Rileggo l’articolo che
avevo scritto sull’Impasto all’incirca tre anni e mezzo fa (“A”
n. 235, aprile 1997) e mi stupisco in particolare di due riflessioni
che forse non avrei immaginato preludessero così puntualmente
agli sviluppi successivi. Scrivevo della Trilogia del balarino,
operina in tre movimenti per parole, danza e canti, con cui
l’Impasto allora emergente stava conquistando una rapida attenzione
nel panorama del giovane teatro italiano. Parlavo del paradosso
che sembra regolarmente accompagnare ogni battesimo teatrale,
in un sistema che, mentre benedice il nuovo nato di turno, teme
di non poterne controllare, assorbire, armonizzare l’originalità.
E nella vicenda del balarino, che nasce nella felix padania
teatrale per perdere la propria innocenza in Bosnia, leggevo
la metafora del nuovo e coglievo un’indicazione, ossia “la necessità
di essere altrove” e quindi di avviare una sperimentazione a
tutto campo, sul piano artistico come su quello materiale, al
di fuori delle consuetudini organizzative e produttive.
Due anni dopo, la compagnia si definiva Comunità Teatrale
Nomade e alla fine del 2000 raccoglieva un’antologia del proprio
repertorio nell’album teatrale che significativamente
intitolava Padania infelix. Una doppia frattura era ormai
consumata: rispetto alla possibilità di un insediamento
stanziale in un territorio, e rispetto alla generazione teatrale
degli anni Novanta, che troppo sbrigativamente era stata definita
al singolare e solo tatticamente si era data identità
di gruppo, essendo piuttosto costituita da un insieme di prototipi
(come giustamente sono stati definiti in un recente libro):
dotati di spiccate originalità artistiche e refrattari
a riconoscersi come parte di un movimento o di una tradizione.
Nell’intervista che proponiamo Alessandro Berti, drammaturgo,
regista e attore che ha fondato l’Impasto nel 1995 insieme alla
coreografa, attrice e danzatrice Michela Lucenti, parla di questa
svolta, che corrisponde a una “geografia esplosa”, in riferimento
a un progetto che fa della compagnia un’entità territorialmente
mobile e artisticamente fluttuante, in grado di aggregare giovani
attori attorno a spettacoli da riallestire in ogni piazza su
base laboratoriale e in rapporto a una rete di relazioni di
volta in volta attivate. Così sono nati i progetti dal
1999 in poi (descritti nell’intervista), in particolare Critica
lirica, Trionfo anonimo e la stessa Agenda di
Seattle: che prima di essere spettacoli sono stati laboratori
estesi, dai contenuti formativi oltre che produttivi, all’interno
dei quali le relazioni fra i partecipanti sono divenute terreno
di sperimentazione non meno dei contenuti e dei linguaggi, e
il viaggio ha rappresentato una modalità fondamentale
di lavoro e non una contingenza. Il viaggio come luogo di incontri
e come dimensione condivisa, da “mettere in scena” in qualche
modo, come avviene nell’Agenda di Seattle, dove il pubblico,
prima che con lo spettacolo, entra in contatto con i banchetti
delle associazioni di volontariato e intervento sociale che
nei vari luoghi animano l’atrio-piazza del teatro: Emergency,
Lila, Greenpeace, Amnesty International e le varie sigle dell’associazionismo
civile e antagonista (a Milano, nel foyer del CRT, erano presenti
anche le Edizioni “A” ed Elèuthera). E il viaggio come
tratto d’unione fra il nomadismo di esperienze teatrali che
non si sono mai incontrate, in realtà, se non idealmente.
Nell’intervista Alessandro Berti parla dei “numi personali”
che hanno illuminato la “solitudine” del loro viaggio, Julian
Beck e Jerzy Grotowski, innanzitutto, scoperti in autonomia,
rispettivamente da Alessandro e da Michela, avvicinati sui libri
e quindi cercati attraverso gli incontri con Judith Malina e
Hanon Reznikov, da una parte, Thomas Richards e il Workcenter
di Pontedera, dall’altra.
