rivista anarchica
anno 31 n. 276
novembre 2001


USA & Islam

Sponsor, finanziatori e profittatori
di John K. Cooley

Nella lunga e perversa storia d'amore tra gli USA e il fondamentalismo islamico, una delle figure centrali è quella di Usama bin Laden. Ecco un capitolo tratto da “La guerra empia”.

(…)
Nel maggio 1998, dopo mesi di ardue trattative, una troupe televisiva americana riuscì a stabilire un contatto e a intervistare, in un rifugio tra le montagne dell’Afganistan controllato dai talebani, l’uomo che il governo degli Stati Uniti e molti dei suoi alleati consideravano il terrorista internazionale in libertà più pericoloso del mondo. Si trattava di Usama bin Laden, un multimiliardario, nato nel 1957, che aveva costruito la sua fortuna da cittadino dell’Arabia Saudita, per poi diventare leader e finanziatore della rete terroristica internazionale nata dalla guerra santa in Afganistan. Durante l’intervista televisiva di quel maggio, bin Laden sostenne la necessità di uccidere americani ed ebrei dovunque fossero, definendo gli americani “i peggiori ladri del mondo e i [peggiori] terroristi”. Esaltò – lasciando quasi intendere di considerarsene il responsabile – l’attentato al World Trade Center di New York nel febbraio 1993 e la sconfitta delle forze americane in Somalia nel 1993-94, esprimendo il desiderio proprio e dei suoi seguaci di eliminare l’influenza e gli interessi occidentali, soprattutto americani, dal mondo arabo e musulmano, oltre che di spodestare e di distruggere la famiglia reale saudita (27).
Il governo degli Stati Uniti stava ufficialmente valutando l’opportunità di mettere una taglia su bin Laden, una scelta che poteva rivelarsi pericolosa dal momento che bin Laden godeva della protezione dei talebani, a loro volta protetti dal Pakistan, alleato dell’America. La storia è essenziale per capire in che modo la jihad afgana abbia condotto in linea diretta a una serie di atti terroristici in tutto il mondo, al moltiplicarsi delle azioni di guerriglia e alla privatizzazione di queste azioni attraverso il finanziamento personale di bin Laden e di altri personaggi simili.
Qualche informazione sulla famiglia d’origine yemenita di bin Laden, che ha fondato e reso prospera una delle più grandi imprese edili del mondo, può aiutarci a comprendere il carattere internazionale della guerra santa afgana e delle guerre empie che ne scaturirono.
La provincia di Hadhramaut, sulla costa meridionale dello Yemen, a est del grande porto marittimo di Aden, è una torrida terra di alte e pittoresche costruzioni di fango cotto che, fino a non molto tempo fa, erano realizzate a mano. Nei secoli passati, le imbarcazioni mercantili degli arabi hadrami raggiungevano da qui l’Indonesia e la Cina portando indietro spezie, incenso e mirra dall’Estremo Oriente e dal subcontinente indiano, molto tempo prima che i mercanti dell’Inghilterra e del Massachusetts facessero fortuna grazie al commercio con la Cina del diciannovesimo secolo.
L’Inghilterra liberò dal proprio giogo coloniale Aden e l’Arabia meridionale nel 1967, creando i due Paesi indipendenti dello Yemen del Nord e dello Yemen del Sud al posto dei vecchi Stati e principati che costituivano il protettorato inglese. Ancora prima dell’indipendenza, una generazione di mercanti, impiegati e cambiavalute hadrami erano emigrati a nord, in Arabia Saudita, in cerca di fortuna. Questa fortuna, conquistata grazie a un duro lavoro e alla buona sorte, contribuì alla nascita delle dinastie commerciali e bancarie saudite. Alcune di queste oggi finanziano la causa dell’Islam nel mondo attraverso istituzioni filantropiche musulmane, banche private e fondazioni di vario genere. Tra gli immigrati hadrami, creatori e fondatori di queste istituzioni, c’era un ex impiegato di un ufficio cambi di Jeddah, Salim bin Mahfouz, proprietario di uno degli istituti finanziari privati più grandi e più prosperi del regno, la Saudi National Commercial Bank (28). Se un tempo era legata alla bcci, dopo la rottura di questi rapporti ottenne attestati di buona e robusta costituzione dai tribunali e dagli enti investigativi occidentali.


