rivista anarchica
anno 31 n. 269
febbraio 2001


 

I Pigmei e le compagnie

I Pigmei dell'Ituri (Repubblica Democratica del Congo, in prossimità dei confini con l'Uganda e il Ruanda) sono ormai ridotti a poco più di trentamila. Vivono di caccia, pesca e della raccolta dei frutti della foresta, una foresta sempre più assediata dalle compagnie del legno.
"Come conseguenza della deforestazione" denuncia Padre Antonino Mazzuccato, in Congo dal 1967, "anche i pigmei rischiano di scomparire. Siamo ormai di fronte a un vero e proprio genocidio, non solo sul piano culturale e morale, ma anche su quello dell'eliminazione fisica vera e propria in quanto i pigmei rappresentano un intralcio alle attività delle compagnie".
Il missionario si batte per i diritti delle popolazioni pigmee del bacino del fiume dell'Ituri-Arawini da più di trent'anni, realizzando strutture scolastiche, sanitarie e per fermare la deforestazione operata dalle multinazionali del legno in modo che i pigmei possano sopravvivere come hanno fatto per millenni in equilibrio con l'ambiente naturale.
Da qualche tempo è al suo fianco il fratello gemello Benito, insegnante in pensione, con cui porta avanti un progetto di riconoscimento giuridico per le zone forestali da riservare agli indigeni e per l'autonomia amministrativa (anche se nell'ambito dello Stato congolese) delle zone in cui sono attualmente insediati i pigmei superstiti.
Da un paio d'anni nella regione è in atto una specie di "internazionalizzazione" della guerra civile con l'intervento sistematico delle truppe ugandesi, e sono proprio gli ugandesi i maggiori responsabili delle devastazioni ambientali dato che intendono far fronte agli alti costi della guerra vendendo il legname pregiato, mogano e tek in particolare.
Gli ugandesi, in collaborazione con una multinazionale tailandese specializzata nel commercio del legname, stanno operando dissennate deforestazioni nell'intera area, senza alcun rispetto per le popolazioni e per il prezioso ecosistema.
Ogni anno vengono distrutti circa 150.000 kmq di foresta tropicale per ricavare legname e per la costruzione delle infrastrutture necessarie per le attività delle multinazionali. Oltre ai pigmei rischiano di scomparire definitivamente anche rari esemplari della fauna locale. A rischio di estinzione è soprattutto l'okapi, la cosiddetta "antilope zebrata" divenuta il simbolo della Società internazionale di Criptozoologia e già perseguitata dai bracconieri.
Il fratello Benito ci aggiorna che "in questo momento Antonio si trova in Congo ma, a causa della guerra, non è ancora riuscito a rientrare nella foresta dell'Ituri e sta svolgendo attività di alfabetizzazione in parrocchia. Purtroppo la deforestazione prosegue a velocità impressionante, con la sostanziale complicità dei militari".

Gianni Sartori

 