Anche l’Impasto nasce (e forse solo qui è lecito riconoscere
un apparentamento generazionale) dalla tabula rasa degli anni
Novanta, che ha significato desiderio di riscrittura totale
della scena e volontà di ripartire da sé, e quindi
da un insieme di riferimenti personali non solo teatrali. La
scrittura drammaturgica di Alessandro Berti e il linguaggio
fisico e coreografico di Michela Lucenti prendono le mosse,
in questo senso, da una condizione di azzeramento: azzeramento
anche dei tabù che sembravano ormai appartenere al DNA
della ricerca. E mi riferisco in particolare alla centralità
del testo e della comunicazione.
L’Agenda di Seattle è uno spettacolo di forte
ed esplicito contenuto politico, con elementi agitprop e vocazione
– in certi tratti – persino didascalica, eppure non nasce dal
teatro politico né si inserisce in alcuna corrente di
teatro civile. (Il Living Theatre l’hanno scoperto tardivamente
sui libri, come si diceva). Piuttosto, L’Agenda di Seattle
si spiega all’interno dell’impasto sperimentale del gruppo,
basato su invenzioni testuali, vocali e coreografiche, miscelate,
dal 1999 in poi, da un’urgenza irrinunciabile di “credibilità”.
“Azioni e parole credibili”, ossia autentiche e contemporanee,
in primo luogo, come autentica è la necessità
di “lettura militante del presente” e contemporanee sono le
tematiche attraverso le quali il vertice di Seattle ha in qualche
modo definito “l’universo mitico contemporaneo”.
Se il teatro possa farsi carico direttamente di contenuti politici
oppure debba alludervi per stilizzazioni e metafore (pena l’abdicazione
dal proprio statuto artistico); se per mettere in scena le logiche
del potere e gli strumenti della disobbedienza civile sia meglio
farlo per bocca di Antigone, piuttosto che con esempi contemporanei
(a rischio di cadere nella cronaca); se il teatro si debba porre
l’obiettivo di essere politico di per sé, come pratica
sociale ed esperienza di relazione, e non già trattando
contenuti direttamente politici (a rischio di perdere di autonomia
artistica e sfociare nel didascalico)… di tutta questa antica
e mai risolta querelle fra opposte scuole di pensiero,
l’Impasto sembra non essersi preoccupato affatto, perché
non è da tradizioni, correnti, riferimenti che ha preso
le mosse, ma da se stesso, dalla propria storia e dalle proprie
modalità teatrali, ivi compresa la vocazione radicalmente
sperimentale sul piano delle invenzioni linguistiche.
Il risultato è che lo spettacolo è al tempo stesso
una rilettura dell’Antigone e un lavoro di nuova drammaturgia,
è agitprop ed è ricerca inedita sui confini del
teatro. E, come spesso avviene in presenza dell’autenticamente
nuovo – in particolare quando “ricerca” e “popolare” uniscono
le rispettive ragioni sul piano comunicativo – il pubblico ha
risposto con calore, il teatro ha conquistato spettatori non
usuali, molta critica ha storto il naso, le categorie sono saltate
e quanti non hanno più saputo dove collocare l’accadimento
(fra teatro e politica, popolare e ricerca, arte e agitprop)
hanno preferito censurarlo come esperimento “non teatrale”.