Un Berlusconi yemenita

Muhammad bin Laden, il padre di Usama bin Laden e fondatore della straordinaria dinastia di imprenditori edili, era un altro di questi yemeniti emigrati da giovani in Arabia Saudita. Aveva inizialmente trovato un posto di muratore presso la aramco, la compagnia petrolifera arabo-americana, dove guadagnava un riyal (circa 400 lire) al giorno. Come i suoi compatrioti hadrami immigrati, depositava i risparmi in una scatola di latta. Quando ebbe messo via abbastanza soldi per creare una propria attività, fondò l’impresa edile bin Laden. Iniziò in sordina, con poche commesse, ma ben presto, nei primi anni Cinquanta, si allargò e cominciò a costruire palazzi per la Casa saudita a Ryad. La grande occasione per Muhammad bin Laden e per i suoi figli – ne ebbe infatti non meno di 52 con le diverse mogli – arrivò con un appalto per la costruzione dell’autostrada Medina-Jeddah, nella provincia sacra di Hejaz, dopo il ritiro di un concorrente straniero.
Ben presto il nome di bin Laden divenne una leggenda nel settore delle costruzioni nel regno saudita, nell’emirato del Golfo di Ras al-Khaimah e in Giordania, dove vennero realizzati importanti progetti di strade, aeroporti e altre infrastrutture. La società attirava ingegneri e tecnici da tutto il mondo e la sua fortuna crebbe rapidamente e a dismisura. Muhammad lo sceicco, come fu soprannominato, si creò ben presto la fama di uomo devoto e ricchissimo, viaggiando in jet, come era solito fare, da un cantiere arabo all’altro. Una volta visse l’esperienza unica di recitare, in un solo giorno, le preghiere del mattino a Gerusalemme est (prima della conquista della città santa da parte di Israele nel 1967), le preghiere di mezzogiorno a Medina e quelle della sera alla Mecca. La sua reputazione di uomo pio si rifletteva sull’immagine della sua azienda. Quando morì in un incidente aereo nel 1966, il gruppo bin Laden era l’impresa privata del settore più grande del mondo e possedeva 90 delle più grandi scavatrici Caterpillar allora esistenti.
Malgrado le proprie credenziali religiose, che furono utili più tardi quando cominciò a finanziare la jihad afgana, l’azienda era carente in quanto a capacità manageriali. Per qualche tempo il re Faisal assunse il titolare di una piccola impresa edile perché ne controllasse gli affari, ma alla fine degli anni Settanta era uno dei figli più giovani dello sceicco Muhammad, Usama, a gestire la maggior parte del business. Sotto la sua direzione il gruppo riuscì a mantenere la reputazione di cui godeva, di eccellenza professionale e intraprendenza nella realizzazione di grandi progetti. La quota di fortuna familiare ereditata da Usama bin Laden cominciò ben presto ad aumentare.Nel 1981, quando il capo della cia Casey e i suoi colleghi sauditi, Kamal Adham e il principe Turki, erano alla ricerca di nuove fonti occulte di finanziamento per la campagna afgana, le imprese bin Laden rientravano tutte nel breve elenco di famiglie potenzialmente disponibili. Il principe bin Abdul Aziz, il potente ministro della difesa e dell’aviazione, disse a una delegazione americana di uomini d’affari e investitori che quelle aziende “avevano fatto grandi cose per il regno” (29).
Un rapporto standard e piuttosto tardivo del Dipartimento di Stato americano, pubblicato nell’estate del 1997, riporta numerosi fatti interessanti sulla carriera di bin Laden in quanto dirigente del terrorismo islamico e antiamericano (30), ma tralascia le informazioni di fondo che ci aiuterebbero a capire quanto fossero antichi e stretti i suoi rapporti negli Stati Uniti, permettendo così al duo Reagan-Casey di assicurarsi le sue capacità e la sua ricchezza per sostenere la jihad.


