rivista anarchica
anno 31 n. 276
novembre 2001


Alimentazione

Le strategie della fame
a cura di Adriano Paolella e Zelinda Carloni

Globalizzazione.
Idee per capire, vivere e opporsi al nuovo modello di profitto.

La ricerca dell’autosufficienza alimentare delle comunità è stata fino ad un passato molto recente uno dei caratteri distintivi della specie umana. Tale ricerca ha, tra l’altro, comportato una grande diversità nelle abitudini alimentari in quanto condizionate dai luoghi, dalla disponibilità di risorse, dalla cultura locale. Ma queste differenze hanno anche prodotto la ricerca costante di specie da coltivare o da allevare che usufruissero al meglio delle condizioni ambientali senza alterarne i caratteri. C’è stata, insomma, nel tempo una selezione delle varietà e delle specie da parte degli uomini al fine di ottenere la massima efficacia del lavoro per la produzione del cibo nella specificità delle condizioni ambientali e sociali. La diversificazione delle colture, per ciò che riguarda l’agricoltura, ha sempre rappresentato un formidabile meccanismo regolatore ed equilibratore delle relazioni tra uomo e ambiente, e ancora oggi risulta essere una sorta di “patrimonio dell’umanità” irrinunciabile.
Recentemente si sta assistendo ad un fenomeno di omologazione degli alimenti attraverso la crescente diffusione di merci, uniformate e controllate da un numero di produttori e distributori molto ridotto.
Questo fenomeno è sostenuto dalla predisposizione di prodotti connotati sulla capacità di attrazione del consumatore, di campagne di pubblicità di sostegno, che rimandano ad una immagine di “modello di vita” accattivante ma anche, e forse principalmente, dalla riduzione della capacità delle società locali di produrre i propri alimenti.
I principali caratteri di questi cibi sono i costi di produzione ridotti, che garantiscono consistenti margini di vendita, e i prezzi non elevati, che rendono possibile l’estensione del mercato.
Per ottenere costi bassi si ricorre a processi produttivi altamente industrializzati ed alla trasformazione delle qualità degli alimenti stessi sia per permetterne la conservazione, sia per risparmiare nei costi di produzione.
Il risultato è una miscellanea di sostanze incongrue con cui artificiosamente si costruisce la forma desiderata.
Avendo questi processi necessità di grandi quantità di materie prime a basso costo, di fatto si pongono come maggiore domanda di prodotti agricoli e di questi influenzano i caratteri. L’agricoltura si industrializza per rispondere alle esigenze dell’industria agroalimentare e così facendo viene asservita al mercato delle merci ed al suo andamento, tagliando il legame con la comunità produttiva e agganciandosi ad una domanda di cui non regola né volontà, né richiesta.
Attraverso questo sistema interi ambiti geografici, di estensione a volte sovranazionale, hanno perduto la loro autonomia alimentare e sono divenuti dipendenti da un mercato controllato da aziende e da interessi lontani e conflittuali con il benessere delle comunità.
Il mercato alimentare è sicuramente quello che comporta più rischi sociali e ambientali. All’alimentazione sono collegate le ricerche sulle modificazioni genetiche, il brevetto della natura, il controllo sociale e tecnico delle comunità e attraverso l’alimentazione si controlla politicamente il pianeta, si costruisce il debito pubblico, si creano i poveri e i ricchi, si crea il mercato del lavoro e degli individui; in sintesi si opera l’asservimento culturale, produttivo e sociale.
Nel 1974, alla World Food Conference (Conferenza Mondiale dell’Alimentazione), tenuta a Roma, il Segretario di Stato Statunitense Henry Kissinger dichiarò: “dal 1984 nessuno, uomo, donna o bambino andrà a letto affamato”.
Nel 2001 un miliardo e cento milioni di abitanti del pianeta, su sei miliardi, è affamato o denutrito.
Nel 1996, in occasione della medesima conferenza, i delegati di 186 paesi adottarono l’obiettivo di ridurre a metà il numero degli affamati. Già nel 1999 le proiezioni FAO evidenziarono che l’obiettivo non potrà essere raggiunto in quanto il processo avviato è troppo lento e i progressi troppo disomogenei.
Certamente questi obiettivi, nella forma in cui sono stati dichiarati, denotano molta demagogia e la mancanza di azioni realmente perseguibili, che accompagna solitamente queste dichiarazioni, avvalora la tesi che la fame nel mondo non sia solo una condizione non transitoria (come dichiarato dalla FAO) ma l’esito di una precisa politica, anche alimentare, finalizzata al controllo di aree geografiche, di popolazioni e allo sfruttamento incondizionato delle risorse.
Basandosi sull’emergenza cibo, motivata dall’esponenziale crescita demografica, da più parti si è individuato nella produttività industrializzata e quantitativa la panacea di tutti i problemi. E sull’onda della necessità si è imposto un modello che, oltre ad essere produttivo, è anche sociale.
Al di là dell’opportunità di una riduzione significativa della crescita della popolazione, il problema alimentare è principalmente distributivo (una maggiore equità) e sociale (una maggiore autonomia).
Invece la soluzione approntata è derivata dalla volontà di massimo profitto (elevata produttività, concentrazione della produzione, ampliamento del mercato) che si combina con l’interesse al controllo politico delle risorse; il compatimento dei poveri e degli affamati è una grande mistificazione, specie se espresso da chi non vuole intervenire sui meccanismi e gli interessi di chi alimenta la strategia della fame.

