rivista anarchica
anno 31 n. 269
febbraio 2001


teatro

Il teatro impossibile di Armando Punzo
di Cristina Valenti

Nel cortile del carcere di Volterra la Compagnia della Fortezza ha rappresentato il Macbeth. Confermando che il suo regista sta ormai "dall'altra parte".


Foto di Enzo Noli

La notte di Macbeth, che la sua Lady definisce "quasi alle prese con la mattina", sarà lunga, in realtà, come quella "che non trova mai il giorno". Se, come ha scritto Jan Kott in pagine memorabili, la tragedia di Macbeth è metafora della Storia intesa come lotta inesorabile per il potere, costruito delitto dopo delitto, crimine dopo crimine, e il solo sogno possibile, per uscire dall'incubo, è un delitto definitivo, che spezzi la catena dei crimini, ecco che allora il Macbeth in carcere è incubo nell'incubo: un mondo ermetico, dominato dal delitto e dal suo pensiero, racchiuso in un universo concentrazionario, dove la condizione degli individui è sopraffatta dalla dimensione della colpa e determinata dal meccanismo della pena.
L'estate scorsa, la Fortezza di Volterra ha accolto gli spettatori per l'ormai tradizionale appuntamento di luglio nell'imballaggio ermetico di un teatro di cartone costruito nell'unico spazio aperto che è il cortile del carcere. Il teatro impossibile di Armando Punzo è proprio come questa pazzesca scenografia: una costruzione perfetta che bastano le folate di un vento estivo a minacciarla. Gli attori sono lì seduti, con le loro storie personali e con tutto il materiale raccolto durante i nove mesi di lavoro sul Macbeth, comprese le immagini dei film e le interpretazioni memorabili trasmesse dai quattro monitor sistemati ai lati.
Come nel Castello dei destini incrociati di Calvino, gli attori interpretano e interrompono brani del Macbeth, evocano i personaggi e danno corpo alle loro azioni, ma per tessere una trama continuamente spezzata e ricucita attorno alla sfida impossibile della rappresentazione intesa come costruzione di un mondo equivalente. D'altro canto, il regista è in scena, a dichiarare fin dall'inizio la rottura della forma spettacolo: "Nello psicodramma – spiega al pubblico – lo spazio è uno spazio sociale. Gli attori rappresentano i loro conflitti più profondi". E gli attori detenuti reagiscono ai suggerimenti e alle richieste del regista, che li interroga e li guida – tenendoli anche materialmente per mano – in un percorso di rispecchiamento e immedesimazione che pone al centro i temi del delitto e della colpa. Servendosi di pochi, semplici oggetti e di qualche intervento dei compagni – corone dorate di carta che passano di testa in testa, piccoli fari puntati sui volti, specchi, mani strette alla gola, sangue versato sui corpi, un coltello, una gabbia – gli attori estraggono dal Macbeth, con disarmante naturalezza, momenti di verità personale che in molti casi diventano, d'un colpo, grandissimi pezzi di teatro, rivelando al contempo i vertici poetici e la vocazione popolare del teatro shakespeariano, mentre dai video le immagini di Glauco Mauri, Carmelo Bene, Jack Nicholson intervengono a incrociare ulteriori sfondi e nuove sfide. Allora ci chiediamo se è anche questo che vogliono dirci gli attori e il regista (con un pezzetto di ironia che è certamente presente nell'operazione): che sarebbero in grado di fare un Macbeth più forte di quello di tanti grandi attori e più agghiacciante di Shining… ma più importante dello spettacolo è la domanda sul perché farlo e sul come ritrovare la verità di Shakespeare, ossia del meccanismo della Storia: che in loro, come in Macbeth, si condensa in vicenda personale. Vicenda di delitti e di colpe alla quale rispondono concedendosi e sottraendosi: "Ti ricorda qualcosa di te?". "Non sei stato così tu, in nessun momento della tua vita?". "Siamo in carcere: il teatro non c'entra assolutamente nulla". "Queste sono le mie parole". "Io sono Macbeth". "Io non credo a Macbeth". "Lui non l'ha ucciso davvero, e ce lo sta dicendo". "A cosa ti fa pensare questa scena?". "Qualsiasi cosa abbia fatto, non doveva finire così". "Chi la fa quest'azione? Macbeth. È teatro. Mai nella vita mia".
Armando Punzo non ha voluto rappresentare il Macbeth, ma ha messo in scena la compagnia dei suoi attori detenuti alle prese con l'allestimento della tragedia shakespeariana in forma di psicodramma. Non, come qualcuno ha scritto, una dimostrazione di lavoro, o una seduta di prova aperta al pubblico, ma uno spettacolo di cui gli attori e il regista della Fortezza sono al tempo stesso interpreti e personaggi. Così come nel Macbeth shakespeariano il mondo non è immagine riflessa nello specchio del teatro, ma vi entra a tutti gli effetti in quanto "terzo personaggio del dramma" (Jan Kott), allo stesso modo nel Macbeth della Fortezza il carcere non è metaforizzato nelle vicende rappresentate, ma è fino in fondo protagonista.