La lezione dell’Afghanistan

(…) Lo stesso non si può dire di Usama bin Laden che, non appena i sovietici invasero l’Afganistan, nel dicembre 1979, si unì ai mujahedin e assunse ben presto un ruolo di primo piano. “Ero infuriato e ci andai subito”, dichiarò in un’intervista nel 1993 a Robert Fiske del quotidiano “Independent”, uno dei primi giornalisti che riuscirono a indicarlo tra i personaggi chiave della jihad e di tutto quanto seguì. Bin Laden costituì una base a Peshawar, facilmente raggiungibile dall’isi pakistana ma, sembra, non controllata da questa. Grazie alla sua personale reputazione di pio musulmano e di sostenitore della causa islamica wahabi, e grazie al coinvolgimento delle aziende di famiglia nell’opera di costruzione e ristrutturazione dei santuari della Mecca e di Medina, appariva sia ai servizi segreti sauditi sia alla cia come la scelta ideale per svolgere il ruolo di leader che pian piano assunse.
Bin Laden cominciò a usare fondi suoi e delle sue società per pagare il reclutamento, il trasporto e l’addestramento dei volontari arabi che si ammassavano dapprima a Peshawar e poi in Afganistan per combattere nella jihad. Secondo i servizi segreti egiziani il suo aiuto ai gruppi islamici clandestini in Egitto, tra cui il Gamaa al-Islamiya e l’Al-Gihad, che aveva assassinato Sadat, ebbe inizio contemporaneamente o poco tempo dopo il suo arrivo in Pakistan. Nel 1985 bin Laden aveva raccolto abbastanza miliardi dalla sua famiglia, dalle sue società e dalle donazioni di facoltose famiglie di commercianti del Golfo Arabo per riuscire a organizzare al-Qaida, la Fondazione per la Salvezza dell’Islam, a sostegno della jihad. Istituì una rete di centri di reclutamento in Arabia Saudita, Egitto e Pakistan, attraverso la quale arruolava e proteggeva migliaia di volontari arabi, forse assistito – ma questo non è del tutto chiaro all’autore – dalla fondazione religiosa pakistana Tablighi Jamaat, particolarmente attiva, come abbiamo visto prima, nell’Africa del Nord. Questa vasta confraternita di discepoli al-Qaida è ancora attiva a livello internazionale.
Molti di coloro che erano stati reclutati da bin Laden si rivelarono musulmani fanatici, come del resto era egli stesso, e combattenti coraggiosi. Altri invece erano semplici delinquenti, come quelli che la Tabligh aiutava a farsi un’istruzione religiosa in Pakistan dopo essere usciti dalle carceri algerine o tunisine. Un pregiudicato egiziano era Muhammad Amer, che si trovava tra i volontari non sauditi che avevano preso parte alla grande rivolta e alla conquista della moschea santa della Mecca nel novembre e dicembre 1979, appena prima dell’inizio della guerra in Afganistan. A differenza di molti degli altri rivoltosi, che furono decapitati con la spada, ad Amer fu inflitta la pena relativamente blanda di nove anni di carcere. I servizi segreti egiziani sostengono che la rete di Usama bin Laden abbia aiutato Amer, una volta uscito dal carcere saudita, a fuggire a Peshawar, dove si unì a un gruppo di militanti egiziani più o meno coinvolti nei combattimenti contro i russi. Questo gruppo era guidato o influenzato da Ayman al-Zawahri, un professionista egiziano con formazione universitaria. Costui era il sedicente “emiro” di una cellula islamica che era riparata dall’Egitto a Peshawar poco tempo dopo l’uccisione di Sadat nel 1981. Nel 1998, al-Zawahri, inviando ordini per fax ed e-mail agli insorti islamici in Egitto dai suoi vari luoghi di esilio, soprattutto la Svizzera, era ancora uno degli uomini più temuti presenti nella lista dei “ricercati” dei servizi di sicurezza del presidente Mubarak.
Indipendentemente dal fatto che bin Laden fosse o no coinvolto, i mezzi utilizzati dagli islamisti egiziani per raccogliere fondi comprendevano la contraffazione e il riciclaggio di denaro. Muhammad Amer e un altro volontario egiziano, Al-Syed Muhammad Ibrahim, concepirono con al-Zawahri l’idea di stampare in quantità massicce dollari americani, riyal sauditi e sterline egiziane false per finanziare le azioni in Egitto e in altri Paesi. I servizi segreti egiziani ritenevano che costoro fossero sostenuti da alcuni elementi iraniani, allora sospettati dal Tesoro americano di falsificare grandi quantità di banconote da 100 dollari. Una sofisticata macchina da stampa fu introdotta illegalmente in un remoto villaggio dell’Egitto, Bassous, dove le incursioni della polizia erano ritenute improbabili. La banda fu invece scoperta e arrestata grazie alla collaborazione di un noto falsario professionista già sotto vigilanza della polizia egiziana (31).