Chi fa il cibo e chi lo mangia

Nonostante circa il 70% della popolazione globale si guadagni da vivere con la produzione di cibo, nei paesi industrializzati, che sono i maggiori consumatori di cibo per unità di popolazione ed in assoluto i maggiori produttori di merci nel settore agroalimentare, gli addetti all’agricoltura sono solo il 2% della popolazione.
Da un lato dunque i produttori delle materie prime, in parte ancora con le coltivazioni dirette, e dall’altro i grandi trasformatori: i produttori delle merci.
Oggi 10 multinazionali controllano il 32% del mercato mondiale dei semi (23 mld di dollari), il 100% del mercato globale dei semi geneticamente modificati, dell’agrochimica e dei pesticidi e cinque società gestiscono il mercato mondiale dei cereali.
La percentuale di bambini malnutriti in India è del 53%, in Bangladesh del 56%, in Pakistan del 38%, in Africa è salita dal 26% del 1980 al 28% attuale. Secondo una stima della Banca Mondiale il 72% del miliardo e trecento milioni dei poveri, che corrisponde per la quasi integrità ai malnutriti, vive in aree rurali.
Sebbene parecchie di queste aree siano costituite da terreni aridi o semiaridi e che in esse il numero degli insediati è solitamente eccessivo, la constatazione che la maggior parte degli affamati si trovi nei luoghi dove è presente la possibilità di accedere direttamente alla risorsa alimentare, rappresentata dai terreni coltivabili, è quantomeno stupefacente. La spiegazione di questo dato è nella quantità delle esportazioni di alimenti che questi paesi fanno: ad esempio in Brasile il 23% dei terreni coltivabili è utilizzato per la produzione della soia, metà della quale è destinata all’esportazione, in Honduras (80% di foresta pluviale tagliata) il 60% dei terreni è per il pascolo ed il 30% della carne è esportata negli Usa, in Nicaragua (30 % di foresta tagliata nell’ultimo decennio) negli ultimi venti anni la produzione della carne è triplicata e l’esportazione quintuplicata.
Alcune aree dei paesi più poveri sono le stesse in cui viene prodotto il cibo per la parte ricca della popolazione del pianeta: gli statunitensi sono il 5% della popolazione mondiale e consumano il 23% della carne bovina prodotta nel mondo ed una notevole superficie di altri paesi è asservita alla soddisfazione di questa richiesta.
La ragione di questi asservimenti si riscontra nella possibilità di avere costi di produzione più bassi: un bovino libero al pascolo consuma 499 kg di foraggio al mese; se vi è la possibilità di avere quasi gratuitamente la disponibilità di pascoli, si annullano i costi di alimentazione degli animali.
Nel sud e centro America questa disponibilità di pascolo è ottenuta grazie ai latifondi (in Brasile il 4% dei proprietari terrieri possiede l’80% delle superfici disponibili), o ai minimi costi per le concessioni di suoli pubblici, i cui terreni per gran parte sono ottenuti dal taglio delle foreste pluviali.
Nel dopoguerra i governi di quei paesi cominciarono a convertire milioni di ettari di foreste pluviali in pascolo per produrre bovini da esportazione e gli organismi internazionali sostennero questo politica: solo tra il 1971 e il 1977 fornirono 3,5 mld di dollari per promuovere in quei paesi l’allevamento bovino.
Una situazione, questa, che palesa i meccanismi di espoliazione sociale e ambientale, a danno della popolazione insediata ed a favore di soggetti esterni, ancora oggi praticati, ad esempio, dal governo brasiliano che, recentemente, ha predisposto incentivi fiscali per incoraggiare investimenti nazionali ed esteri in Amazzonia.
Come in centro e sud America così in tutto il mondo. Vandana Shiva denuncia: “l’agricoltura indiana è un obiettivo prioritario delle multinazionali perché il 75% della popolazione indiana trae la propria sussistenza dall’agricoltura e poiché nel mondo un agricoltore ogni quattro è indiano”. Il tentativo è quello di trasformare queste popolazioni da soggetti a basso consumo, capaci di autoproduzione, a consumatori di semi, di concimi, di brevetti predisposti, prodotti e distribuiti dalle multinazionali. Essi, seppur poveri, per il loro numero elevato rappresentano una enorme potenzialità di mercato e, contemporaneamente, il loro assoggettamento alle logiche del mercato internazionale delle merci e dei prodotti preconfezionati li renderebbe socialmente succubi di un sistema da cui fino ad oggi, nonostante ne subiscano i catastrofici effetti, sono stati tenuti fuori.
Per facilitare questo tipo di azione si definiscono accordi internazionali in cui si permette la razzia di risorse e si abbattono le difese delle economie locali nei confronti dei prodotti di importazione. A seguito del Nafta (trattato di libero scambio tra Usa, Canada e Messico) il Messico ha aumentato le importazioni alimentari dal 29% del 1992, al 43% del 1996. In 18 mesi di Nafta 2,2 ml di messicani hanno perso il lavoro e 40 ml sono divenuti poverissimi.
Questo è ciò che comporta il “mangiare a buon mercato”, slogan delle multinazionali dell’alimentazione e dell’agricoltura industrializzata: vuol dire creare un mercato dove prima non c’era, vuol dire dividere la popolazione in una parte che ne può usufruire e una parte che ne è esclusa.
I mercati locali sono deliberatamente distrutti per costruire il monopolio dell’agricoltura e dell’alimentazione, forzando gli individui e le comunità ad aderire al mercato globale; cosicché gli agricoltori sono stati derubati della libertà di scegliere che cosa produrre, i consumatori della libertà di scegliere cosa mangiare.
Si sta perdendo l’autonomia alimentare delle comunità: chi produce il cibo non mangia e, come è stato detto per il Messico, “mangiare a buon mercato grazie alle importazioni per i poveri vuol dire non mangiare affatto”.

 

Che cosa mangiamo

L’alimentazione mondiale si sta fortemente omogeneizzando su alcuni tipi di prodotto. In questo tendere alla omologazione si stanno privilegiando alimenti che, a parità o a minore capacità nutritiva, per la loro predisposizione necessitano di un maggiore impegno di risorse.
Il tipo di cibo che viene consumato determina delle precise condizioni ambientali e sociali sia nei luoghi di produzione che di consumo, e la scelta di alimenti energivori comporta un peggioramento delle condizioni complessive ambientali e sociali del pianeta.
Un abitante dell’Asia mediamente consuma tra i 130 e i 180 kg di cereali l’anno, mentre uno statunitense medio circa 1.000 kg/a, di cui 80% non direttamente ma attraverso il consumo di carni; il primo consuma 56 gr di proteine al giorno, di cui 8 gr di origine animale, il secondo 102 gr di proteine al giorno (quantità molto superiore a quelle indicate come ottimali dalla FAO) di cui 70% di provenienza animale.
Per produrre 1 kg di carne si usano 12 kg di cereali e 1000 litri d’acqua, un grande impegno di risorse per ottenere meno di 50 kg di proteine animali consumando 790 kg di proteine vegetali. Se ad esempio al mondo tutti fossero vegetariani (come lo sono forzatamente centinaia di milioni di abitanti del terzo mondo) la fame sarebbe sconfitta; se ad esempio si dimezzassero i 600 milioni di tonnellate di cereali impegnati per l’allevamento bovino, con l’altra metà si potrebbero nutrire quasi un miliardo di persone.
Ma non è solo un problema relativo al tipo di alimentazione, ma anche a quello della qualità degli alimenti, ed in questo il caso della carne bovina è esemplificativo. Per programmare la nascita dei vitelli in ragione delle richieste del mercato, alle fattrici vengono iniettati farmaci per far giungere l’estro nel periodo desiderato e sincronicamente a tutta la mandria. I vitelli appena nati vengono castrati, e, dopo poco, tolti alle madri e posti in box di misure ridottissime. Agli animali vengono estirpate le corna (per non ferirsi). Gli vengono somministrati diffusamente steroidi anabolizzanti, per aumentare il livello di ormoni, che garantiscono una maggiore capacità di sintetizzare proteine e fare crescere i tessuti muscolari e l’adipe (dal 5% al 20% in più di peso), ed estradiolo, testosterone, progesterone. Nel 1988, negli Usa, al bestiame di allevamento sono state somministrate circa 6800 tonnellate di antibiotici per evitare il diffondersi di epidemie negli spazi ristretti e sovraffollati delle stalle; questa pratica lascia residui nella carne macellata, residui che vengono ingeriti dall’uomo e comportano assuefazione agli antibiotici. Il mangime degli animali è pieno di erbicidi e pesticidi (tale contaminazione costituisce l’11% del rischio totale di cancro per cause alimentari). Ai mangimi tradizionali vengono aggiunti altri materiali: alcuni allevamenti addizionano sterco degli allevamenti di pollame, altri rifiuti industriali o olii esausti, altri sperimentano cartone, carta da giornali, cemento, il tutto per ingrassare le bestie più rapidamente e ridurre i costi. Nella Kansas State University hanno condotto sperimentazioni di un mangime plastico sostitutivo della fibra vegetale: pallini di etilene e propilene che dopo la macellazione possono essere recuperate dall’abomaso delle bestie, fuse e riciclate. Per permettere un livello di igiene all’interno degli allevamenti intensivi che eviti epidemie, le stalle, e frequentemente le aree intorno ad esse, vengono irrorate di insetticidi altamente tossici. Al peso ideale, che cambia a secondo le razze, e nel minor tempo possibile, l’animale viene macellato e smontato industrialmente.