Alberto Moroni, l'anarchico gentile

Con la morte di Alberto Moroni (4 dicembre) scompare uno degli ultimi testimoni della lotta antifascista anarchica.
Nato a Milano nel 1923, figlio di Antonio – figura controversa eppure centrale dell'antimilitarismo e del sindacalismo rivoluzionario sino alla settimana rossa del 1914 – a quindici anni iniziò a lavorare come tipografo presso la Capriolo & Massimino. Il suo debutto politico avvenne nei primi mesi del 1942 quando, insieme a suo padre, stamparono e diffusero clandestinamente una versione pacifista e antitedesca della nota canzone Lili Marleen. Denunciati da un delatore all'OVRA, furono tradotti nel carcere di San Vittore e dopo diversi mesi di detenzione subirono una condanna a 5 anni di confino da scontarsi alle Tremiti.
Amnistiato il 28 ottobre 1942 per l'anniversario della marcia su Roma, Moroni rientrò a Milano e continuò a fare il tipografo presso l'ospedale psichiatrico di Mombello. Notato per il suo attivismo sindacale, l'otto aprile 1945 fu costretto a nascondersi per non cadere in mano alle SS italiane. Entrato nelle Brigate Mazzini, formazioni organizzate dal PRI che nell'area milanese ebbero un certo peso militare e una forte componente libertaria e anarcosindacalista riconducibile alla tradizione dell'USI, attese l'inquadramento nelle brigate di montagna.
Dopo la Liberazione, Moroni s'impegnò a fondo nel campo sindacale e nella pubblicistica anarchica, diventando uno dei più prolifici ed eclettici articolisti del movimento anarchico. Non si contano i suoi interventi su Il Libertario, Umanità Nova, L'Internazionale ed in particolar modo su Volontà dove, dal 1958 al 1979, divenne una delle presenze consuete con oltre una cinquantina di articoli pubblicati.
Negli ultimi anni prese a collaborare con il Centro Studi Libertari di Milano aiutando nella classificazione dell'emeroteca. Le restanti energie le utilizzò nella pubblicazione delle sue memorie sul padre (Alberto Moroni, Antonio Moroni. Una vita controversa dall'inizio del secolo al dopoguerra, a cura di Virgilio Galassi, Capriolo & Massimino, Milano 1998, pagg. 156, lire 18.000).
Di lui restano numerose testimonianze tra cui la sua partecipazione al video Gli anarchici nella Resistenza curato dal CSL di Milano nel 1995 e numerose ore d'intervista depositate presso la nastroteca del CSL.

Dino Taddei

 