Affari in Sudan

Nel corso della jihad in Afganistan, Usama bin Laden fece arrivare, tramite le sue società, bulldozer e altre attrezzature pesanti per costruire strade e gallerie e realizzò ospedali e grandi rifugi tra le montagne del Paese per ospitare i combattenti della guerra santa e le loro vettovaglie.
Dopo il ritiro dei sovietici nel 1989, bin Laden tornò per un breve periodo in Arabia Saudita per occuparsi delle attività edili della famiglia dalla sede centrale del gruppo a Jeddah. Ma nel frattempo continuava a sostenere i militanti islamici che avevano cominciato a prendere di mira i governi di Egitto, Algeria, Tunisia, Yemen, Filippine. I servizi di sicurezza sauditi, già alquanto imbarazzati per le sue attività, gli ritirarono il passaporto nel periodo dal 1989 al 1991, sperando di impedirgli, o almeno di scoraggiare, i contatti con gli estremisti con cui aveva collaborato durante la jihad afgana, ai tempi con la piena approvazione del regime saudita e della cia (anche se non sempre dell’isi pakistana).
Nel 1991 bin Laden, in compagnia di alcuni veterani della guerra afgana a lui fedeli, si trasferì a Khartoum, la capitale del Sudan, dove fu accolto da Hassan al-Turabi, il colto e prestigioso dirigente del Fronte Nazionale Islamico del Sudan (nif). Quando il generale Omar Bashir aveva conquistato il potere grazie al colpo di Stato militare del 1989, il nif e Turabi erano forze discrete ma potenti alle spalle del regime militare sudanese. Già dai primi anni Ottanta bin Laden e i suoi collaboratori in affari erano in cerca di opportunità d’investimento in Sudan, un Paese devastato da decenni di guerra civile tra i governi islamici del nord e i movimenti cristiani e animisti del sud. Nel 1990, prima di recarsi a Khartoum, bin Laden aveva già dato il via a una serie di progetti commerciali.
Bin Laden si rese utile in Sudan, aumentando allo stesso tempo la sua fortuna personale, grazie alla costituzione di imprese in cui era associato con i ricchi esponenti del nif di Turabi. La sua società, denominata Al-Hijrah for Construction and Development, costruì una nuova importante autostrada che univa Khartoum a Port Sudan, sul Mar Rosso, e il moderno aeroporto internazionale di Port Sudan. La trading company di bin Laden, Wadi al-Aqiq, che operava insieme alla Taba Investment Company, ottenne un quasi monopolio sui principali prodotti agricoli di esportazione del Sudan – gomma arabica, mais, girasole e sesamo – operando insieme ad alcuni importanti esponenti del nif. Un’altra società di bin Laden, la Al-Themar al-Mubarakah Agriculture Company, acquisì vasti terreni vicino a Khartoum e nel Sudan orientale. Sempre insieme ad alcuni membri benestanti del nif, bin Laden finanziò la costituzione di un nuovo istituto bancario a Khartoum, la Al-Shamal Islamic Bank, riservato alle attività bancarie islamiche senza interessi, investendo 50 milioni di dollari in fondi da lui controllati.
Il personale delle società di proprietà di bin Laden o da lui controllate raggiunse ben presto le centinaia, forse le migliaia di dipendenti: quasi tutti militanti arabi o veterani della jihad afgana, in cerca di un modo per evitare di tornare nel proprio Paese d’origine, dove molti di loro dovevano scontare pene detentive, se non addirittura condanne a morte, per reati comuni o per attività sovversive e terroristiche. Bin Laden rilasciava passaporti e documenti d’identità falsi e stabiliva contatti di tipo professionale per agevolare gli spostamenti degli “afgani”, com’erano definiti i veterani della jihad. Nel 1993, per esempio, pagò il viaggio in Sudan a tre o quattrocento di loro che rischiavano gravi sanzioni in Pakistan, ai tempi sotto la pressione dell’Egitto, dell’Algeria e di altri Paesi. Fu istituita anche una filiale della rete al-Qaida in Sudan per ospitare i nuovi immigrati. Bin Laden li finanziò e proseguì l’addestramento che avevano già iniziato in Pakistan e in Afganistan dopo la ritirata sovietica.
I seguaci di bin Laden cominciarono allora a collaborare con altri gruppi di dissidenti sauditi, sia contro la presenza militare americana nel Golfo, sia contro la stessa famiglia reale. I suoi seguaci in Arabia Saudita si mescolavano facilmente con i pellegrini che partecipavano allo haj alla Mecca e a Medina, soprattutto con quelli che poi ritornavano in Egitto o in Sudan. I servizi segreti egiziani, che per tenere gli “afgani” fuori dal Paese puntavano a rigidi controlli ai confini con il Sudan e la Libia, si resero conto di essere stati raggirati dal momento che le infiltrazioni provenivano dall’Arabia Saudita. Nell’aprile del 1993 il presidente Mubarak compì una visita speciale a Ryad per lamentarsi del supporto fornito da bin Laden agli islamisti egiziani insorti.