Contenente

Gli alimenti sono trasformati per permetterne una migliore commercializzazione ed un maggiore profitto. Senza andare in quegli ambiti che afferiscono alla mistificazione dei cibi, alla frode alimentare, quali i casi del pollo alla diossina o della mucca pazza, di seguito stiliamo un breve e incompleto elenco sulle sostanze presenti in alcuni cibi che fornisce un’idea esemplificativa di cosa ci sia all’interno delle confezioni alimentari. Nella carne si trovano residui dei pesticidi utilizzati nelle coltivazione dei foraggi e residui di farmaci (estrogeni, androgeni, progestinici e beta-antagonisti) utilizzati per fare crescere in fretta la massa muscolare; negli insaccati e nella carne in scatola, oltre ai predetti, vi sono conservanti (nitriti, nitrati e fosfati), tutte sostanze cancerogene. Le banane raccolte acerbe e maturate a forza in ambienti chiusi riscaldati, saturi di etilene, prima della spedizione sono immerse in vasche con antiparassitari, come il tiobendazolo che, avendo una persistenza di 18-20 giorni, unito ai residui dei trattamenti agricoli e assimilato dalla pianta può essere ingerito. Nella fabbricazione di gelati industriali si usa uno spettro di ingredienti molto vasto e non sempre composto di elementi innocui, quali emulsionanti, stabilizzanti e coloranti. In una vasta tipologia di alimenti è presente il glutammato di sodio, un esaltatore di sapidità che se ingerito in dosi eccessive (e la presenza diffusa contribuisce a questo) può scatenare la “sindrome da ristorante cinese”, mal di testa, vampate e problemi circolatori; la sua pericolosità aumenta per i bambini (negli Stati Uniti è proibito per gli alimenti dell’infanzia). Gli oli raffinati subiscono processi che includono la compressione ad alta temperatura e l’uso di solventi a base di petrolio; per la loro decolorazione spesso si usa soda caustica e candeggina; oltre alla perdita di vitamine, enzimi ed elementi nutritivi la permanenza di queste sostanze è nociva. Le margarine sono derivate essenzialmente da grassi vegetali ricavati dall’olio di palma e di cocco e subiscono trattamenti lunghi e complessi: candeggiati, decolorati, idrogenati, dearomatizzati etc., con manipolazioni anche strutturali. L’orzo e i cereali sono quasi sempre provenienti da coltivazioni intensive in cui si fa largo uso di fertilizzanti, pesticidi, diserbanti.

 

I cibi transgenici

Attualmente sono decine le specie transgeniche coltivate in milioni gli ettari. Ma per quali cibi vengano utilizzate non è dato sapere.

La concessione di brevetti che coprono tutte le varietà geneticamente modificate di una specie lascia nelle mani di un solo inventore la possibilità di controllare quel che si produce nelle aziende agricole e negli orti. Con un tratto di penna è possibile azzerare la ricerca e il lavoro di un numero infinito di produttori che hanno operato nel tempo. Il sequestro economico viene così legalizzato.

A parte la verifica degli effetti sulla salute dell’uomo, per i quali occorre almeno una generazione per manifestarsi, la diffusione su vasta scala di prodotti transgenici produce effetti micidiali riscontrabili su: equilibrio ecologico, sottoposto ad una condizione non prevedibile negli effetti relativamente all’inserimento di mutazioni artificiali mai sperimentate prima; biodiversità, che è stato fino ad ora elemento fondamentale di difesa e di salvaguardia dell’uomo e dell’ambiente, ora esposta alla omologazione delle varietà genetiche; catena alimentare, all’interno della quale verrebbero a penetrare geni mutati che possono compromettere l’intera struttura della catena, salute animale e umana, relativamente alla quale sono già noti gli effetti di reazioni allergiche imprevedibili, nonché la debolezza degli animali transgenici, soggetti a malattie e deformità anche mortali; ordine economico mondiale, le sementi transgeniche sono di proprietà delle industrie produttrici, e quindi i contadini debbono pagare loro i diritti relativi. I semi, anche quando non sono sterili come avviene in alcuni casi, non possono essere conservati e ripiantati, il rischio sono multe insostenibili per gli agricoltori. E’ evidente che questo proietta i contadini in una condizione di completa sudditanza al mercato imposto dai paesi industrializzati, vedendo diminuire ulteriormente la loro autonomia produttiva mentre le grandi industrie accrescono i loro profitti.

 

Chi fa il cibo e chi lo mangia

Non solo una questione di gusto

I prodotti alimentari sono sempre maggiormente connessi ad una immagine; la loro forma, le modalità di consumo, la tipologia del consumatore, il mondo ideale in cui vengono consumati. Per cui le merende mattutine possono richiamare la serenità dell’inizio della mattinata di una famiglia o l’immagine del single che si ristora prima di applicare la sua efficienza; nelle forme pubblicitarie la città più moderna o la campagna più tradizionale sono tutte immagini di laboratorio, ricostruzioni idilliache per evocare il contesto in cui la merce si consuma. Questi contesti stimolano l’acquisizione.I prodotti alimentari sono anche connessi ad una oggettistica: pupazzi, regali, vincite che non sono strettamente collegati con l’alimento ma che divengono richiamo per l’acquisto, stimolano l’interesse ad ottenere, attraverso il consumo di quell’alimento, qualche altra cosa.
Il cibo è come una mela stregata: mordendola si ottiene un mondo diverso o un modo di vedere le cose diversamente.

Il gusto indotto

Una volta acquisito il cibo industrializzato garantisce un sapore. Il sapore può essere il sapore del nulla, che caratterizza i cibi dietetici e Light, o il sapore fantastico, di cui si fanno gelati frizzanti, o sapori forti caratterizzati come le patatine al pollo.
Ma sono sapori senza sapore, tutti ottenuti chimicamente con inclusione di sostanze che eccitano il palato, non derivanti dalle modalità, dalle tecniche, dalla specificità del prodotto ma solo dall’aggiunta di polverine.
Una quantità di prodotti differenti che si mostra uniforme e vuota, finalizzata a creare dipendenza da quel tipo di prodotto nello stesso modo praticato per le sigarette.

Il mangiare inutile

Per millenni tutte le attività connesse con l’alimentazione hanno interessato gran parte della vita delle persone. Oggi i tempi di produzione e consumo incidono minimamente sul tempo degli individui e oltre ad essere marginali sono considerati un intralcio alla svolgimento delle attività. Si mangiano cibi precotti per risparmiare il tempo della preparazione. Ma l’azione del mangiare si è estesa temporalmente: si mangia al di là dei pasti, al di là delle necessità, per consumare, per passare il tempo in attesa di mangiare: si mangia inutilmente perché invogliati, martellati sul tema con prodotti sempre più accorti a stimolare.
In Italia in media ogni cittadino ha bevuto, nel 1997, 133 litri di acqua minerale (8 mld di litri, 8 ml di tonnellate, 800.000 TIR da 10 t sulle strade) mantenendo 179 aziende, 249 etichette, per un fatturato di 4.000 Mld di lire, poche migliaia di addetti: uno spreco di energia enorme, un prelievo e una privatizzazione di un bene comune inalienabile come lo è l’acqua.

L’ignoranza

Il consumatore ignora i processi produttivi, i contenuti dei prodotti, chi li ha fatti. Ogni confezione è una lettura per cercare di capire, attraverso le scarse e microscopiche informazioni scritte sulle confezioni, chi, come, dove, quando, che cosa.

