rivista anarchica
anno 31 n. 276
novembre 2001


lettere

 

Gentile Sig. del Prete

sono rimasto impressionato dalla lettera apparsa sul n° 273 di A e relativa alla vicenda di cinque anarchici morti nel 1970.
Detta vicenda ha richiamato alla mia mente sia l’orribile fine di Panagulis che la morte del giovane studente diciannovenne napoletano Enzo De Waure che morì, trasformato in una torcia umana, in una notte di gennaio del 1971 (o 1972?) a Napoli, in piazzale Tecchio, nel quartiere di Fuorigrotta, in luogo frequentatissimo anche di notte, posto fra lo Stadio San Paolo e la stazione ferroviaria di Napoli Campi Flegrei, proprio di fronte al Commissariato di Pubblica Sicurezza.
Questa morte – definita dalle Autorità “suicidio” – mi era parsa già allora circondata non solo dal mistero, ma anche da un relativo, incomprensibile silenzio che allignava perfino nell’organizzazione stessa alla quale apparteneva la vittima (il PC (ML) d’l - lotta di lunga durata).
Più tardi, all’ultimo anno delle superiori, seppi da un supplente che era venuto a lavorare nella classe da me frequentata che De Waure stava indagando sulla Strage di Stato. Al povero De Waure è mancato perfino il tardivo tributo di una verità ufficiale scoperta con il solito quarto di secolo di ritardo.
Mi rivolgo a lei perché vorrei sapere qualcosa in più sulla vita e sulla morte dei cinque anarchici.
Esistono fascicoli sul loro caso? La rivista “A” in che numero si è occupata di loro? Sono previste iniziative per commemorarli? In particolare, vorrei sapere in quale organo di informazione e in quale data è stata resa pubblica la verità “ufficiale” sulla loro fine.
La ringrazio. Cordiali saluti

Alfio Nassaro
(Pieve Emanuele - MI)

NdR: Sulla vicenda dei cinque anarchici è uscito di recente il libro Cinque anarchici del sud. Una storia negata (di Fabio Cuzzola, 2001, Città del Sole Edizioni, pagg. 126, 12.000 lire) recensito da Massimo Ortalli sul numero 274 di A.