Il ruolo di Salem

Nello stesso anno, i gruppi terroristici islamici con base a Peshawar ma attivi in Egitto intensificarono le aggressioni ad agenti di polizia, giudici, cristiani copti e turisti stranieri. Alla fine del maggio 1993, il ministro degli interni egiziano annunciò l’arresto di oltre 800 militanti islamici e lo smantellamento di una vasta rete terroristica, aggiungendo che bin Laden finanziava un nuovo gruppo denominato “Votati alla Jihad”. Bin Laden, sostenevano gli uomini del presidente Mubarak, aveva aiutato un dissidente egiziano di nome Magdi Salem a stabilirsi in Arabia Saudita, fornendogli documenti di viaggio e lavoro presso le società bin Laden. Quando le autorità saudite lo avevano espulso, nel 1991, Salem era tornato in Egitto, dove pare che avesse lavorato agli ordini dell’allora dirigente di al-Gihad, l’ex tenente colonnello dell’esercito egiziano Abboud al-Zumor, coordinatore del riuscito complotto per uccidere il presidente Sadat, poi fuggito a Peshawar. Magdi Salem aveva il compito di costituire nuovi nuclei d’azione nella regione del Cairo e del delta del Nilo.
Ad Alessandria, Salem fu mandato a lavorare con Fuad Daifallah, responsabile di una filiale locale dal nome poco originale e di stampo iraniano di Hezbollah. Bin Laden, secondo il governo egiziano, fornì un finanziamento dopo che l’Iran rivoluzionario si era rivelato pigro o restio a pagare i combattenti non sciiti (la minoranza sciita in Egitto è molto piccola e non ha alcuna presa religiosa o politica; tutti i gruppi dissidenti, compreso Hezbollah, erano in realtà sunniti). Un’altra indagine condotta dagli egiziani presso le autorità saudite rivelò che le società di bin Laden inviavano fondi ai militanti islamici egiziani per comprare macchine da stampa, armi e altre attrezzature non specificate.
Nel gennaio 1994, secondo i rapporti dei servizi segreti americani, bin Laden finanziava almeno tre campi di addestramento di guerriglieri o terroristi egiziani, algerini, tunisini e palestinesi, in collaborazione con il nif. Alcuni giornalisti occidentali, compresa un’équipe di abc News, che ebbero la possibilità di visitare una delle zone in questione, non trovarono alcun segno degli stranieri, ma solo la presenza di un campo di addestramento delle milizie del nif sudanese (benché mancassero le prove, il sospetto era che durante le visite alcuni degli arabi avessero indossato divise sudanesi. Secondo i rapporti americani, una società di Bin Laden, la Al-Hijrah for Construction and Development, collaborava direttamente con gli ufficiali sudanesi per fornire alle reclute mezzi di trasporto e provviste.