Mangiare come

Fuori casa. Negli USA vi sono più di 583.000 punti di ristorazione che servono ogni giorno 100 milioni di pasti. Il 42% della popolazione statunitense mangia fuori casa almeno 1 volta al giorno. L’industria della ristorazione ha un fatturato di 297 mld di dollari annui e ha 8 ml di addetti (in termini occupazionali il più importante settore del paese).

Mangiare dove

Nei fast food statunitensi vengono venduti ogni anno 6,7 mld di hamburger ma a Tokyo sono stati venduti hamburger McDonald’s in quantità maggiore che a New York.
Si intravede una diffidenza verso la fantasia del cuoco (non c’è il coraggio di abbandonarsi alla capacità degli altri, non si riconosce loro la capacità) e la ricerca di una garanzia da manuale (la necessità di esigere esattamente le garanzie industriali: pulito, preciso, uguale).

 

Perché no al sistema McDonald’s (ma anche agli altri simili)

· produzione industrializzata del cibo
· controlli di qualità igienica ma non della qualità com plessiva del prodotto
· disinteresse verso le modalità produttive (conservazione dell’ambiente e della comunità)
· enormi costi energetici per la mobilità delle merci (le merci vengono da lontano su Tir), per la gestione
delle strutture distributive (aria condizionata, illuminazione ecc.), per i materiali (piatti, bicchieri, posate di carta etc.)
· uniformazione dell’alimentazione mondiale
· connessione del cibo ai giochi (per i ragazzini)
· sistemi di smercio educati ma alienati (tempi di vendita e di confezionamento già programmati)
· promozione di una modalità di alimentazione non salubre (salse, sapori forti, errato rapporto tra grassi e carboidrati)
· pianificazione produttiva dell’alimentazione (tempi di consumo programmati)
· sostituzione delle forme di alimentazione locale, sostenuta dalla pubblicità
· promozione di una modalità di consumo non connessa alla cultura locale
· pratica di un modello di alimentarsi che vuole essere un modello sociale
· uso di alimenti transgenici
· uso di alimenti di cui il fruitore non conosce l’origine (È il marchio del distributore che garantisce la qualità del processo)

L’hamburger base McDonald’s pesa 45,36 gr, ha un diametro di 9,68 cm, il panino ha un diametro di 8.89 cm, la cipolla pesa 7 gr. In tutto il mondo. In tutte le ore. Tutti i giorni.

 

Qualità del prodotto

Il tipo di alimentazione sostenuto dal modello globale sembra garantire la qualità delle merci. In realtà ne garantisce solo l’igiene e la rispondenza ad un teorico prodotto precedentemente definito (caratteristiche tecnico-funzionali), assumendo queste come uniche significative variabili atte a definire la qualità complessiva di un prodotto commercializzato (tutte le altre rientrano in procedure volontarie e poco diffuse, quali i marchi, le certificazioni, etc).
Da ciò scaturisce un tipo di alimentazione che, se da una parte riduce l’incidenza di alterazione delle merci in fase di fabbricazione e distribuzione, dall’altra non garantisce la salubrità della merce stessa (è velenosa ma disinfettata), e così l’alimentazione contemporanea uccide più di quanto non facessero i metodi e i prodotti tradizionali, ma lo fa legalmente. Uccide in maniera più adeguata a quelle che sono le richieste di garanzia delle grandi produzioni: più lentamente, per accumulo, in modo che difficilmente si possa risalire al responsabile, perché, in realtà, ad essere colpevole è l’intero sistema alimentare così inteso.
La qualità voluta corrisponde alle richieste di industrializzazione dei processi produttivi a scapito delle produzioni locali e tradizionali. Così non si possono immettere sul mercato salami essiccati in cantina, cetrioli ricurvi, mozzarelle non in busta, etc. Per mantenere l’esistenza di prodotti quali il lardo di Colonnata, la caciotta di Fossa, il gelato artigianale e molte altre varietà di cibi, in sede di Comunità Europea si sono sostenute battaglie: se si fossero dovuti adeguare alle norme di qualità del prodotto per essi non vi sarebbe stato più spazio.
Se a questo si aggiungono le ripercussioni derivanti dalle distorsioni del sistema produttivo, il limite imposto alla cultura alimentare locale è ancora più evidente. E’ il caso delle restrizioni alla vendita di interiora dei bovini imposto a seguito della mucca pazza, limitazione che ha destrutturato, per esempio, la cucina tipica romana fondata per gran parte sull’uso delle “frattaglie” (pajata, coratella, budello, fegatelli, etc.).
Attraverso questi sistemi si danno garanzie alle grandi industrie, aumentando le difficoltà dei piccoli e medi produttori che non riescono a ricondurre le proprie modalità lavorative alle regolamentazioni (solitamente non rispondono alle richieste di asetticità e alle procedure di controllo di qualità del prodotto). Così si eliminano dal mercato i piccoli produttori e migliaia di prodotti diversi, strettamente connessi ai luoghi, alle abitudini, all’ambiente e alle comunità, e si allarga il mercato dei cibi uniformi e industrializzati.

Due “piccoli favori”

La normativa di qualità definita dalla legge europea del marzo del 2000 autorizza le industrie a produrre cioccolato con l’aggiunta del 5% di “materia grassa vegetale”. Questa condizione ha permesso di ridurre la quantità di cacao presente nel cioccolato e di sostituirla con additivi vegetali vari. E’ evidente che tutto questo si ripercuoterà sulle esportazioni di cacao dai paesi del terzo mondo, oltre che sulla qualità del cioccolato, ma permetterà alle industrie europee di “risparmiare” circa 200 milioni di dollari in acquisto di cacao.
Nonostante siano state predisposte norme europee e nazionali che obbligano le industrie alimentari a dichiarare sulle confezioni l’uso di OGM (organismi geneticamente modificati), dato che esse hanno verificato un’ostilità da parte degli acquirenti nei confronti di questi prodotti, molte normative sono state sospese e comunque nessun paese attua le verifiche del caso.

 

La qualità permette un po' di diossina nel pollo

Nel 1999 furono trovate in alcuni polli, provenienti da allevamenti intensivi belgi, quantità di diossina superiori a quelle consentite. La diossina è una sostanza fortemente cancerogena anche in misure limitatissime.
Al di là della vicenda e dei modi con cui gli operatori, pur consapevoli del rischio, immisero ugualmente sul mercato le carni che sapevano contaminate e di come le amministrazioni pubbliche e i garanti della qualità tentarono in Belgio e in Olanda di minimizzare e non perseguire le aziende interessate, è utile comprendere perché vi era diossina presente nelle carni del pollame.
All’interno delle farine per animali sono inserite materie grasse al fine di accelerare, con il loro contributo di proteine, la crescita degli animali. Nel caso dei polli queste sostanze permettono di guadagnare una quindicina di giorni sull’allevamento, rendendo possibile, a parità di peso, l’abbattimento dopo sei settimane invece di otto. Il sapore e la qualità delle carni peggiora ma il profitto aumenta significativamente.
Vi sono aziende specializzate che raccolgono e producono grassi che poi vendono ai produttori di alimenti per animali. Nel caso dei “polli alla diossina” era la Verkest, azienda che ha coperto un ruolo fondamentale nella produzione intensiva dei polli di tutti i Paesi Bassi e non solo, e nota per pratiche produttive vergognose.
L’operato della Verkest era finalizzato a ridurre i costi del prodotto finale e ad aumentare il rendimento della farina. Nel fare questo integrava i grassi animali prelevati ai macelli con additivi di diversa natura, ad esempio con grassi vegetali provenienti da oli di frittura. Questi possono contenere diossina in quanto bruciano a temperature tali per cui in essi si sviluppa, e sono vietati dalle norme. Tant’è che l’azienda comunque vendeva un prodotto garantito di esclusiva origine animale. L’aumento dei prezzi dei grassi animali spinse nel tempo ad aumentare la presenza tanto di oli di frittura quanto di altre sostanze, ed in particolare in una partita di grassi e farine si aggiunsero 2.200 litri di oli derivati da perdite dei macchinari, oli già da tempo proibiti perché contenevano diossina e piralee. L’insieme di questi comportamenti fece sì che la presenza di diossina divenne superiore alle quantità consentite: un percorso tortuoso, sebbene noto ad un gran numero di operatori del settore che usano pratiche consimili, abbondantemente indirizzato dalla grande tolleranza che si ha nei confronti di sostanze estranee e spesso nocive consentite per l’alimentazione animale.

