Buenaventura Durruti
La galleria degli anarchici
offre una grande varietà di tipologie. Siano principi
o proletari, intellettuali o analfabeti, uomini d’azione o pensatori,
le loro vite, spese in epoche, terre e situazioni distanti e
diverse fra loro, hanno però sempre un comune denominatore,
quello della profonda e intrinseca identità fra pensiero
e azione, fra ideale e comportamento.
Hans Magnus Enzensberger, il grande scrittore tedesco dal profondo
impegno civile, nel suo avvincente La breve estate dell’anarchia,
ricostruisce in chiave di biografia romanzata la vita di colui
che ha rappresentato compiutamente, nell’immaginario del proletariato
internazionale, il personaggio puro ed “eroico” dell’anarchismo:
lo spagnolo Buenaventura Durruti. Poiché si tratta di
una vita troppo intensa e ricca di storia e di storie per poterla
esaurire in poche righe, mi limiterò a fornirne una sommaria
traccia, rimandando il lettore sia al libro di Enzensberger,
ancora reperibile nella Economica Feltrinelli, sia alla monumentale
biografia in due volumi dell’anarchico spagnolo Abel Paz (pseudonimo
di Diego Camacho), uscita nel 1999-2000 nella coedizione Bfs,
La Fiaccola, Zero in Condotta. Poi alla bella edizione quadrilingue
(anche in italiano) ricchissima di illustrazioni, pubblicata
nel 1996 da cinque editrici anarchiche europee, fra cui la milanese
Zero in Condotta.
Nato nel 1896 a Leòn in una famiglia operaia, a soli
17 anni Durruti è già sindacalista attivo nell’Unione
dei Metalmeccanici. Distintosi per l’estremistica tenacia profusa
nelle lotte operaie dell’epoca, attira inevitabilmente le attenzioni
della polizia. Dopo essere riparato in Francia, al rientro in
Spagna nel 1919 aderisce alla centrale anarcosindacalista Cnt.
Nel radicalizzarsi delle lotte operaie degli anni Venti, che
vedono la feroce reazione padronale, Durruti, assieme a Francisco
Ascaso e ad altri giovani anarchici pronti all’azione, inizia
la sua lunga battaglia contro il potere. Per anni la vita sua
e dei suoi compagni, braccati dalle polizie di mezzo mondo e
dai pistoleros al soldo dei padroni, correrà sul filo
dell’esilio, della prigione e delle avventurose peregrinazioni
in Europa e in America. La radicalità della lotta fa
sì che spesso le loro azioni vengano a porsi su un piano
illegalitario, ma questo non comporta mai un’adesione anche
“ideologica”; il pensiero di Durruti e dei suoi compagni, infatti,
sarà sempre attento alla visione sociale e collettiva
dell’anarchismo, senza indulgere a un individualismo confinante
con l’immoralismo borghese. Rientrato in Spagna nel 1931, dopo
la costituzione della Repubblica, partecipa alle agitazioni
di massa che scuotono il paese, e ancora conosce la prigione
e la deportazione. Gli anni che precedono il sollevamento militare
del 1936 sono segnati da una lunga serie di tentativi insurrezionali
e dalle pesanti risposte governative; e la ginnastica rivoluzionaria,
patrimonio di decine di migliaia di anarchici, diventa pratica
quotidiana di Durruti e del suo gruppo. Il 19 luglio 1936, quando
il proletariato spagnolo si oppone in armi al golpe militare,
Durruti e Ascaso sono fra i primi ad accorrere in difesa della
rivoluzione, mettendo la loro grande esperienza al suo servizio.