Oltre a ricorrere alle sue ricchezze e realizzare opere edili, bin Laden aiutava gli ospiti sudanesi agevolando gli acquisti di petrolio saudita per il Sudan, povero di risorse energetiche e di mezzi finanziari, a prezzi sovvenzionati. Aveva affittato una grande casa in Al Mashal Street, nel quartiere periferico di Khartoum chiamato Al-Ryad, come la capitale saudita, comodamente situata non lontano dall’aeroporto. Circa 200 dipendenti delle sue società e alcuni seguaci con le relative famiglie arrivarono da Peshawar portando denaro nel Paese. Dopo il suo arrivo, prese il via un regolare scambio di messaggi tra Washington, Ryad e Khartoum, in cui si chiedeva al governo del generale Bashir di ridurre gradatamente e, se possibile, di mettere fine alle attività di bin Laden in sostegno ai guerriglieri all’estero. A quanto risulta, nel 1993 un dirigente del nis di Hassan al-Turabi avrebbe assunto il controllo dell’addestramento e dell’indottrinamento di tutti coloro che si trovavano in Sudan.
Nel 1994 Usama bin Laden cominciò a spostare l’attenzione sullo Yemen, l’antico e travagliato Paese che aveva dato i natali a suo padre. Lo Yemen confina con l’Arabia Saudita con cui ha avuto una grave disputa territoriale dopo aver perso la regione di Najran nella guerra del 1933-34. Nell’estate del 1994, il governo conservatore dello Yemen del Nord, sotto la presidenza di Ali Abdallah Saleh, sostenuto dagli islamisti, combatté un aspro conflitto contro lo Yemen del Sud, in precedenza governato dagli inglesi, che vantava una società molto più laica di quella del nord. Nel 1994 era governato da socialisti sui generis guidati dal generale Ibrahim al-Bidh. Bin Laden cominciò a inviare nello Yemen del Nord denaro, armi e reduci della jihad. Gli yemeniti del sud fornirono ai servizi di sicurezza del Cairo informazioni sui campi di addestramento islamici nello Yemen del Nord. Il regime monarchico saudita, malgrado l’apparente incongruenza, sosteneva e riforniva il regime yemenita del sud, dalla mentalità laica, contro gli yemeniti del nord di Sanaa, che i sauditi consideravano più ostili ai loro interessi. Dopo dieci anni di collaborazione con i servizi segreti americani e molti anni di tentennamenti ed equivoci, la famiglia reale saudita decise finalmente di arrendersi alle pressanti critiche del presidente Mubarak e degli americani. In un discorso all’inizio della primavera del 1994, il principe della corona saudita Abdallah proclamò apertamente che gli elementi islamici più intransigenti, che predicavano la violenza ed erano collegati a gruppi clandestini in Egitto, non sarebbero più stati ammessi nel regno. Stando ad alcuni rapporti del governo americano, le attività di bin Laden nello Yemen durante quel periodo includevano il finanziamento di un gruppo che nel dicembre 1992 aveva ripetutamente tentato di colpire con attentati i 100 militari delle forze armate americane di stanza a Aden in appoggio alle operazioni dell’onu in Somalia (32).