Quando Armando parlava

Lo stesso procedimento, si ricorderà, avveniva nel Teatro di guerra di Mario Martone, il film che raccontava la vicenda di un gruppo di attori e di un regista alle prese con l'allestimento di una tragedia, I Sette contro Tebe, da portare nella Sarajevo bombardata. Momenti di prove, brani dello spettacolo, vicende personali, mentre il conflitto nella ex Jugoslavia accelerava e ingigantiva l'urgenza del teatro come azione nel mondo e rimpiccioliva sempre più lo spettacolo come metafora della guerra: riflesso talmente inadeguato da dover lasciare, alla fine, che il mondo (e la guerra) si rappresentassero da sé, decretando l'impossibilità dello spettacolo a partire dall'ingresso reale della morte.
Io ricordo quando Armando Punzo ancora parlava. (Sembra una battuta, ma non lo è.) Quando – anche e soprattutto sulla spinta dei suoi spettacoli – la realtà del teatro in carcere aveva cominciato a suscitare attenzione, e si organizzavano convegni e incontri, nazionali e internazionali, nei quali gli interventi di Punzo erano immancabilmente i più rivelatori e i più spiazzanti. Le sue parole arrivavano puntualmente a smorzare entusiasmi introducendo dubbi anche pesanti sull'utilità del teatro in carcere, sulla sua funzione terapeutica o trattamentale e sulla responsabilità di chi vi operava. Raccontare il dentro al fuori, lui lo sapeva, era un'impresa pressoché impossibile, ma lui ci provava (ancora) mettendo puntualmente tutto in discussione, soprattutto l'ottimismo – lui che stava vincendo, coi suoi attori, premi su premi, e che rappresentava il faro del teatro in carcere a livello internazionale. Poi ha preso a noia i convegni e le tavole rotonde – l'ha anche scritto in una lettera che mi ha personalmente indirizzato e che abbiamo pubblicato sul numero 246 di questa rivista – ma soprattutto ha pressoché smesso di parlare. Poi è diventato evidente che alle domande ha cominciato a rispondere con gli spettacoli, attraverso la rappresentazione paradossale dei luoghi comuni più persistenti attorno al teatro in carcere e agli attori detenuti. Nei Negri (1996, da Jean Genet) gli attori esemplificavano sui propri volti le tipologie criminali di Lombroso; Orlando Furioso (1998, da Ludovico Ariosto) rivelava infine la condizione di pupi degli attori, riconsegnati agli invisibili fili del manovratore dopo aver animato i percorsi di un labirinto senza uscita; Insulti al pubblico (1999, da Peter Handke) trasformava il cortile del carcere in villaggio balneare, con tanto di piscina e palme; e quest'ultimo Macbeth, provocatoriamente costruito in forma di psicodramma, è arrivato a rispondere a quanti – media e istituzioni – ancora si attardano a interpretare il teatro in carcere in chiave terapeutica o "trattamentale".
Alla fine gli spettatori erano commossi ma soprattutto turbati. Pressoché tutti dicevano che quello spettacolo-non spettacolo era stato il più bello della Fortezza, facendo coincidere, ritengo, l'intensità dell'impatto emotivo con la qualità del risultato artistico. Di certo, se un primato questo Macbeth l'ha avuto, è stato quello di essersi spinto più lontano, accettando con estremismo, persino con crudeltà, di misurarsi con le proprie ragioni e – insieme – con le proprie possibili derive: con la propria verità e con i propri rischi, con la bellezza del teatro come confezione e con l'orrore di tutto quello che la confezione taglia fuori nell'operazione formale: prove, tentativi incandescenti, parole che prendono vita e si accendono di verità, volti che si deformano e gole che si stringono attorno a coscienze in subbuglio, interpretazioni miracolose dilatate sull'incubo di una perdurante notte, che continua a fissare la colpa al di là di ogni psicodramma liberatorio – tutto questo acceso e bruciato in un giorno di luglio in attesa del luglio seguente. "È lunga la notte che non trova mai il giorno".