Personalmente, ritengo che lo spettacolo porti alle estreme
conseguenze le premesse fondanti dell’Impasto: l’autonomia e
l’approfondimento delle diverse zone di ricerca (scrittura testuale,
linguaggio fisico e coreografico, musica e vocalità)
dove l’attenzione ai temi della contemporaneità è
del tutto risolta, in realtà, all’interno di questi stessi
parametri. Colpa delle nostre orecchie e della nostra monca
(o parcellizzata) sensibilità se gli argomenti che più
ci interessano quotidianamente sono quelli che più ci
urtano a teatro. Alla fine della prima parte dello spettacolo
le tute bianche occupano la scena e chiedono che la vera vita
subentri alla dimensione eroica, che il teatro trovi il coraggio
di parlare della realtà. Il dialogo che tiene tutta la
seconda parte non è affatto “agitazione e propaganda”
improvvisata, ma è costruzione drammaturgica in senso
proprio. Si tratta, semplicemente, di un lungo dialogo fra coetanei
che, proprio in quanto sapiente dal punto di vista teatrale,
sembra “vero” ossia improvvisato.
I temi del dialogo appartengono a una ben precisa quotidianità:
al confronto fra le giovani generazioni impegnate a raccapezzarsi
su quello che dovrebbe essere il loro mondo. E i protagonisti
tragici non sono i re e le regine, e neanche i personaggi della
commedia borghese, e neppure quelli della letteratura contemporanea
(minimalista o cannibale che sia): sono gli abitanti del Nord
e del Sud del mondo, gli animali catturati con le tagliole e
i delfini uccisi dalla pesca, i bovini affetti da encefalopatia
spongiforme e i contadini che praticano l’agricoltura di sussistenza,
i possessori delle materie prime e i detentori dei brevetti…
e infine, proiettati su uno schermo, gli scontri e i pestaggi
in occasione dei raduni no global di Bologna e Napoli. La biografia
dei personaggi si allarga allo sguardo sul mondo, protagonista
di un dialogo che è scambio drammatico di informazioni,
di dati, di rabbia, di desiderio di cambiamento.
Il nuovo esperimento teatrale dell’Impasto restringe lo sguardo
a un quartiere (che è il titolo dello spettacolo)
ma senza rinunciare al mondo. Ritorna ai personaggi, ma caricandoli
dei segni di espressionistiche icone contemporanee. E continua
ad inglobare percorsi laboratoriali ed esplorazioni urbane.
La “necessità di essere altrove” si è fatta strappo
rispetto alla coetanea “terza ondata” teatrale (in particolare
sul piano della comunicazione) e frattura rispetto alle consuetudini
teatrali (in relazione al nesso teatro-politica), ma l’altrove
dell’Impasto è, in realtà, la contemporaneità
del teatro che non rinuncia al presente del proprio gesto e
allo scandalo del rapporto non mediato fra palcoscenico e comunità
civile, o – per dirla con loro – “fra compagnia teatrale e territori”.
Cristina Valenti
L’intervista
C’è stata una virata decisiva, a un
certo punto, nella vita dell’Impasto. Mentre i gruppi della
vostra generazione cercavano un radicamento più stabile
nel territorio, e per molti si apriva il riconoscimento ministeriale,
voi vi definivate nomadi e facevate della non stanzialità
un contenuto importante della vostra ricerca artistica.
Il 1999 è stato un anno di terremoto,
l’anno in cui abbiamo iniziato i tentativi nomadi e una sperimentazione
a tutto campo sul piano professionale. Alla fine del ’98 eravamo
andati via da Bologna con l’idea di non avere più una
sede fissa, di trasformarci in cantiere teatrale mobile, insediandoci
di volta in volta nei luoghi dove dar vita ai nostri progetti.
Da aprile a maggio lavorammo a Pontedera con un contratto che
prevedeva una produzione finale a cura mia, di Michela e di
Annalisa D’Amato. In realtà trasformammo la nostra residenza
produttiva in un cantiere teatrale che chiamammo Critica
lirica, sottotitolo: 21 giornate di lavoro su teatro
e felicità. Avevamo costruito una tenda tuareg sul
fiume e lì lavoravamo, discutevamo. Ci eravamo portati
molti libri sulla comunità: La comunità inoperosa
di Jean-Luc Nancy, La comunità inconfessabile
di Maurice Blanchot… La mattina si faceva lavoro teorico, il
pomeriggio Michela conduceva il lavoro fisico. Poi a un certo
punto abbiamo cominciato a imbastire un’azione teatrale a partire
dalla struttura di una partita di calcio. Dalle azioni fisiche
stilizzate al gioco vero, studiando il momento di passaggio.