Francisco Ascaso, l’amico fraterno di una vita, è fra
i primi a cadere, in quello stesso giorno, nell’assalto alla
caserma Atarazanas. Il 24 luglio Durruti assume il comando di
una delle prime colonne di miliziani anarchici e parte alla
volta di Saragozza. Fra l’entusiasmo di un popolo che finalmente
diventa artefice del proprio destino, il passaggio della colonna
contribuisce alla nascita e al grandioso sviluppo della collettivizzazione
delle terre. Chiamata dal governo a difesa di Madrid assediata,
la colonna giunge nella capitale nel novembre del 1936. Impegnata
in sanguinosi combattimenti, vede i propri effettivi pesantemente
decimati e lo stesso Durruti, il leggendario Durruti, muore
pochi giorni dopo colpito al cuore. Oggi nessuno può
dire con certezza da dove sia partito il colpo che lo ha ucciso,
se dal fronte nemico o da qualche postazione in mano ai comunisti
spagnoli. Due cose però sono certe, la prima è
che presto gli stalinisti inizieranno “l’epurazione degli anarchici
e dei trotzkisti”, la seconda è che ai funerali di Buenaventura
Durruti, nella rivoluzionaria Barcellona, più di un milione
di persone ne seguirà il feretro.
Se la vita di Durruti è stata eccezionale per la eccezionalità
delle sue avventure, il suo sentire era invece quello di migliaia
di altri operai e contadini che “portavano un mondo nuovo nei
loro cuori”. Non un mondo di pura retorica, ma un mondo che
ha reso reale un sogno di libertà nelle campagne e nelle
fabbriche spagnole, il sogno di vivere finalmente senza schiavi
e senza padroni.
In questo numero della rivista, accanto ad alcune pagine nelle
quali Enzensberger racconta degli anarchici spagnoli esiliati
in Francia, e oltre al discorso che il nostro “ritratto in piedi”
rivolse ai miliziani nei primi giorni di combattimento, riporto
anche due brevi, significative testimonianze. La prima è
dell’anarchico francese Gaston Leval, che illustra la concretezza
dell’anarchismo nella Catalogna rivoluzionaria descrivendo con
efficacia la collettivizzazione dei trasporti a Barcellona.
La seconda è nelle parole di Enrique Castillo, un militante
“qualsiasi” di una generazione che, nella sua modestia e semplicità,
ha saputo rendere viva e concreta la progettualità anarchica.
Una generazione, ed un progetto, battuti solo dalla infame alleanza
che sui campi di battaglia spagnoli vide il fascismo internazionale,
lo stalinismo e le democrazie occidentali uniti per sconfiggere
un proletariato che stava dimostrando che il sogno non era utopia.
Una generazione, comunque, vittoriosa.
Massimo Ortalli
Siamo ottimisti!
di Buenaventura Durruti
Compagni, sul fronte aragonese le milizie operaie non stanno
inattive: attaccano, sconfiggono il nemico e guadagnano terreno
per la causa rivoluzionaria; ma questo è solo il preludio
della grande offensiva che le milizie intraprenderanno su tutto
il fronte dell’Aragona. Anche voi, lavoratori di Spagna, avete
un’importante missione da compiere, perché la rivoluzione
non si raggiunge né si assicura solo sparando, ma producendo.
Non esiste né fronte né retrovia, perché
tutti noi formiamo un solo blocco che deve combattere unito
per raggiungere lo stesso obiettivo. E il nostro obiettivo non
può essere altro che costruire una Spagna rappresentativa
della classe operaia.
I lavoratori che combattono oggi sul fronte e nelle retrovie
non lo fanno per difendere i privilegi della borghesia, bensì
per il diritto di vivere con dignità. L’autentica forza
della Spagna sta nella sua classe operaia e nelle sue organizzazioni.
Dopo la vittoria, la CNT e la UGT discuteranno e si accorderanno
sui modi e gli orientamenti economici e politici della Spagna.
Noi che siamo sul campo di battaglia, non ci battiamo per ottenere
decorazioni. Non lottiamo per essere deputati o ministri. Quando
otterremo la vittoria e ritorneremo dai fronti nelle città
e nei paesi, riprenderemo i nostri posti che avevamo lasciato
nelle fabbriche, nelle officine, nelle campagne e nelle miniere.
La nostra grande vittoria sarà quella che vinceremo sul
posto di lavoro. (...)
Noi siamo contadini e seminiamo nonostante le tempeste che possono
scoppiare e mettere in pericolo i nostri raccolti; siamo preparati
e sappiamo come combatterle. Le messi sono mature. Immagazziniamo
il grano! E sarà per tutti e nella distribuzione non
vi saranno privilegi. Al momento della divisione, né
Azaña né Caballero né Durutti avranno diritto
a una parte maggiore. Il raccolto appartiene a tutti, a tutti
coloro che lavorano in maniera continua e sincera ponendo tutta
la loro capacità, volontà e forza perché
il raccolto non ci venga rubato.