È morto Gianfranco Bertoli

Martedì 28 novembre scorso, a Livorno, è morto all'età di 67 anni Gianfranco Bertoli. Balzato alla ribalta delle cronache il 17 maggio 1973, per l'attentato di cui fu protagonista davanti all'entrata della questura di Milano – che causò 4 morti e numerosi feriti –, Bertoli è stato un personaggio controverso.
Nei suoi primi 40 anni (cioè fino all'attentato di Milano) ebbe vari problemi con la giustizia per la sua vita ai margini della legalità: furti, piccole rapine ecc. Politicamente era schierato a sinistra, con una lunga militanza nella FGCI e nel PCI. Nel periodo precedente l'attentato visse in Israele, in un kibbutz. Da qui rientrò in Italia, via Francia, per "vendicare" Pinelli, nel giorno in cui, nel primo anniversario dell'assassinio del commissario di polizia Luigi Calabresi, allo stesso veniva inaugurato un busto nella questura milanese, con una cerimonia a cui era presente anche il ministro dell'interno Mariano Rumor. Bertoli scagliò una bomba qualche attimo prima che le autorità varcassero la soglia della questura, l'ordigno finì ai piedi di un poliziotto che lo allontanò con un calcio. Ne risultò una strage: tra le vittime, una ragazza che si stava recando in questura per ritirare il passaporto.
Bertoli venne immediatamente arrestato, sottratto al linciaggio dei presenti, e rimase in carcere per un quarto di secolo. Fin dalle prime dichiarazioni trapelate a mezzo stampa, poi tramite il suo difensore d'ufficio e infine al processo (che si celebrò a Milano nel '75), Bertoli si dichiarò "anarchico individualista", precisando di aver agito da solo, mosso dall'impulso di "vendicare Pinelli". Si era in piena campagna di contro-informazione sulla "strage di stato" e gran parte del nostro impegno in quegli anni era appunto dedicato a rovesciare l'iniziale campagna politico-giudiziaria del Potere volta a colpevolizzare gli anarchici e più in generale la sinistra extra-istituzionale. L'inaccettabilità della strage del 17 maggio – subito condannata in un comunicato-stampa delle tre organizzazioni anarchiche nazionali allora esistenti (FAI, GIA e GAF) – sommata al contesto più generale e anche ad una serie di informazioni (poi rivelatesi false) su di una sua militanza neo-nazista, spinsero fin dall'inizio il grosso dell'opinione pubblica – compresa quella "rivoluzionaria" – ad accettare l'ipotesi di un attentato e di un attentatore neofascisti, ennesimo anello di una catena di stragi. E così, più o meno, è rimasta l'opinione prevalente.
Noi di "A" – e pochi altri – operammo invece un distinguo tra l'attentato (la cui condanna sottoscrivemmo subito) e l'attentatore, suscitando un acceso dibattito in campo anarchico. Iniziammo una corrispondenza (originata da una sua prima lettera) con Bertoli: numerose di queste lettere (indirizzate a volte ad altre persone) sono state pubblicate su "A" e anche su qualche altra testata libertaria. I compagni di "Senzapatria" ne raccolsero alcune in un libro ("Attraversando l'arcipelago") oggi quasi introvabile. In questi suoi scritti Bertoli descriveva la situazione nelle carceri e – dal '79 – nelle supercarceri, esprimeva le sue opinioni sulla lotta armata come su quanto avveniva all'interno dell'arcipelago carcerario. Per quanto riguarda il proprio gesto, ebbe parole di profonda autocritica e spinse pubblicamente i giovani a rifiutare la violenza – quella "terroristica" in particolare. E lo fece in epoca non sospetta, prima di quella legislazione premiale che aprì la stagione del pentitismo, cioè dei mille pentiti (perlopiù strumentali) alla ricerca di provvedimenti di clemenza. Bertoli non ne chiese e non ne ebbe: per quasi 15 anni non uscì da un carcere se non per essere trasferito in un altro.
Nella seconda metà degli anni '70 e negli anni '80 è stato per noi un compagno, un collaboratore valido, una persona che ci ha aiutato a capire – dal suo osservatorio del tutto particolare (la cella di un supercarcere a Cuneo, all'Asinara e a Marino del Tronto) – l'evolversi della situazione. Le sue riflessioni sulla violenza, contro il terrorismo, sulla situazione medio-orientale ecc. hanno occupato molte pagine di questa rivista.
Per lungo tempo fu il "bibliotecario" nel carcere di Porto Azzurro (ex Portolongone) e proprio sull'isola d'Elba ebbe, nella seconda metà degli anni '80, i primi permessi. Le uscite dal carcere, prima occasionali e limitate all'isola, poi strutturali legate al lavoro esterno diurno a Pistoia, videro il suo rapido precipitare nella droga con frequentazioni legate a quel mondo. I suoi rapporti con i compagni che gli erano stati vicini entrarono l'un dopo l'altro in crisi e neppure l'umanità di alcuni operatori giudiziari e carcerari riuscì a bloccarlo su quella strada.
Gli ultimi anni della sua vita sono stati segnati da pubbliche dichiarazioni di vicinanza al cattolicesimo militante, dalla pubblicazione di un volume autobiografico, da un tentativo di suicidio e soprattutto da processi nei quali Bertoli non ha chiarito una serie di accuse di connivenza con l'estrema destra prima del suo attentato. Si è limitato a ribadire, ad ogni occasione, la "genuinità" del suo gesto, che pure ha continuato a "condannare". Anche i mass-media hanno dovuto registrare, nel segnalarne la morte, questa sua coerenza.
Con noi i rapporti si erano rotti poco dopo la sua uscita dal carcere e la sua "caduta" nella droga, con annessi comportamenti squallidi. A Livorno, suo ultimo luogo di residenza (prima in carcere, poi fuori), frequentava ambienti cattolici e – alla domenica – gli ultras della locale squadra di calcio. È stato seppellito con un crocefisso e la bandiera amaranto degli ultras.
"Il suo difficile vissuto personale – ha scritto la redazione del settimanale anarchico "Umanità Nova" (17.12.2000) – non può aiutarci a dare una risposta certa, univoca. Probabilmente la verità è calata nella fossa con lui".

la redazione