere dogmatica e semplificatrice, ha sostenuto e sostiene un rapporto scorretto con l'ambiente, un rapporto mercantile (religioni e mercato sono sempre connesse), che persegue solo l'uso dell'ambiente e non il benessere delle comunità.
E le attuali condizioni del pianeta sono un esempio di ciò.

Adriano Paolella


Necessità e limite

Nel momento in cui viene a mancare il rapporto paritetico tra uomo e ambiente si instaura una logica di sfruttamento. L'ambiente diviene l'oggetto su cui è comunque possibile attuare qualsiasi trasformazione. In questo la società contemporanea è formidabile: senza dichiarare apertamente la superiorità delle necessità umane (anche fittizie) su ogni altra condizione del pianeta, giustifica qualunque trasformazione.
Sulla carta la conservazione della natura è dichiarata fondamentale a livello globale, ma nell'agire locale non si riconosce il valore che le singole azioni hanno su questa conservazione. Localmente non si riconosce l'incidenza che la sommatoria delle singole azioni ha nella determinazione delle condizioni di degrado del pianeta; si riconosce un danno limitato geograficamente e temporalmente, che viene ritenuto imprescindibile per il mantenimento delle condizioni di vita e per lo "sviluppo".
Così anche nel caso della più grande opera pubblica non vi è un limite definito nel chiedersi quanto si può trasformare, ma si relativizza tutto alla situazione specifica senza valutare congruamente gli effetti innescati né l'innumerevole serie di soluzioni alternative.
È chiaro, anche se non dichiarato, che nella scala di valori l'ambiente ha meno importanza della trasformazione, rappresentazione dello sviluppo e mezzo di profitto. È chiaro che tale modello è insostenibile ambientalmente e socialmente ed è altrettanto evidente come sia necessario recuperare un rapporto con l'ambiente, un rapporto paritetico in cui le azioni dell'uomo, per quanto piccole, siano sottoposte alla verifica di quanto producano relativamente al miglioramento o al peggioramento complessivo del sistema planetario.
E se questo dovesse portare a che non si facciano più ponti non si faranno più ponti.

A.P.

Caratteristiche principali del ponte

Lunghezza complessiva
20 km
Lunghezza campata centrale
3.300 m
Larghezza impalcato
60 m
Altezza
di ciascuna delle quattro torri 376 metri, circa sette volte la torre di Pisa, più alto di una cinquantina di metri dell'Empire State Building

Costi previsti
circa 10.000 miliardi dichiarati. Basterebbe solo una parte di questi per migliorare le ferrovie siciliane, per gran parte ancora a binario unico, e incentivare il cabotaggio per il trasporto merci e persone. Altre fonti definiscono i costi in 22.000 miliardi; visto come solitamente lievitano i costi in fase di definizione, l'aumento risulta molto probabile (si veda il recente caso delle tratte ferroviarie ad alta velocità).
20.000 miliardi investiti renderebbero circa 1.000 miliardi l'anno (5%) pari allo stipendio annuale di 23.809 persone a 42 milioni l'anno.

Volume ancoraggi e fondazioni
circa 724.000 mc di calcestruzzo, corrispondente al volume di circa 2.500 appartamenti di 100 mq ciascuno; un insediamento di circa 9.000 abitanti per più di 300 palazzine.

Peso complessivo dell'impalcato delle torri e dei cavi principali
274.800 tonnellate.

Tempo risparmiato sul percorso attuale
1 ora. Se ne risparmierebbero 2 con il raddoppio ferroviario Messina-Palermo

Pedaggio
115.000 lire per cinquant'anni (secondo Legambiente, per rendere conveniente l'investimento)

Avvio della progettazione
1968 concorso ANAS. Dal 1981 è finanziata dallo stato per diversi miliardi l'anno la società Stretto di Messina Spa