Lavoratori di Catalogna, qualche giorno fa da Sariñena
mi sono rivolto a voi per esprimervi l’orgoglio che io provavo
rappresentandovi sul fronte di Aragona: e vi dicevo anche che
noi saremmo stati degni della fiducia che avevate riposto nei
nostri fucili e in noi. Ma perché questa fiducia e fratellanza
persista bisogna che ci impegniamo interamente nella lotta fino
al punto di non pensare a noi stessi. Al di sopra di tutto,
voi, compagne, non seguite le indicazioni del vostro cuore,
e lasciate che continuino a combattere coloro che si trovano
sul fronte di Aragona. Non scrivetegli dando cattive notizie,
tenetevele per voi. Lasciateci combattere. Pensate che è
da tutti noi che dipende il futuro della Spagna e l’avvenire
dei nostri figli. Aiutateci ad essere forti in questa guerra
che esige da noi tutta la nostra volontà se vogliamo
vincere!
Compagni, le armi devono stare al fronte. Abbiamo bisogno di
tutte le armi per elevare una barriera di ferro contro il nemico.
Abbiate fiducia in noi. Le milizie non difenderanno mai gli
interessi della borghesia. Esse sono e saranno sempre l’avanguardia
proletaria in questa lotta che abbiamo intrapreso contro il
capitalismo. Il fascismo internazionale è deciso a vincere
la battaglia e noi dobbiamo essere decisi a non perderla. A
voi, lavoratori che mi ascoltate dietro le linee nemiche, vi
diciamo che il momento della vostra liberazione è vicino.
Le milizie libertarie avanzano e nulla e nessuno potrà
fermarle perché esse sono sospinte dalla volontà
di tutto un popolo. Collaborate anche voi alla nostra opera
sabotando l’industria bellica dei fascisti, creando centri di
resistenza e di guerriglia, sia in città che in montagna.
Combattete, tutti voi che potete, finché rimane una goccia
di sangue nelle vostre vene.
Lavoratori di Spagna, coraggio! Se sta scritto che nella vita
degli uomini vi è un momento in cui bisogna esporla,
diciamoci che questo momento è ormai arrivato ed è
oggi!
Compagni, siamo ottimisti. Ci accompagna il nostro ideale, che
è la nostra forza. Animo e avanti! Il fascismo non si
discute, ma si distrugge, perché fascismo e capitalismo
sono la stessa cosa!
Abel Paz, Durruti e la rivoluzione spagnola, t.2, Pisa
Ragusa Milano, edizioni BFS, La Fiaccola, Zero in condotta,
2000, pp. 115-116.
Buenaventura Durruti
Sull’invecchiamento
della rivoluzione
di Hans Magnus Enzensberger
Sono passati trentacinque anni dalla sconfitta della rivoluzione
spagnola. Chi ne vuole seguire la traccia, da un giorno all’altro,
deve leggere “Solidaridad Obrera”, in italiano “Solidarietà
Operaia”, a quel tempo il massimo quotidiano di Barcellona.
In una cantina sullo Herengracht di Amsterdam, ne troverà
i fogli ingialliti, in grosse cartelle polverose; e nei quattro
piani che la sovrastano, troverà tutto ciò che
è stato scritto, stampato e legato sulla rivoluzione
spagnola. L’Istituto per la Storia Sociale Internazionale ne
custodisce le vittorie e le sconfitte. Lettere e volantini,
decreti e deposizioni, plichi quasi in pezzi: una immortalità
malinconica. Ma qui non si trovano soltanto morte lettere alfabetiche,
ma anche le tracce dei sopravvissuti: biografie, ricordi, indirizzi.
Indizi che portano lontano: nei tristi sobborghi di Mexico City,
in villaggi sperduti della provincia francese, nelle mansarde
di Parigi, nei cortiletti interni dei quartieri operai di Barcellona,
nei miseri uffici della capitale argentina, nei fienili della
Guascogna.