C’erano discussioni accese. I conflitti che si creavano all’interno
del gruppo non erano mediati dalla finalità teatrale.
La passione straripava oltre i confini del lavoro teatrale.
Gli ultimi giorni invitammo persone dall’esterno. Judith Malina
venne a parlarci di teatro e comunità, Goffredo Fofi
della stupidità, poi venne Thomas Richards, del Workcenter
di Pontedera, a parlarci del suo lavoro con Grotowski. Sul piano
del risultato scenico fu un fallimento. Alla fine il prodotto
fu una partita di calcio (vera!) che giocammo coi nostri colleghi
attori. Non credo che Roberto Bacci sia stato molto contento.
Era cosciente il senso di dissipare una possibilità
produttiva per cercare qualcosa d’altro?
Assolutamente sì. Volevamo sperimentare delle possibilità
differenti sul piano artistico e sul piano personale. Il cambiamento
delle relazioni personali fra gli attori, in primo luogo. Dopo
Pontedera, abbiamo lavorato a Santarcangelo con Davide Iodice
e un gruppo di 30 attori per Poema delle moltitudini.
Poi è iniziato lo studio di Trionfo anonimo che
è andato avanti per tutto il ’99, con diverse tappe di
lavoro in una geografia totalmente esplosa: Palermo, Buti, Rovereto,
Cursi di Lecce, Arcidosso. In ogni tappa abbiamo presentato
versioni differenti del lavoro, fino al debutto nel gennaio
2000 (al CRT di Milano), con 6 attori “sopravvissuti” dei 50
che avevano preso parte complessivamente al percorso. In questo
senso si è trattato anche di un enorme lavoro formativo,
che ha coinvolto un grande numero di giovani attori.
Il cambiamento del mio modo di scrivere i testi, in relazione
a questo, era stato totale. In Trionfo anonimo lavoravo
sulle biografie reali degli attori. La storia era semplice:
una ragazza di buona famiglia la cui vita viene rivoluzionata
prima dall’apparizione di una rockstar, poi dal matrimonio e
alla fine dall’invasione di una comunità di giovani transfughi
dalle rispettive vite, con cui decide di fuggire via. Dentro
c’era un po’ la storia di ognuno di noi: dal piccolo nucleo
(della famiglia, della compagnia teatrale ristretta) al grande
nucleo della comunità. Io avevo avuto ore di conversazione
con ogni attore, dalle quali era nata la proposta di lavorare
su alcuni episodi (che potevano riguardare il presente come
l’infanzia), e quindi avevo scritto la mia versione del testo,
per ottenere alla fine 5 minuti di racconto personale di ciascun
attore. Nel testo c’era la mia trasfigurazione ritmica e poetica,
ma il nucleo tematico era il loro.
Anche per Michela si trattò di un cambiamento notevole.
Lei era abituata a lavorare negli spettacoli con un attore per
volta, costruendo le coreografie su ciascuno. Ora aveva un gruppo
di dieci, venti persone (addirittura trenta a Santarcangelo),
allora si trattava di trasferire le modalità tipiche
del suo lavoro pedagogico nel lavoro coreografico corale. Un
lavoro sull’affresco più che sul ritratto. Che poi è
un lavoro sulla sostanza del movimento, su uno “stato” fisico
che combatta il rischio di genericità contenuto nella
dimensione allargata.
Ma qual era l’obiettivo ultimo della vostra sperimentazione?
Quale risultato vi proponevate attraverso questi cambiamenti,
sul piano artistico e sul piano delle relazioni all’interno
della compagnia?
L’obiettivo era la credibilità del racconto e dell’azione.