Quali forme espressive?

Così non so se questo è stato lo spettacolo più bello di Armando Punzo, so che lui sta ormai da un'altra parte rispetto al teatro inteso come rappresentazione, e so che non tornerà certamente alla forma spettacolo. Non lo sta facendo neanche nei laboratori che gli vengono affidati anche da istituzioni prestigiose, come la Biennale di Venezia o l'Eti. Sceglie allievi impossibili e sembra sprecare occasioni, in realtà sta cercando di capire in quale direzione orientare tutta la sapienza che i non attori della Fortezza hanno saputo trasmettere al teatro ben oltre le modalità conosciute. Con loro ha toccato il miracolo dell'"azione reale" (necessaria, credibile, organica): quella attorno alla quale i registi e teorici del secolo appena passato si sono diversamente concentrati. Senza mai chiedersi se, una volta trovata, lo spettacolo sarebbe stato in grado di contenerla. (E di fatti la si è sempre intravista altrove: nei gesti di una donna impegnata a pulire il palcoscenico, come è accaduto a Copeau; nel dialogo di due ragazzi ignari di essere osservati, di là dai vetri di una finestra, come nel caso di Stanislavskij). E se non è lo spettacolo, il luogo dell'azione reale, lo spazio della presenza che non rappresenta, quali altri territori esplorare, quali relazioni, e quali forme espressive?
Sono le stesse domande che sembrano premere con urgenza sempre maggiore chi si occupa di teatro e disagio in genere (carcere, handicap, psichiatria). In attesa di trovare risposte, Armando Punzo produce ulteriori scardinamenti, che vengono salutati come eccellenti risultati teatrali, quando rappresentano, in realtà, lo scandalo di un teatro che ritrova in condizione reclusa l'urgenza e l'originalità delle sue ragioni. L'attore detenuto è quello che "esce dal coro che parla in terza persona e dice 'io'" – come scriveva Julian Beck, ponendosi contro il teatro di "attualizzazione registica" e a favore di "un modo di vedere il passato", ossia i motivi fondanti del teatro. Un teatro che sembra aver esaurito la possibilità di utilizzare in chiave di spettacolo gli strumenti che la ricerca teatrale si è data negli ultimi decenni, e attraverso il quale gli attori parlano con verità di loro stessi e del mondo, senza bisogno di metafore e usando gli specchi come attrezzerie di scena.
"Io sono Macbeth" spiega un attore detenuto, inoltrandosi nel tema della colpa e della sua elaborazione per via teatrale. E intanto molti Macbeth rappresentano fuori e dentro i monitor lo stato della notte e la distanza dal giorno: il tutto ben bene imballato nel cartone da pacchi del cortile della Fortezza, spettatori compresi, a riflettere sul ruolo del teatro come metafora del mondo e sull'incubo di una realtà che non ha bisogno di metafore per (rap)presentarsi.

Cristina Valenti