Nell’esilio francese, l’ebanista Florentino Monroy, a settantacinque
anni, gira di castello in castello. Non ha pensioni di vecchiaia.
Vive dei rappezzi che fa agli armadi intarsiati dei decrepiti
aristocratici del circondario.
Dietro una drogheria dell’insonnolito sobborgo parigino di Choisy-le-Roi,
in un cortiletto alla Rue Chevreuil n.6, gli anarchici spagnoli
si sono fatta una piccola tipografia. Qui stampano manifesti
cinematografici per i grossi borghi del dipartimento e inviti
ai veglioni, ma anche le proprie riviste ed i propri opuscoli.
Da qualche parte nell’America latina lavora, in una piccola
casa editrice, Diego Abad de Santillàn, un tempo uno
degli uomini più potenti della Catalogna, poi critico
esacerbato della CNT, dalle cui file era uscito: un uomo sempre
pronto ad aiutarti, pacato, che non lascia mai spegnere la pipa.
Ricardo Sanz, operaio tessile di Valenza, uno dei vecchi Solidarios,
vive tutto solo, con quarantamila lire di rendita in un’oscura
casa contadina sulla Garonna; più di trent’anni fa, seguace
di Durruti, ha comandato una divisione di milizie anarchiche.
Mostra a chi va a fargli visita le reliquie della rivoluzione:
la maschera mortuaria di Durruti, le fotografie sul comò,
l’armadio alla parete riempito di esemplari dei suoi libri,
di cui lui stesso è editore.
La maggior parte, tuttavia, sono morti. Deve essere ancora in
vita Gregorio Jover, in qualche angolo dell’America centrale.
Altri sono dispersi.
In un vecchio cortile di fabbrica a Tolosa si può trovare
il quartier generale della CNT in esilio. Salendo due rampe
consunte si giunge alla “Segreteria Intercontinentale”. Accanto
ad una piccola libreria, ove si possono trovare strani opuscoli
degli anni trenta e quaranta ed i romanzi tra curiosi ed edificanti
della “Biblioteca Ideal”, Federica Montseny si è fatta
il proprio ufficio, nel quale rifinisce instancabilmente, come
decenni fa, i suoi discorsi ed i suoi articoli di fondo.
E’ un mondo a sé, geograficamente disseminato in lungo
e in largo, eppure assai ristretto; un mondo con le proprie
regole non scritte, il proprio codice di preferenze ed inclinazioni,
nel quale ciascuno è al corrente dei fatti dell’altro,
pur se non l’abbia visto da anni. Questo mondo dei vecchi compagni
non è rimasto immune dalla frustrazione, dalla gelosia,
dal disaccordo e dall’estraniamento, stigmate di tutte le emigrazioni.
L’età media è alta; le voci e le notizie hanno
vita facile e si mantengono tenacemente; le rimembranze si sono
coagulate da tempo; ciascuno ha appreso a memoria il proprio
ruolo negli anni decisivi; la caparbietà e le falle di
memoria all’età senile riscuotono il proprio tributo.
Ma questa rivoluzione battuta e invecchiata non ha perduto il
suo portamento eretto. L’anarchia spagnola, per la quale questi
uomini e queste donne hanno combattuto per tutta la loro vita,
non è mai stata una setta al margine della società,
una moda intellettuale, un borghese giocare col fuoco. E’ stata
un movimento proletario di massa. Ha meno a che vedere di quanto
lascino supporre manifesti e slogan col neo-anarchismo dei gruppi
studenteschi attuali. Questi ottantenni considerano con sentimenti
contrastanti la rinascenza che le loro idee hanno sperimentato
nella Parigi di maggio e altrove. Quasi tutti hanno lavorato
con le proprie mani per tutta la vita. Molti si recano ancora
oggi tutti i giorni al cantiere, alla fabbrica. Lavorano per
la maggior parte in piccole imprese. Con un certo orgoglio dichiarano
di non dipendere da nessuno, di continuare a guadagnarsi il
pane da sé, e ciascuno di loro è competente nel
proprio campo. Gli slogan della “società del tempo libero”,
le utopie dell’ozio restano loro estranee. Nelle loro casette
non c’è nulla di superfluo; lo sperpero e il feticismo
della merce gli sono sconosciuti. Conta unicamente il valore
d’uso. Vivono in una povertà che non li opprime. In silenzio,
senza polemica, ignorano le norme del consumo.