Questo dal punto di vista del linguaggio strettamente teatrale,
in relazione al lavoro rispettivamente mio sui testi e di Michela
sulle coreografie e i movimenti. Su un piano più generale,
di senso, si trattava di partire dalle biografie personali per
portare gli attori da un’altra parte, a condividere una prospettiva
più generale. L’uscita dal biografico stretto, dal personale.
Che poi è il passaggio che da Skankrer porta all’Agenda
di Seattle. L’esplosione dalla compagnia ai territori.
Trionfo anonimo è stato un momento di passaggio
anche nel senso dell’attraversamento di una crisi?
Decisamente sì. Trionfo anonimo ha segnato la
rottura di un equilibrio. C’era un approfondimento troppo esasperato,
troppo autonomo sia del lavoro di Michela sia mio, che corrispondeva
a un accumulo eccezionale di lavoro e quindi alla necessità
di ulteriori investimenti personali. Quell’equilibrio delicato
che teneva insieme il nostro lavoro si era come smarrito…
Vi eravate chiamati Impasto proprio in riferimento al sodalizio
dei vostri diversi apporti artistici, e a questo punto era come
se doveste ricomprendere la possibilità di quell’amalgama?
Non era un problema di identità rispetto ai contenuti
dell’Impasto originario. Si trattava di prendere coscienza di
uno scenario nuovo che si spalancava. L’approfondimento dei
nostri percorsi, inoltre, aveva portato gli attori a “schierarsi”:
chi voleva proseguire il lavoro con me e chi con Michela. La
precisazione delle individualità si era approfondita
fino alla messa in crisi del gruppo. Si era persa la dimensione
di leggerezza dell’impasto. Tutto andava nel senso dello scavo,
della profondità. Ora sappiamo che il ’99 è stato
più un laboratorio di idee che un percorso finalizzato
a uno spettacolo. Quello che ci interessava era studiare i temi
e le possibilità teatrali della comunità, del
viaggio. Per me si è trattato di una svista interessante.
E trovo che sia significativo che molte delle persone che hanno
lavorato con noi in quei mesi abbiano poi trovato dei loro percorsi
individuali.
Che importanza ha avuto per voi il confronto con altri viaggi
teatrali?
E’ stato importante, non certo frustrante, scoprire che altri
prima di noi avevano praticato il nomadismo teatrale, avevano
posto al centro la dimensione del viaggio. Sembrerà strano,
ma Julian Beck l’ho scoperto agli inizi del ’99. C’è
una certa solitudine nel viaggio. Così è capitato
che ognuno di noi, nella fuga, si sia legato al proprio nume.
Per me è stato Julian Beck, per Michela Jerzy Grotowski.
Il fantasma di Julian Beck è stato per me importantissimo.
In particolare le sue pagine del Theandric in cui parla
del respiro. Quest’idea del teatro come polmone, apertura fra
interno ed esterno, illuminazione… Per Michela è stato
particolarmente importante ritrovare Grotowski proprio a Pontedera,
nella ricchezza del confronto diretto col Workcenter, e poi
confrontarsi con il coraggio delle proprie motivazioni in una
situazione di sradicamento.
In che modo L’Agenda di Seattle ha ereditato
il cantiere del ’99, nel senso della sperimentazione di gruppo,
degli approfondimenti individuali, ma anche della crisi?
All’Agenda di Seattle abbiamo cominciato a pensare alla
fine del ’99. Dal lavoro precedente era nato un libro di domande.
All’inizio del 2000 abbiamo avuto una gestione assembleare,
con relative conseguenze di fratture e abbandoni. L’Agenda
ha rappresentato un nuovo equilibrio. Se ci pensi, lo spettacolo
è costruito in tre parti, che in fondo corrispondono
classicamente a tesi, antitesi, sintesi. Lo spettacolo mette
in scena l’anno precedente e il precario equilibrio raggiunto.