 

Mangiare normalmente

Nei paesi industrializzati, chi mangia “normalmente” introduce ogni anno nel suo organismo più di 12 chilogrammi di additivi chimici e conservanti.
Solo pochi di questi sono stati studiati attentamente relativamente ai loro effetti sulla salute. Su 72.000 sostanze chimiche circolanti solo 3.000 hanno alla base studi a questo riguardo, e spesso questi studi sono stati verificati solo sugli animali.

 

La biunivoca risposta dei consumatori

Le risposte date dai consumatori del nord del mondo a questo mercato non sono omogenee. Dalla diffusione di tale tipo di mercato sembrerebbe che siano incapaci di interpretare i processi in corso: acquistano secondo le indicazioni della pubblicità, non riescono a vedere cosa c’è dietro le merci comprate, né si interessano della qualità alimentare delle stesse, e quando ne hanno possibilità economica seguono entusiasticamente passo passo le indicazioni di acquisto al di là della reale utilità.
Le informazioni derivate dalle indagini sociali mostrano una popolazione divisa tra un atteggiamento di grande disinteresse e una capacità di attenzione molto fastidiosa per i produttori. Il ritiro di un prodotto dal mercato, ad esempio dopo il caso dei polli, causò la diminuzione del consumo del 30%, che però nel giro di qualche mese tornava agli standard precedenti. La stessa flessione nella vendita della carne, in seguito a mucca pazza, è stata di gran lunga inferiore nel lungo periodo alla qualità delle garanzie date dal settore circa il cambiamento dei processi produttivi che sono causa della malattia. In una indagine fatta in Francia nel novembre del 1999, la preoccupazione sulla qualità dei cibi si riscontrò molto più presente tra le persone che vanno dai 50 ai 65 anni ed in assoluto meno presente tra le persone con meno di 35 anni.
In realtà ci sono vari segnali nel comportamento dei consumatori, specialmente in Europa, che fanno intravedere uno scenario meno omogeneo di quello che si vorrebbe presentare. La diffidenza per i transgenici ha reso necessario affossare, da parte dei produttori, le norme che li obbligavano alla dichiarazione e, nonostante la pubblicità passata come informazione sull’uso a scopi “sociali” degli alimenti trasgenici, la loro diffusione attualmente è stata rallentata proprio dal comportamento dei consumatori.
Un’altra indicazione positiva è la continua crescita del mercato dei prodotti biologici, relativamente ai quali si dovrà fare attenzione nel futuro che non si speculi su quello che potrebbe diventare un mercato appetibile per molti. Sono questi i segnali che fanno intendere come i consumatori non siano omogenei nelle loro risposte e che lasciano intravedere come si possa svolgere una funzione di ostruzione e ridimensionamento del mercato globale dell’alimentazione evidenziandone le aberrazioni.
E’ una situazione ancora conflittuale tra due modelli diversi di alimentazione e di vita individuale e sociale, e proprio su questo tema, così profondamente connaturato con la vita privata e le abitudini culturali e sociali di ciascuno, che la popolazione anche dei paesi del nord del mondo ha una reazione, forse inaspettata, e attua una resistenza, forse inconsapevole, verso un modello che intacca abitudini e culture, resistenza che potrebbe permettere la definizione di modelli sociali altri da questi.

 

Le provviste

Dopo la caduta delle Torri Gemelle, a NY vi è stato un accaparramento dei generi alimentari per una diffusa, quanto forse esagerata, preoccupazione. Una radio ha trasmesso l’elenco di merci comprate da un signore: 40 confezioni di patatine fritte, 20 confezioni di latte, 10 confezioni di cereali, 5 confezioni di salse, ...
Una palese perdita di buon senso nel riconoscere quali sono gli alimenti indispensabili.

 

I grandi produttori

Le politiche aziendali su vasta scala sono le principali responsabili delle condizioni alimentari mondiali, sia per quanto attiene l’iniqua distribuzione degli alimenti, sia per la qualità dei cibi, sia per le condizioni ambientali e sociali che la produzione e la distribuzione comportano.
Le grandi multinazionali dell’alimentazione cambiano carattere a seconda se sono strettamente collegate al prelievo delle risorse, in tal caso esercitano pressioni sociali e ambientali o direttamente o indirettamente sulle comunità locali, o se sono produttrici di merci che non hanno bisogno di un grande quantitativo di risorse qualificate.
Quasi tutte le aziende comunque incidono, con la loro ricerca di nuovi mercati e profitti, negativamente sulla società e sull’ambiente e grandi responsabilità possono essere loro attribuite.
Dal confronto tra le tre aziende presentate nel box è evidente che quelle che hanno un processo di produzione più semplice e commercializzano un prodotto meno necessario sono quelle che guadagnano di più in termini di rapporto tra fatturato e persone occupate.


Le politiche internazionali ed i sussidi

Le politiche internazionali nel dopoguerra si sono costantemente interessate dell’agricoltura. Quasi tutte hanno avuto come obiettivo quello di ridurre l’esodo dalle campagne attraverso l’innovazione delle modalità produttive e la composizione del mercato.
Negli anni settanta e ottanta ogni progetto agricolo di organismi internazionali era connesso ad un impianto di trasformazione agroindustriale, ovvero tale da essere in condizioni di immettere prodotti sul mercato. In quest’ottica le tecniche tradizionali e l’autonomia alimentare delle comunità non sono state l’oggetto d’interesse quanto la capacità produttiva della comunità stessa, e l’aver perso i caratteri locali ha reso questi interventi delle soluzioni ibride, incapaci di sostenere la concorrenza agroalimentare del mercato e incapaci di supportare alimentarmente la comunità insediata.
Le politiche internazionali hanno interessato principalmente i paesi del terzo mondo, nell’ambito di quella politica di sostegno che veniva praticata quando il mondo era diviso in due blocchi per mantenere dalla propria parte i paesi. In questo sostenere tale modello l’intervento internazionale ha contribuito a destrutturare le comunità locali: attraverso la ricerca dell’aumento della produttività in termini di mercato ha esteso di fatto il controllo della produzione delle grandi compagnie.
Ed in questo le politiche agricole e alimentari comunitarie non hanno fatto differenza. Tutta l’agricoltura europea, il cui problema è stato quello della riduzione delle superfici agricole e degli addetti, dal dopoguerra è stata ed è ancora sostenuta da sussidi per attività che rispondessero ai criteri della produttività, che si relazionassero alla necessità di mercato globale, che omogeneizzassero i prodotti. Essa ha dunque sostenuto un’agricoltura industrializzata, monocolturale, disinteressata all’ambiente, inquinante, energivora, con un ridotto uso di manodopera, con un eccesso di produzione quantitativa (il problema della sovrapproduzione ha colpito l’intero settore per anni;) una alimentazione delle grandi quantità e uniforme nutrita con prodotti non più connessi alle tecniche, alle modalità ed alle necessità locali.
L’esito sociale è stato l’ulteriore riduzione di uso di manodopera e la creazione di un profitto in gran parte concentrato nelle aziende di medie grandi dimensioni, nonché l’asservimento totale delle produzioni alle richieste delle grandi compagnie di alimentazione e il disinteresse nei confronti delle necessità espresse dalla società.