Il comportamento dei giovani rispetto alla cultura riesce loro
sospetto. Non riescono a comprendere lo scherno dei situazionisti
per tutto ciò che abbia sapore di “cultura formativa”.
Per questi vecchi operai la cultura è qualcosa di buono.
E non fa meraviglia, perché per conquistarsi l’alfabeto
hanno pagato sudore e sangue. Nelle loro oscure camerette non
ci sono televisori, ma libri. Non si sognerebbero neppure di
buttare a mare arte e scienza, sia pure di origine borghese.
Osservano, senza comprenderlo, l’analfabetismo di una “scena”,
il cui significato può cogliersi attraverso i fumetti
e il rock’n’roll. Sorvolano in silenzio sulla “liberazione sessuale”,
che prende alla lettera vetusti teoremi anarchici.
Questi rivoluzionari di un altro tempo sono invecchiati, ma
non danno alcuna impressione di stanchezza. Non sanno che cosa
sia la leggerezza. La loro morale è silenziosa, ma non
lascia spazio ad alcuna ambiguità. Non comprendono più
il mondo. La violenza è loro familiare, il piacere della
violenza è invece profondamente sospetto. Sono solitari
e diffidenti; ma non appena si superi la soglia che li separa
da noi, la soglia del loro esilio, si spalanca un mondo di soccorevolezza,
di ospitalità e di solidarietà. Chi li venga a
conoscere si meraviglia di quanto poco siano confusi, di quanto
poco siano esacerbati; assai meno dei loro più giovani
visitatori. Non sono dei malinconici; la loro cortesia è
proletaria. La loro dignità è quella di gente
che non ha mai capitolato. Non devono ringraziare nessuno. Nessuno
li ha “lanciati”. Non hanno ricevuto nulla, non hanno consumato
alcuna sovvenzione. Il benessere non li interessa. Sono incorruttibili.
La loro coscienza è intatta. Non sono minimamente sfasciati.
La loro salute fisica è eccellente. Non sono sbattuti,
non sono nevrotici, non hanno bisogno di droghe. Non si commiserano.
Non si pentono. Le loro sconfitte non hanno loro insegnato a
peggiorare. Sanno di aver compiuto errori, ma non ritirano nulla.
Gli antichi uomini della rivoluzione sono più forti di
tutto ciò che è venuto dopo di loro.
Hans Magnus Enzensberger, La breve estate dell’anarchia.
Vita e morte di Buenaventura Durruti, Milano, Feltrinelli,
1973, pp. 273-276.
Hans Magnus Enzensberger
I tram di Barcellona
di Gaston Leval
Il mezzo di locomozione più comune a Barcellona e dintorni,
era il tramway. Si contavano in totale sessanta linee che tagliavano
la città in tutti i sensi e raggiungevano i sobborghi.
Dei settemila lavoratori impiegati nell’impresa tranviaria,
seimila e cinquecento circa appartenevano al Sindacato dei Trasporti
Urbani della CNT che comprendeva, oltre la sezione
dei tramways, quella degli autobus, del métro (due linee
in tutto), dei taxi e le due funicolari di Tibidabo e della
Rebasada.
La rivoluzione del 19 luglio paralizzò tutti i mezzi
di trasporto, particolarmente i tramways, obbligati a seguire
linee in parte distrutte lungo strade ancora ostruite. I grandi
azionisti, membri del Consiglio amministrativo della Società,
non si preoccuparono di ristabilire il traffico. Decisero allora
di incaricarsene gli operai della sezione tranvieri. Le sezioni
degli autobus, del métro e della funicolare seguirono
il loro esempio. Quanto ai taxi, essi, interamente in mano ai
nostri compagni, non cessarono mai di funzionare.
Una commissione fu incaricata di sostituire il Consiglio Amministrativo
inefficiente. Ne facevano parte cinque militanti della CNT e
due della UGT, la quale non contava che cinquanta aderenti in
un primo tempo, prima cioè che i comunisti ne prendessero
le redini.