La parte teatrale, la rilettura dell’Antigone in versione
Impasto, viene interrotta dalla realtà delle tute bianche
che irrompono in scena. La vita che preme e che impone le sue
ragioni al teatro (come realmente ci è capitato). E’
il momento di rottura, la necessità di infierire sul
manufatto che si è creato, di spezzarlo. La ricerca di
aria, di respiro. Poi, nella terza parte, la possibilità
di armonizzazione: il tentativo di continuare a vivere nel campo
di mais. Nella nuova versione approfondiremo proprio questa
terza parte.
E’ possibile individuare, al di sotto della frattura, anche
il senso di una continuità, o del radicalizzarsi di una
direzione che, in fondo, era già presente nella scrittura
feroce e caustica dei vostri primi spettacoli “padani”?
Fino a Terra di burro i nostri spettacoli mettevano in
scena delle voci isolate che lanciavano invettive anche aspre
sul proprio territorio. Con L’Agenda ci siamo mescolati
al territorio. Noi siamo nati coi teatranti occupanti a Bologna,
nel 1995/96. Recentemente abbiamo riconosciuto e ritrovato le
istanze che ci muovevano quando abbiamo occupato i teatri. Abbiamo
riconosciuto quel tentativo in una vastità di scenario.
Individuare dentro di sé un bisogno e riportarlo all’interno
di un tessuto di movimento, di spazio pubblico (come nell’Agenda
di Seattle) o di quartiere (come nell’ultimo spettacolo).
Cosa cambierà nell’Agenda di Seattle dopo Genova?
Noi siamo stati a Genova il giovedì e il sabato. A posteriori
(capaci tutti!), dico che bisognava annullare le varie azioni
di disobbedienza civile del venerdì. Ci voleva veggenza
e coraggio ma dopo il meraviglioso corteo dei migranti del giovedì
sarebbe stato davvero importante continuare quel discorso, difendere
in primo luogo i contenuti, il piano propositivo. Prima delle
forme diverse di opposizione occorreva garantire la difesa dei
contenuti. E’ chiaro che ora, in una situazione di diritti sospesi,
si pongono al centro i temi legati all’emergenza. Ma questo
non deve significare che si abbandoni il discorso sui contenuti.
E’ quello che vogliono! Nell’Agenda di Seattle alla fine
c’è il barbone che dice “hanno lasciato un buco!” E’
lì che bisogna agire, nelle intercapedini del sistema,
nelle zone non controllate, creando nuove forme. I modi per
teatralizzare il conflitto non sono importanti in sé,
importanti sono i contenuti, i progetti: il boicottaggio, le
banche etiche, le MAG, il commercio equo, la riduzione dei consumi.
Vallo a spiegare a chi ha letto i resoconti di Genova sui giornali,
dove le forme di contestazione hanno completamente oscurato
i contenuti! A Genova dovevamo comprendere che quello spazio
pubblico era finto, era una trappola. D’ora in poi occorrerà
inventare qualcosa di diverso. D’altra parte è evidente
che se lo spazio pubblico non può essere altro che una
trappola questo è un grave lutto, perché l’alternativa
alla piazza non può essere neppure una specie di vendita
casa per casa delle pentole!
Il nostro spettacolo assumerà in pieno il dopo Genova.
Si parlerà di “uno spettacolo che si chiamava L’agenda
di Seattle”. Una sorta di citazione della stagione del candore.
Da intrusione teatrale nello spazio pubblico a “lo spazio pubblico
dopo Genova”. L’urgenza attuale non è più tanto
quella di informare, come facevamo nella seconda parte dello
spettacolo (che sarà perciò asciugata), quanto
di discernere, di lavorare a strumenti più sottili di
comprensione.
Cosa unisce il vostro lavoro di persone di teatro al più
vasto popolo di Seattle?
Credo che la cosa più straordinaria del movimento attuale
siano le ricadute nella vita delle persone e nei territori.
Dopo essere state prosciugate di motivazioni, le vite quotidiane
e le professioni possono ricongiungersi a contenuti più
generali. Questo è interessante anche per me che sono
un attore professionista e che ho fatto la scuola dello Stabile
di Genova. Sono un militante e sono un professionista. Non mi
sento a disagio all’interno del movimento no global, al quale
posso contribuire col contenuto del mio lavoro, in termini professionali.