Nella Casa dei Martiri

Il 7 aprile 1994, dopo una visita speciale del presidente Mubarak per lamentarsi di bin Laden con il re Fahd, e dopo una richiesta di assistenza dello Yemen all’Interpol per riuscire ad arrestarlo, la famiglia reale saudita decise di uscire allo scoperto. Il re Fahd annunciò pubblicamente che bin Laden era stato privato della cittadinanza saudita (un provvedimento effettivamente adottato senza alcuna pubblicità in febbraio) per il suo comportamento “contrario agli interessi del regno e potenzialmente dannoso per le relazioni dell’Arabia Saudita con i Paesi fratelli” e per “essersi rifiutato di obbedire agli ordini impartitigli”. Un uomo d’affari saudita dichiarò a Youssef Ibrahim del “New York Times” che il governo reale aveva anche adottato provvedimenti per congelare il patrimonio di bin Laden nel regno, “anche se si riteneva che disponesse di milioni di dollari su conti bancari all’estero”. L’articolo del quotidiano newyorkese aggiungeva che la decisione presa nei confronti di bin Laden sembrava un avvertimento diretto ad altri magnati sauditi meno in vista perché tagliassero i ponti con i gruppi di militanti islamici in Egitto, Giordania, Tunisia e Algeria. Tali legami, osservò Ibrahim, assumono spesso la forma di opere di carità islamiche, come la costruzione di moschee o la costituzione di imprese da utilizzare come canali per riversare denaro nelle casse dei militanti (33). Alcuni di questi finanziamenti, già presenti in Pakistan e in Afganistan nel decennio della jihad, erano ancora utilizzati nel 1997 per finanziare i campi di addestramento dei terroristi e dei guerriglieri di Kunar, in Afganistan. Fonti del controspionaggio egiziano affermarono che tra gli allievi di Kunar vi erano anche membri dei gruppi egiziani insorti. Dopo la cattura in Pakistan, nel febbraio 1995, e l’estradizione a New York del terrorista internazionale Ramzi Ahmed Yousef, successivamente condannato all’ergastolo per l’attentato del World Trade Center e per altre attività cospirative, gli investigatori pakistani resero noto che Yousef aveva risieduto alla Bayt Ashuhada (Casa dei Martiri) finanziata da bin Laden a Peshawar per la maggior parte dei tre anni precedenti la cattura, di cui si parlerà più avanti (34).
Qualche settimana dopo il provvedimento di re Fahd contro bin Laden, alcuni giornalisti inviati in Medio Oriente, compreso l’autore, ricevettero un fax da Londra in cui si annunciava che Usama bin Laden aveva aperto un ufficio in città. Il fax riportava la sua firma in inglese e in arabo e quella di un uomo indicato come il responsabile dell’ufficio di Londra. Da quel momento in poi bin Laden, che a partire dal 1995 sembra aver evitato persino i viaggi clandestini a Londra, fu associato al Committee for Advice and Reform, un’organizzazione saudita di opposizione con sede a Londra che alla fine degli anni Novanta aveva già pubblicato più di mille pamphlet di critica al governo e alla casa regnante saudita, spesso in termini violenti. Bin Laden non reagì mai pubblicamente alla condanna da parte del fratello maggiore, Bakr bin Ladin, che aveva espresso sulla stampa saudita “il rammarico, la denuncia e la condanna” della famiglia per le attività estremiste del fratello minore (35).
Le peggiori previsioni della famiglia reale saudita in merito all’aiuto di Usama bin Laden agli yemeniti divennero realtà. Fin dal suo arrivo a Khartoum, e forse ancora prima, bin Laden aveva aiutato un amico di lunga data, lo yemenita hadhrami Tariq al-Fadli, a fondare il movimento per la jihad yemenita a Sanaa, la capitale dello Yemen del Nord. Nel giugno-luglio 1994 i combattenti della jihad erano stati schierati nel conflitto contro la leadership socialista dello Yemen del Sud. Cosa che fece prevedere ai governanti sauditi che altri veterani afgani, con l’appoggio di bin Laden, avrebbero combattuto per il governo islamico dello Yemen del Nord, e che questo avrebbe vinto la guerra. Entrambe le previsioni si rivelarono esatte. Le difficoltà per l’Arabia Saudita derivavano dal fatto di sostenere la parte perdente. Per ironia della sorte, come abbiamo visto, le toccava sostenere lo Yemen del Sud in quanto lo considerava il minore dei due mali alla luce dell’evidente desiderio di mantenere i due Stati yemeniti deboli e divisi, e così ridurre la minaccia per la Casa saudita. Con scandalo degli oppositori, compresa l’organizzazione di bin Laden, i sauditi concedevano ripetutamente asilo, strutture mediche e logistiche alle truppe del sud in fuga, le stesse che avevano precedentemente bollato come “comuniste”
(…)