La Commissione si recò alla sede centrale della Compagnia
con fucili in mano e chiusa in un camion blindato, che era servito
a trasportare denaro, per difendersi eventualmente dall’attacco
delle Guardie Civili poste a custodia del caseggiato. Ma il
conflitto fu evitato. Ci furono parlamentari, scambi di telefonate
tra il comando di truppa e quello centrale, quindi l’evacuazione
pacifica.
Il Comitato sindacale frattanto aveva già riunito i delegati
delle differenti sezioni tecniche, i quali si trovarono d’accordo
nel decidere di rimettere in marcia i tramways.
Allora tutti i lavoratori furono convocati in assemblea generale
per mezzo della radio e della stampa. Nessuno mancò.
C’erano anche gli ingegneri che si misero al servizio del sindacato.
Dei gruppi percorsero la città per sbarazzare le vie,
aggiustare i binari, assicurare gli scambi automatici e i semafori.
Dopo solo cinque giorni, il 24 luglio, non più seicento
ma settecento tramways circolavano regolarmente, dipinti in
rosso e nero, con ai fianchi le iniziali CNT.
Gaston Leval, Né Franco né Stalin, Milano,
Istituto Editoriale Italiano, 1952, pp. 111-112
Gaston Leval
...e così entrai
nella CNT clandestina
di Enrique Castillo
Vorrei raccontare brevemente di come, negli anni della dittatura
di Primo de Rivera, venni ammesso a far parte della CNT.
Ero da poco arrivato a Barcellona dal mio paese, in Andalusia,
quando un giorno, passeggiando per l’Esplanada de Atarazanas,
mi soffermai ad una edicola a guardare dei libri, e particolarmente
alcuni a carattere sociale. Il libraio, accortosi di cosa stavo
osservando, si avvicinò e mi chiese se volevo veder altri
libri sull’argomento. Avuta risposta affermativa, tirò
fuori da sotto il banco diversi volumi che, disse, mi avrebbe
dato a prezzo di favore, raccomandandomene la lettura. Li comprai
e mi allontanai con tre o quattro libri, fra cui uno che egli
stesso mi regalò.
Arrivato a casa, cominciai a gettarvi qualche occhiata e mi
accorsi che si trattava di una letteratura per me totalmente
nuova; fui tanto assorbito dalla lettura che in una sera ne
lessi due. Da allora si produsse in me un fenomeno molto particolare,
scoprii un mondo totalmente diverso da quello che avevo conosciuto
fino allora, un mondo di combattimenti, di lotte, di scontri,
alcuni dei quali di una violenza notevole e questo provocò
in me una crescente ansia di leggere.
Lavoravo allora alla Hispano-Suiza, una fabbrica di automobili,
ed era tanta la mia voglia di sapere che leggevo perfino durante
le ore di mensa; ma dire che “leggevo” è poco: in realtà
divoravo quei libri, che rilessi diverse volte.
Osservai che, mentre leggevo, un uomo anziano ogni tanto mi
passava vicino e gettava un’occhiata al libro. La sua curiosità
mi pareva un po’ strana finché, alcuni giorni dopo, durante
il pasto, finì coll’avvicinarsi e mi chiese:
“Ehi, ragazzo: sembra che ti piace leggere...” “Già”.
Quando vide che genere di lettura avevo fra le mani sembrò
molto interessato a farmi avere, se ne volevo, altri libri.
Me ne prestò infatti due, e da allora mi prese, per così
dire, in stima: veniva a sedersi accanto a me e mi parlava.
Venni così a sapere che c’era stata e c’era ancora un’organizzazione
che si chiamava CNT. La mia curiosità era così
grande che non potei fare a meno di tornare dal libraio e domandargli:
“Senti un po’, ma questi della CNT, dove stanno?”
Mi disse che si trattava di un’organizzazione di lavoratori
che in quei tempi, a causa della dittatura militare, era clandestina
ma che... “Chissà ci sarà forse l’occasione di
trovare il modo...”
La mattina seguente, l’uomo che lavorava in fabbrica mi disse:
“Senti ragazzo, se tu vuoi sapere a proposito del sindacato
della CNT, posso accompagnarti domenica prossima a casa di un
amico che ti metterà in contatto con qualcun’altro..