Le figure dei militanti a tempo pieno, destinati poi a riciclarsi
nei ruoli di potere della politica o dell’impresa appartengono
a un’altra epoca, devono appartenere a un’altra epoca.
Per questo nel nostro spettacolo cambierà soprattutto
la seconda parte. Sarà più reale, meno teatralizzata,
sarà una riflessione sulle responsabilità di una
cittadinanza attiva. Occorre alternare ai momenti pubblici tutta
un’attività più nascosta e sotterranea, che corrisponde
alle possibilità più concrete di ricaduta dei
contenuti antiglobal. Questa può essere la vera rivoluzione;
una risposta attiva alle contraddizioni della globalizzazione
può essere la moltiplicazione dei social forum.
Il vostro prossimo spettacolo si intitola Il quartiere.
Sì, col Quartiere ripartiamo dal microcosmo che
in qualche modo mima e ripropone gli stessi problemi. Oggi tutti
hanno computer e TV, tutti siamo globalizzati. I quartieri sono
quartieri mondo, luoghi crogiuolo delle contraddizioni contemporanee.
Nel nostro spettacolo ci sono 13 personaggi fra i 30 e i 40
anni. Un giudice, un poliziotto, un imprenditore, un militante
di estrema destra, una prostituta, due operai, un sacerdote…
persone molto integrate, molto persuase. Quello che emerge è
l’estrema violenza di relazioni basate sul potere. E’ un lavoro
sul potere e sull’uso che se ne fa. Il poliziotto usa il potere
per avere un rapporto sessuale con la prostituta, il giudice
per decidere quali inchieste mandare avanti e quali insabbiare,
l’imprenditore per tenere sottomessi gli operai (una egiziana
e un italiano)… Le relazioni sono sempre mediate da una struttura
di ruoli molto forte. Succedono cose atroci, anche di una violenza
inaudita, ma la superficie è pur sempre rappresentata
dalla messa di quartiere la domenica, dal karaoke il sabato
sera… C’è un’Italietta che non si accorge delle periferie
che ha, e che si è risvegliata incredula di fronte alle
bande teppistiche metropolitane che si sono rese visibili anche
a Genova. Preparando l’Agenda di Seattle, ci siamo accorti
del baratro che separava il piano di persuasione dei manifesti
elettorali e il piano degli incontri che facevamo nelle città.
Due mondi completamente diversi. L’idea è stata quella
di fare uno spettacolo su quel mondo, su chi non ci sta capendo
niente, sui nostri concittadini sordi e ciechi, che non si sono
accorti che Berlusconi ha fatto una campagna elettorale stile
’48, inscenando uno scontro politico da dopoguerra, ha fatto
un teatro su questa persuasione, come se solo lui rappresentasse
un sistema di valori, una visione del mondo, cui le persone
hanno creduto… e intanto eleggevano Bill Gates: un imprenditore
che controlla i nostri consumi! Ci sono due mondi che non comunicano.
E che per chi ci comanda è importante che non comunichino
mai. Il quartiere nasce da un lavoro coi ragazzini dei
quartieri. Molto giovani. La scelta deriva da un partito preso:
che loro dovranno essere meglio di noi. C’è una drammaturgia
fissa, atroce, disillusa, anche un po’ volgare, spocchiosa,
televisiva, presuntuosa. Poi c’è il lavoro coi ragazzi
che è di speranza. Il movimento ha increspato le acque
rispetto alla pace sociale. I ragazzini rappresentano la forza
che erediterà il conflitto dopo di noi. Le scene dello
spettacolo si svolgono tutte in interni asfittici: il palazzo
di giustizia, la chiesa, il discobar… I ragazzini portano dentro
le strade, lo spazio pubblico riconquistato, senza manganelli
né lacrimogeni.
Cristina Valenti
|