 

Tre tipi di aziende a confronto

Del Monte, sede principale Florida, attiva in 50 paesi, 3.500 mld di fatturato, impiega 20.000 occupati (0,175 mld a occupato).
Produce e vende a livello mondiale frutta fresca: banane, ananas, meloni, mele. Possiede circa 25.000 ettari di piantagioni nei paesi dell’America Centrale e Meridionale e nelle Filippine.
Non garantisce la libertà sindacale nelle aziende di produzione, licenzia e riassume i dipendenti stagionalmente, e quindi in condizioni salariali peggiori, licenzia e non riassume i sindacalisti. Dopo l’opposizione ad un licenziamento illegale di 900 dipendenti in tre piantagioni (raccolta data in appalto a ditte che poi hanno riassunto a condizioni peggiori i dipendenti licenziati, salvo i sindacalisti), 200 uomini armati hanno attaccato un’assemblea di dirigenti del sindacato bananiero intimidendone i partecipanti. Le aziende sono vigilate da guardie armate che operano uno stretto controllo; vi è un controllo sociale dei lavoratori che si estende anche, al di fuori del luogo di produzione, nei villaggi e nelle abitazioni.
Nel 1999, nelle piantagioni di ananas di Del Monte in Kenya, un bracciante guadagnava 3000 lire al giorno, pari al costo di 3 kg di farina.
La politica attuale dei grandi produttori, tra cui la Del Monte, è quella di cedere la gestione della produzione in modo da rinfrescare il proprio aspetto commerciale appesantito da anni ed anni di prepotenze sulle popolazioni locali.
Utilizza pesticidi classificati come “molto pericolosi” dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, e di cui l’utilizzo è in parte vietato in Europa. L’elevata quantità di pesticidi e di altri trattamenti per le banane contamina i suoli e i fiumi, avvelena le acque ed è nociva alla salute degli addetti.
Uno dei più pericolosi pesticidi è il DBCP, vermifugo che in Costa Rica e Honduras ha reso sterili circa 4000 lavoratori.

Coca Cola sede principale Atlanta. Fattura circa 60.000 mld e impiega 29500 persone (2 mld a dipendente), ha filiali in 30 paesi.
Possiede i marchi Schweppes, Canada Dry, Dr.Pepper, Fanta, Kinley, Sprite, Beverly, Bonaqua, etc. Ha accordi commerciali con Nestlè e Danone.
Utilizza, in alcuni prodotti dietetici, aspartame, sostanza che se assunta in grande quantità può causare danni al cervello, in particolare nei bambini e ancora di più nei feti; l’uso di un fungicida, rimasto nelle lattine come residuo delle lavorazioni precedenti, ha nel 1999 portato all’intossicazione e ricovero di più di 90 persone in una settimana e al ritiro dei prodotti in alcuni paesi europei.
Ha avuto atteggiamenti scorretti nelle relazioni sindacali, finalizzati anche a indebolire le organizzazioni dei lavoratori, utilizza il licenziamento di massa per regolare la produzione, ha messo in atto alcuni comportamenti (poi multati) tesi a danneggiare la concorrenza.

La Nestlè è presente in 81 paesi, è al 36° posto tra le società a maggior fatturato, è la maggiore società agroalimentare del mondo, fattura circa 100.000 miliardi e impiega 232.000 persone (0,431 mld a occupato), possiede 522 stabilimenti produttivi; la sua produzione è di 28% di bevande, 27% derivati del latte, 26% piatti pronti e ingredienti alimentari, 14% dolciumi e cioccolato, 5% prodotti farmaceutici. Possiede tra gli altri i marchi Friskies, Felix, Fido, Kit Kat, Vitto Doko, Claudia, Giara, Giulia, Levissima, Limpia, Lora Recoaro, Panna, Pejo, Perrier, Pracastello, San Bernardo, San Pellegrino, Sandalia, Tione, Ulmeta, Vera, Acqua Brillante Recoaro, Beltè, Chinò, Gingerino, Mirage, Nestea, One-O-One, Sanbitter, After Eight, Alemagna, Baci, Ciocoblocco, Galak, Motta, Perugina, Quality Street, Rowntree Macintosh, Smarties, Le ore liete, Lion, Orzoro, Cheerios, Chocapic, Buitoni, Pezzullo, Surgela, Mare fresco, La valle degli orti, Mio, Fruttolo, Antica gelateria del corso, Berni, Sasso, Maggi, Vismara, ...
La Nestlè fa parte dell’associazione industriale EuropaBio il cui scopo è intervenire a tutti i livelli per legittimare l’impiego delle biotecnologie; dichiara di essere convinta della capacità delle biotecnologie di migliorare la qualità nutritiva degli alimenti... ”tuttavia nei paesi in cui l’opinione pubblica rifiuta gli OGM, Nestlè rispetterà le scelte dei consumatori, e nei limiti delle possibilità offerte dalla tecnica, offrirà prodotti esenti da OGM” (Ethical Consumer 60/99); dichiara di non utilizzare soia geneticamente modificata negli alimenti in polvere per l’infanzia ma nel maggio del 2000 si trovarono proteine isolate di soia geneticamente modificata nel prodotto Alsoy (alimento per l’infanzia). Un risparmio che per dimensione d’impresa, costo dell’alimento e sensibilità del fruitore avrebbe potuto essere evitato.
La Nestlè, per vendere maggiori quantitativi di latte in polvere, trasgredisce il Codice dell’Organizzazione Mondiale della Sanità attraverso informazioni distorte e promozioni che mirano alla sostituzione del latte materno con latte di produzione anche in situazioni economiche e sanitarie estreme (nei paesi in via di sviluppo, ad esempio, dove l’acqua per diluire le polveri è inquinata).
Nel marzo 2000 è stata condannata dall’Antitrust italiano insieme a Milupa, Nutricia, Heinz, Humana e Abbott per violazione delle leggi sulla concorrenza, avendo congiuntamente orientato la vendita dei prodotti solo nelle farmacie (con una triplicazione del prezzo) e dividendosi il mercato del latte in polvere fin presso ospedali e cliniche con distribuzioni gratuite iniziali.
Ha finanziarie nelle Bahamas, Panama, Svizzera, Lussemburgo.

 

L’azione della FAO

La Fao (Food and Agricultural Organisation) è una agenzia dell’ONU. Raccoglie informazioni sui livelli di alimentazione mondiale e sugli effetti che questi comportano nelle comunità locali, denuncia situazioni di squilibrio, predispone le politiche internazionali, interviene per migliorare le condizioni riscontrate sia con azioni direttamente finanziate sia attraverso la sensibilizzazione delle politiche degli stati.
Il limite dell’organismo è che esso si muove all’interno dei criteri operativi del modello vigente e quindi non riesce a definire uno scenario effettivamente alternativo risolvendo, quando possibile, le situazioni locali all’interno dei meccanismi di mercato e degli interessi vigenti.
L’azione della Fao si inserisce sempre nel contesto delle politiche nazionali che regolano l’uso dei territori e che controllano ambiti geografici e società insediate.