Il tempo geometrico

Il carcere è lo specchio della società, umori e tensioni viaggiano parallelamente, tutte le espressioni del macrocosmo sociale si riflettono nel microcosmo o luogo parallelo, è una questione di simbiosi.
In questo caso il tempo diventa fondamentale, il tempo identico nelle sue geometrie non ha barriere o muri che dividono, il ticchettio del metronomo batte il tempo inesorabile e angusto allo stesso modo del tempo impossibile sottratto alle relazioni sociali dei cosiddetti soggetti liberi. La società esterna ha fatto sì che il tempo collettivo si trasformasse in tempo individuale, che tutto ruoti intorno all’individuo come soggetto incapace d’avere relazioni, emozioni, sensazioni.
Proviamo a riflettere su questo mondo lontano ma nello stesso tempo vicino, perché il carcere, essendo un problema sociale lo si è voluto trasformare in un problema che non esiste, affrontabile solo come luogo in cui la devianza viene messa in condizioni di non nuocere, a qualunque prezzo.
Ci siamo lasciati alle spalle un secolo che per pienezza di avvenimenti non è secondo a nessun altro secolo, e la paura che ci sorregge oggi è che ci viene difficile percepire seppur minimamente, cosa ci si prospetta per il domani, tutto rimane nell’incertezza e il tempo diventa padrone delle nostre esistenze. Con gli occhi che guardano avanti non vogliamo riesumare un periodo storico ormai morto e sepolto, ma trarne il positivo, accettando l’insegnamento subito come base di partenza per proseguire il viaggio verso il tempo liberato dallo stato di cose presenti.
Le ragioni della galera sono tante, la povertà, le disuguaglianze, la ricerca di nuove emozioni, la fragilità cui si è sottoposti, le contraddizioni quotidiane di un sistema sociale in crisi, il lavoro diventato privilegio, non trovare nella vita una ragione che la renda degna di essere vissuta, le passioni. Una cosa è certa, il reato e chi lo commette è parte inscindibile di una società complessa alla perenne ricerca di quell’assestamento che potrebbe portarla, o all’autodistruzione violenta o alla liberazione della società stessa da come oggi è concepita.
Le trasgressioni sono frutto di fattori ambientali/sociali, la competizione, la delusione, la solitudine, la rabbia; quindi si potrebbe anche capire la funzione della restrizione della libertà all’interno di una galera, ma quello che non si riesce a comprendere è con quale criterio si determina il tempo dell’espiazione della pena e se nello stesso, il tempo debba essere vuoto o pieno? Non solo, ma qual’è il significato e cosa si vorrebbe intendere tempo vuoto tempo pieno, che il tempo inframurario del carcere è tempo vuoto e quello della città/territorio è tempo pieno come ci vorrebbero fra credere le “nuove leggi” sulla produzione/disciplina che oggi tanto si decantano per definire se una società è retrograda oppure no. Ecco, è il tempo il punto cruciale dove si avvicendano tutti gli eventi della nostra esistenza, quello che è in gioco non è la segregazione in sé, ma il tempo della segregazione.
Il secolo scorso il dibattito sulla giustizia s’incentrava sulla certezza della pena, abolire l’ergastolo (dunque meno tempo) ma fare vent’anni che siano vent’anni di vera galera, scontati fino all’ultimo giorno, insomma, definire quanto tempo sia sufficiente all’espiazione di una pena senza entrare nel merito di come il tempo viene vissuto; nel secolo nuovo, a fasi alterne, si ripropone lo stesso quesito. Nulla è cambiato nel dibattito sulla giustizia, il tempo, sempre quello, sfugge via senza essere riempito, tempo vuoto che permette l’aggiramento del problema indirizzandolo su altre tematiche che non facciano perdere tempo.
Naturalmente la modificazione del tempo dell’esistente societario galeotto sta producendo la creazione del tempo meritocratico, in poche parole il passaggio – dal vorrei utilizzare il tempo in questo modo al il tuo tempo inizierai ad utilizzarlo nel modo che diciamo noi – questo significa la perdita della propria soggettività, l’essere sottoposto al controllo di qualsiasi movimento, l’annullamento della cosiddetta privacy, ma la cosa più odiosa e terrificante che potrebbe accadere, e non è detto che già non accada, è di non essere più in grado di sognare, perché il sogno in se è al di sopra di ogni tipo di coercizione; il sogno è la liberazione totale dell’essere umano.
Si diceva del tempo meritocratico, ebbene nulla a che fare con la presa di coscienza, con l’analisi critica “… in realtà il carcere si è adattato talmente bene alla dimensione post-industriale da essersi trasformato in palestra del tempo vuoto e in negazione dell’attività…” il tempo meritocratico rientra a tutti gli effetti nella sfera delle disuguaglianze umane, vorrebbe dire che qualcuno dovrebbe decidere su come far passare il tempo, dato che il microcosmo carcerario è il riflesso del macrocosmo societario, le nuove sperimentazioni antropologico/sociali sul controllo del genere umano trovano nel luogo carcere lo spazio ideale per poter affermare che il concetto di potere non è solo governare la società degli esseri umani ma è cercare di garantirsi l’onnipotenza attraverso l’acquisizione del potere del tempo. Che dire altro, riappropriarsi del tempo perduto diventa un’esigenza vitale, vuol dire avere voglia di affermare la propria esistenza. “…costruire il tempo pieno della propria liberazione vuol dire allora dare una direzione al tempo dell’attesa, riempire di significato e di possibilità l’altrove perché non sia anch’esso rassegnata metafisica del trascendente. Un compito indubbiamente collettivo, che ci riguarda tutti…”.

Andrea Perrone
Carcere di Spoleto (PG)

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