Devi sapere che questa è una cosa che funziona, ma solo
clandestinamente.”
Con lo slancio dei vent’anni dissi immediatamente di si e ci
mettemmo d’accordo. Il giorno convenuto andammo a casa di un
amico, anche lui operaio nella nostra fabbrica: si vedeva che
il mio accompagnatore gli aveva già parlato di me perché
quando arrivai sembrava mi conoscesse già. Chiacchierammo
a lungo e mi fecero certe domande che, più che altro,
erano volte ad indagare su di me. Uscendo, restammo d’accordo
che la domenica seguente mi avrebbero accompagnato ad una riunione
della CNT del mio ramo.
Quella domenica andammo, usando qualche precauzione, in un caffè.
Sul retro c’era una sala interna e da lì un passaggio
che portava alla sede del sindacato. Ero arrivato: vi trovai
diversi altri giovani che lavoravano con me.
Diverso tempo dopo venni inviato come rappresentante del mio
sindacato ad una riunione regionale catalana; era la mia prima
esperienza in un convegno ed avveniva qualche mese dopo l’instaurazione
della Repubblica. Uscii da quella serie di riunioni, che ebbero
luogo a Lerida, con una notevole quantità di esperienza;
mi fecero capire ciò di cui all’interno della CNT si
mormorava molto ma che non veniva mai discusso in forma chiara:
compresi cioè che esisteva uno scisma di una certa profondità
(allora non avrei saputo dire quanto), delle interpretazioni
totalmente distinte, fra i militanti di rilievo della CNT a
proposito dell’orientamento della sua attività. Di conseguenza
per la prima volta si presentò anche a me il problema
di delineare il tipo di orientamento che doveva tenere l’organizzazione
che, a mio giudizio, era la più importante della Spagna.
Questo era probabilmente dovuto al fatto che io avevo letto
Bakunin, Kropotkin, Anselmo Lorenzo e altri, prima di far parte
della CNT; avevo abbracciato spiritualmente un’idea prima di
entrare nella lotta sindacale. Era perciò naturale che
mi dicessi che la lotta sindacale non deve limitarsi a conquistare
miglioramenti passeggeri per i lavoratori, ma deve dar loro
una formazione di tipo ideologico che sappia anteporre all’egoismo
dei miglioramenti momentanei la necessità di forgiarsi
una visione del futuro, attraverso la lettura di libri che trattano
la messa in pratica dell’ideologia libertaria.
Questo fu il primo problema serio che mi si pose, e devo dire
che se il fatto di essermi fissato un criterio è stato
per me in varie occasioni motivo di soddisfazione, mi è
anche costato molti dissapori e dispiaceri. La conclusione finale
alla quale arrivai è questa: il fatto che moltitudini
di indigenti e sfruttati dalla terra, dalla miniera o
dalla fabbrica si amalgamino in unità chiamate
sindacati, unioni o altro ha poco significato se questi uomini
si prefiggono soltanto dei miglioramenti economici e non, per
certi aspetti, morali: perché abbia un valore il sindacato
deve essere secondo me una fucina, una forgia, un’università
che illumini il cammino dei lavoratori e apra nelle loro menti
quegli orizzonti che gli permettano ognuno nella sfera
delle sue proprie attività di essere un positivo
elemento di trasformazione sociale. Il lavoratore deve insomma
preoccuparsi di sapere in che cosa consiste l’organizzazione
della vita lavorativa, quanto vale il lavoro che egli realizza
e, associato agli altri lavoratori, quanto vale il tutto nella
società; deve sapere che cosa significa un’economia locale,
regionale e nazionale nell’attività di cui fa parte,
e della quale il controllo è stato finora privilegio
dei proprietari dei mezzi di produzione; deve in definitiva
studiare il tipo di lavoro che svolge allo scopo di sapere cosa
fare il giorno in cui la distribuzione delle ricchezze da lui
stesso prodotte sarà nelle sue mani...
AA. VV., Chi c’era racconta, la Rivoluzione Libertaria nella
Spagna del 1936, Milano, Zero in Condotta, 1996, pp. 23-25
Enrique Castillo
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