Ad esempio la FAO negli anni settanta ha incoraggiato i paesi in via di sviluppo a produrre cereali per l’alimentazione animale, sostituendo così produzioni tradizionali e sostenendo la politica di sudditanza ad un mercato non controllato da quei paesi, e questo solo a fronte di una domanda di quel tipo di merce momentaneamente esistente sul mercato.
Gli interessi dei produttori recentemente hanno marginalizzato l’azione della FAO: da un lato attraverso la riduzione dell’attenzione dei paesi ricchi nei confronti del benessere di quelli poveri, dall’altro dando maggiore spazio operativo al WTO (organizzazione mondiale del commercio). Nonostante ciò e nonostante l’incapacità di attuare politiche che inficiassero gli interessi delle grandi produzioni e che sostenessero prioritariamente l’assetto culturale, sociale, ecologico locale, la FAO è comunque un soggetto che ha svolto un ruolo propositivo e critico ed è soggetto istituzionale all’interno del quale possono sussistere diverse interpretazioni del modello di sviluppo perseguibile (cosa che non è presente, ad esempio, nel WTO).

 

Un esempio di una politica errata

Esemplificativo dell’appiattimento verso criteri produttivistici è l’intervento attuato nel Sahel negli anni settanta e sfociato nella tragedia ambientale e sociale degli anni Ottanta.
Il Sahel è una regione arida a sud del deserto del Sahara. In essa era insediato stabilmente un numero ridotto di individui la cui principale attività era l’allevamento del bestiame.
La quantità e il tipo delle attività presenti erano regolati dalla quantità di acqua disponibile. L’acqua veniva prelevata da pozzi profondi al massimo dieci metri. Il progetto ipotizzò di aumentare la quantità delle acque prelevate approfondendo i pozzi e meccanizzandoli.
Questo rappresentava il superamento di quelle condizioni che limitavano lo sviluppo dell’area.
L’aumento dell’acqua rese possibile l’aumento dei capi di bestiame allevati, produsse maggiore ricchezza e richiamò altra popolazione in quelle aree.
In breve tempo il numero degli abitanti e dei capi di bestiame si incrementò: solo tra il 1975 e il 1984 nell’area del Sahel la popolazione bovina aumentò del 25%.
Il sistema originario era stato sostituito con uno più produttivo che però, pur non consumando tutta l’acqua disponibile, era testato per una quantità media di acqua che non teneva conto delle possibili grandi siccità.
Quando si manifestò il fenomeno siccitoso il sistema collassò; l’acqua prelevata secondo le nuove necessità si esaurì. Ciò provocò una carestia spaventosa con la morte di centinaia di migliaia di persone e di animali (250.000 morti di fame nelle siccità del 1968-73 e del 1982-84), che indusse un massiccio esodo e completò un processo di desertificazione così lungamente ostacolato dalle modalità originarie di uso delle acque.
Il limitato consumo delle acque presente nel sistema originario e il ridotto numero di popolazione e bestiame insediato erano in realtà il modo per mantenere quel sistema al massimo livello di sviluppo materiale consentito da quelle condizioni ambientali, ma la tracotanza della modernità e di erronee immagini di sviluppo non avevano fatto prendere in considerazione tali condizioni.

 

Le strategie

La presenza di profitti elevati, di un apparato di ricerca scientifica sostenuto dagli interessi economici, la diffusione dei due principi liberisti, di non interferire con chi produce denaro e di consentire ogni azione se non esplicitamente vietata, l’uso strumentale del mercato per finalità geopolitiche per il controllo delle risorse da parte dei paesi ricchi, e dei loro imprenditori, rende difficile ipotizzare il miglioramento della situazione riscontrata attraverso l’esclusiva azione regolamentativa.
Nella critica diffusa al sistema produttivo contemporaneo è necessario estendere l’attenzione dal mondo sociale della produzione al mondo sociale dell’utilizzazione, e ciò è ancora più indispensabile nel nord del mondo, dove si concentrano i consumi e dove meno evidenti, seppur sempre presenti, sono i guasti sociali della produzione.
Sono questi ambiti che creano e sostengono la domanda di merci e quindi l’accumulo di ricchezze da parte delle multinazionali, sono questi ambiti che sostengono il modello vigente.
Scegliere un alimento invece di un altro comporta di fatto il sostegno al modello produttivo e quindi sociale che definisce quella merce, e togliere anche un piccolo sostegno contribuisce direttamente a indebolire il modello.
Inoltre dalla critica dell’ambito del consumo è maggiormente semplice operare una critica al modello sociale e ambientale produttivo e sociale in quanto la critica si fonda su un diffuso ed ancora riscontrabile interesse alla salute da parte della popolazione e alla comprensione di concrete possibilità alternative.
Al fianco della denuncia e della critica politica, l’azione diretta sulla distribuzione e commercializzazione è dunque fondamentale per garantire le comunità locali e tornare a gestire un rapporto tra chi produce e chi consuma, rapporto che gli interessi delle multinazionali vogliono recidere.
Numerose sono le iniziative che si stanno attuando: dal commercio equo e solidale, alla banca etica, dalla rete di produttori biologici, alle volontarie attenzioni poste da alcuni distributori alla qualità sociale e ambientale dei cibi commercializzati, ai gruppi d’acquisto.
Oltre a ciò è anche necessario ricomporre una relazione con i soggetti locali. In Italia vi sono 3 ml di autoproduttori, ovvero di persone che affiancano alla loro attività principale la cura di un orto da cui traggono alimenti che utilizzano direttamente o distribuiscono limitatamente a pochi soggetti familiari e amici. Questa è una condizione anomala nel panorama dei paesi ricchi e denota tutta la capacità di resistenza della popolazione del paese ai modelli che vengono imposti.
E’ necessario mantenere in vita questa relazione con la terra e con prodotti di sicura qualità di cui si conosce il produttore, il terreno, il modo di coltivazione, le semenze e l’interesse dello stesso produttore ad ottenere alimenti di qualità di cui vantarsi; è questo un dato fondamentale per permettere il superamento dello stato di appiattimento a cui le multinazionali ci spingono.
Ogni autoproduttore è una spina nel fianco del modello commerciale attuato, in quanto erode parte del mercato potenziale dell’alimentazione e mantiene una capacità di autoalimentarsi che appunto il modello vuole eliminare per raggiungere la totale dipendenza delle comunità dalle merci commercializzate.
L’azione da praticare dunque riguarda molte scelte e molte attività quotidianamente svolte: l’acquisto al mercato delle erbe e non al supermercato, la scelta del supermercato che offre garanzie di qualità ambientale, che non commercializza prodotti transgenici, l’acquisto diretto da colui che produce, la predisposizione di un piccolo orto in cui autoprodurre qualche cosa, anche poco, il ricorso alle catene commerciali a cui direttamente partecipino i produttori del terzo mondo.
Ma la scelta può essere volta sia alla selezione di una merce voluta sia alla decisione di non acquistare una merce, ovvero al boicottaggio delle merci.
Negli ultimi anni sono stati operati boicottaggi alla Shell, alla Del Monte e sono in corso quelli alla Nike e alla Nestlè e a molte altre aziende di dimensioni ridotte. I frutti di queste azioni si rileggono immediatamente, perché il commercio risente direttamente della perdita di immagine, ma anche in termini di vendite di prodotto.
In seguito ai boicottaggi, le aziende non sempre arrivano a definire delle soluzioni condivisibili ma comunque modificano il loro comportamento.
Infine, sono circa 180.000 le varietà di alimenti provenienti da gran parte del mondo che si possono trovare sugli scaffali dei supermercati. Ma sono una piccola parte della grande quantità di produzione locale. Nel momento in cui passano dal consumo locale al supermercato questi prodotti perdono le loro caratteristiche, si uniformano alle richieste della produzione e della distribuzione di massa, incominciano a contenere tutti le stesse sostanze, per essere conservati incominciano a subire gli stessi processi produttivi, per essere igienici, per ottenere le quantità volute, incominciano ad assumere forme omogenee in relazione alla richiesta del mercato. E’ su questo che bisogna porre attenzione...
Allora come attenzione particolare bisogna andare alla definizione di una modalità di nutrimento che non avvantaggi i grandi produttori, modalità che, guarda caso, comporti contemporaneamente un aumento della qualità degli alimenti. E’ dunque un’azione che fa bene alla nostra saluta ed è volta al sostegno delle comunità, salvaguarda l’ambiente e lede gli interessi delle multinazionali: è il massimo del piacere.