La privatizzazione del terrorismo

A metà degli anni Novanta, gli aiuti finanziari americani ai combattenti della guerra santa in Afganistan erano ormai un lontano ricordo. La bcci non esisteva più. Ma la jihad, che continuava anche dopo il 1989 in Egitto, in Algeria, nelle Filippine, a New York, a Parigi e in altri centri del mondo musulmano e non, era ancora finanziata da Usama bin Laden e da altri personaggi minori che avevano privatizzato il terrorismo internazionale trasformandolo in un’impresa di vaste proporzioni.
Fra i più gravi pericoli derivati da questo processo di privatizzazione c’era il finanziamento della jihad e degli atti di violenza che la seguirono tramite la coltivazione, la lavorazione e il traffico mondiale di stupefacenti. Negli anni Ottanta, un vasto fiume di droga cominciò a fluire dall’Afganistan e dal Pakistan verso l’Europa, l’America e l’Estremo Oriente. Alla fine degli anni Novanta il flusso, soprattutto di oppio, morfina e persino eroina raffinata, per non parlare dei vari tipi di marijuana, aveva raggiunto proporzioni colossali, indebolendo e uccidendo milioni di persone, come la cocaina del Sud America. Il suo impatto si fece sentire nelle città dell’America e dell’Europa come in quelle delle “tigri” economiche dell’Estremo Oriente, fino alle ex-repubbliche sovietiche dell’Asia centrale e alla Russia stessa, devastate dalla povertà. La storia di questa piaga, per molti versi una diretta conseguenza della guerra in Afganistan, che arricchì i mercanti di droga e i loro alleati ma distrusse milioni di vite, è l’argomento del prossimo capitolo.

John K. Cooley

Note

27. Talking with Terror’s Banker, an Exclusive Interview with Osama bin Laden, trascrizione da abc News, 28 maggio 1998, passim.
28. Michael Field, A Hundred Million Dollars A Day, Praeger Publishers, New York, 1976, pp. 186-87.
29. Robert Lacey, The Kingdom, Fontana/Collins, London, 1981, p. 507.
30. US State Department, Issues Factsheet on bin Laden, e comunicazioni private al Cairo, estate 1994.
31. Apparso su “Rose al Youssef” e ripubblicato in forma ridotta su “The Egyptian Gazette”, Il Cairo, 10 ottobre 1993, p. 1.
32. Issues Factsheet on bin Laden, cit., pp. 2-3 e comunicazioni private al Cairo, estate 1994.
33. “New York Times”, 8 aprile 1994, pp. 1 e 3.
34. Issues Factsheet on bin Laden, cit., p. 2.
35. Comunicazioni private, London, luglio 1996.

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John K. Cooley
Una guerra empia
la CIA e l'estremismo islamico

400 pp. / 35.000 lire / 18,10 euro
ISBN 88-85060-42-0

L'autore
John Cooley, giornalista e scrittore, lavora attualmente ad Atene per la ABC News. È stato per oltre 40 anni corrispondente dal Medio Oriente e dall'Africa del Nord. Ha scritto vari libri, tra cui Libyan Sandstorm: Qaddafi's Revolution (1981) e Payback: America's Long War in the Middle East (1991).

L'opera
Per opporsi all'invasione sovietica dell'Afganistan, nel 1979, gli Stati Uniti strinsero una sorprendente alleanza anti-comunista con gli estremisti islamici. Cooley racconta i retroscena di questa alleanza e di come la CIA pianificò la "guerra santa" in Afganistan. Racconta come, con l'aiuto dell'Arabia Saudita, dei servizi segreti militari pakistani e persino con il coinvolgimento della Cina, vennero armati, addestrati e finanziati duecentocinquantamila mercenari islamici di ogni parte del mondo. Inoltre, con un'impressionante mole di prove, Cooley traccia le dirompenti conseguenze di quell'operazione: il trionfo dei Talebani, la diffusione mondiale del terrorismo islamico, la destabilizzazione dell'Algeria e della Cecenia, gli attentati al World Trade Center... E in tutto ciò spicca curiosamente il ruolo di Usama bin Laden, già "protetto" della CIA e ora "nemico pubblico numero uno".