 

La costituzione di una rete di comercio alternativo: il caso delle Banane

Uno dei passaggi fondamentali per garantire la qualità e la diversità dell’alimentazione, la vita delle comunità produttrici, l’attenzione verso condizioni di lavoro e ambientali che non alterino gli ecosistemi e non danneggino le comunità è la gestione o il controllo della rete distributiva e di commercializzazione. Attraverso di essa infatti si possono favorire modalità produttive adeguate divenendo committenza di una produzione qualificata e di soggetti autonomi e si possono organizzare sistemi di vendita diretta o semidiretta connettendo maggiormente i fruitori con i produttori.
Questo sistema, praticato dalle reti di commercio equo e solidale in gran parte del mondo occidentale garantisce un maggiore utile ai lavoratori, che non operano sotto le multinazionali ma in diretto contatto con il mercato.
Caffè, tè, prodotti artigianali, riso sono già da tempo commerciati e i risultati sono clamorosi: si creano cooperative che riescono ad ottenere guadagni nettamente superiori a quelli non garantiti dalle multinazionali, cooperative di persone che possono programmare la loro esistenza in ragione di una domanda stabile, conosciuta, con interessi comuni, si riescono a ridurre gli effetti negativi sull’ambiente con produzioni meno impattanti e di qualità.
La commercializzazione delle banane è stata avviata da poco in ragione della difficoltà di fare pervenire un alimento che, in quanto fresco, ha tempi di distribuzione ridotti.
Nelle “repubbliche delle banane”, gli stati del centro America in cui le ditte che controllano la produzione e commercializzazione delle banane controllano lo stato e la società, lavorare in una piantagione può essere l’unica possibilità di lavoro, lavoro che per molti incomincia a 13-14 anni. Nelle piantagioni controllate dalle grosse multinazionali vengono negati ai lavoratori anche gli elementari diritti e garanzie sociali: salari bassi, mancanza di contrattazione sindacale, aumento delle ore lavorative, lavoro svolto in condizioni di pericolo per la salute dei lavoratori. Un lavoratore di piantagione può arrivare a guadagnare solo l’1% del prezzo finale delle banane.
Fungicidi, nematicidi, erbicidi e insetticidi vengono somministrati ai banani in dosi massicce tramite irrorazione aerea, anche in presenza di lavoratori nelle piantagioni. Le caratteristiche di somministrazione fanno sì che circa il 90% di questi veleni venga disperso nell’ambiente.
In Europa vengono importati sei milioni di tonnellate di banane annue, con un impatto ambientale notevolissimo per il trasporto (in navi frigorifere), la maturazione (in locali riscaldati e gasificati) e la distribuzione. Sarebbe meglio consumare le mele in Trentino e le arance in Sicilia piuttosto che fare pervenire da così lontano un cibo pieno di sostanze tossiche coltivato con fatica e con danni sociali e ambientali locali enormi.
Ma il boicottaggio nell’acquisto delle banane, se perseguito, rischierebbe di portare alla fame migliaia di persone in America Latina: sono in questo caso in corso forme di commercializzazione, distribuzione e produzione che aggirano le multinazionali e dando maggiore guadagno ai lavoratori tentano di ridurre l’impiego di inquinanti e di meglio salvaguardare la salute dei lavoratori.
L’importante è avere chiaro il fine ultimo di queste azioni: ridurre i traffici, regionalizzare i consumi alimentari, rendere autonome le comunità.

 

Il biologico

Intendere come biologico non solo quello che non usa pesticidi e anticrittogamici ma anche quello che ha una modalità di conduzione di tipo naturale (conformazione del campo non monocolturale, presenza di ambiti naturali, lotta integrata, no alle primizie etc.) ma anche socialmente corretto: no latifondo, no alle grandi aziende, no alle aziende esterne al tessuto sociale locale. Si alle conduzioni comuni dell’agricoltura, si alla vendita diretta, si alla gestione da parte dei produttori del mercato.
In questo è necessaria una particolare attenzione alla verifica dei marchi di qualità ambientale dei prodotto e alla definizione di biologico che viene applicata sui cibi.
Molti di questi marchi sono delle autocertificazioni, ovvero le aziende dichiarano autonomamente la biologicità degli alimenti senza definire parametri né caratteristiche di qualità del cibo. In tale maniera è difficile comprendere il reale senso dell’etichettatura.
Altro problema è l’inserimento di suffissi tipo “bio” o “eco”, o l’uso di termini come “naturale” sulle confezione degli alimenti: in moltissimi casi l’uso di queste terminologie non comporta nulla o pochissimo in termini di reale qualità del prodotto e viene messo in atto millantando credito e cercando di captare un settore del mercato maggiormente sensibile a tale tema.
Anche in questo caso si rilegge una grande distrazione da parte delle amministrazioni: tale distrazione non è casuale ma è programmata. Infatti, allineandosi alle richieste delle multinazionali, i controlli e le limitazioni vengono adottate solo dopo che siano stati esplicitamente individuati motivi di intervento, e non definendo delle indicazioni a cui le aziende si debbono uniformare (in sintesi: se una nuova sostanza in un cibo fa male può essere usata fin quando non si costituisce una parte lesa che richieda la modificazione del cibo o i danni dopo averne dimostrato la nocività). In questo anche gli organismi nazionali e internazionali della sanità sono marginalizzati alla verifica di poche garanzie per la comunità, e tutto viene affidato all’abilità dell’azienda di mistificare.
Il ruolo del fruitore e la sua capacità a distinguere è anche in questo caso fondamentale: assumere consapevolezza e capire che cosa si mangia selezionando e rifiutando.

Questo volantone
è stato realizzato da Adriano Paolella e Zelinda Carloni. Per contattarli via e-mail, scrivete a antiglo@email.it
Il volantone esce come supplemento al n. 276 (novembre 2001) della rivista mensile anarchica “A”, direttrice responsabile Fausta Bizzozzero, registrazione al tribunale di Milano n. 72 in data 24.2.1971, stampa e legatoria Sap s.n.c. (Vigano di Gaggiano - Mi).

“A” esce 9 volte all’anno (salta i mesi di gennaio, agosto e settembre) regolarmente dal febbraio 1971. Se ne vuoi una copia/saggio (gratis) chiedicela. Una copia costa 3,00 ¤ l’abbonamento annuo costa 30,00 ¤ per l’Italia e lire 40,00 ¤ per l’estero, quello sostenitore da lire 100,00 ¤.

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