rivista anarchica
anno 31 n. 276
novembre 2001


anarchici

Ritratti in piedi
Dialoghi fra storia e letteratura

a cura di Massimo Ortalli

Buenaventura Durruti

La galleria degli anarchici offre una grande varietà di tipologie. Siano principi o proletari, intellettuali o analfabeti, uomini d’azione o pensatori, le loro vite, spese in epoche, terre e situazioni distanti e diverse fra loro, hanno però sempre un comune denominatore, quello della profonda e intrinseca identità fra pensiero e azione, fra ideale e comportamento.
Hans Magnus Enzensberger, il grande scrittore tedesco dal profondo impegno civile, nel suo avvincente La breve estate dell’anarchia, ricostruisce in chiave di biografia romanzata la vita di colui che ha rappresentato compiutamente, nell’immaginario del proletariato internazionale, il personaggio puro ed “eroico” dell’anarchismo: lo spagnolo Buenaventura Durruti. Poiché si tratta di una vita troppo intensa e ricca di storia e di storie per poterla esaurire in poche righe, mi limiterò a fornirne una sommaria traccia, rimandando il lettore sia al libro di Enzensberger, ancora reperibile nella Economica Feltrinelli, sia alla monumentale biografia in due volumi dell’anarchico spagnolo Abel Paz (pseudonimo di Diego Camacho), uscita nel 1999-2000 nella coedizione Bfs, La Fiaccola, Zero in Condotta. Poi alla bella edizione quadrilingue (anche in italiano) ricchissima di illustrazioni, pubblicata nel 1996 da cinque editrici anarchiche europee, fra cui la milanese Zero in Condotta.
Nato nel 1896 a Leòn in una famiglia operaia, a soli 17 anni Durruti è già sindacalista attivo nell’Unione dei Metalmeccanici. Distintosi per l’estremistica tenacia profusa nelle lotte operaie dell’epoca, attira inevitabilmente le attenzioni della polizia. Dopo essere riparato in Francia, al rientro in Spagna nel 1919 aderisce alla centrale anarcosindacalista Cnt. Nel radicalizzarsi delle lotte operaie degli anni Venti, che vedono la feroce reazione padronale, Durruti, assieme a Francisco Ascaso e ad altri giovani anarchici pronti all’azione, inizia la sua lunga battaglia contro il potere. Per anni la vita sua e dei suoi compagni, braccati dalle polizie di mezzo mondo e dai pistoleros al soldo dei padroni, correrà sul filo dell’esilio, della prigione e delle avventurose peregrinazioni in Europa e in America. La radicalità della lotta fa sì che spesso le loro azioni vengano a porsi su un piano illegalitario, ma questo non comporta mai un’adesione anche “ideologica”; il pensiero di Durruti e dei suoi compagni, infatti, sarà sempre attento alla visione sociale e collettiva dell’anarchismo, senza indulgere a un individualismo confinante con l’immoralismo borghese. Rientrato in Spagna nel 1931, dopo la costituzione della Repubblica, partecipa alle agitazioni di massa che scuotono il paese, e ancora conosce la prigione e la deportazione. Gli anni che precedono il sollevamento militare del 1936 sono segnati da una lunga serie di tentativi insurrezionali e dalle pesanti risposte governative; e la ginnastica rivoluzionaria, patrimonio di decine di migliaia di anarchici, diventa pratica quotidiana di Durruti e del suo gruppo. Il 19 luglio 1936, quando il proletariato spagnolo si oppone in armi al golpe militare, Durruti e Ascaso sono fra i primi ad accorrere in difesa della rivoluzione, mettendo la loro grande esperienza al suo servizio. Francisco Ascaso, l’amico fraterno di una vita, è fra i primi a cadere, in quello stesso giorno, nell’assalto alla caserma Atarazanas. Il 24 luglio Durruti assume il comando di una delle prime colonne di miliziani anarchici e parte alla volta di Saragozza. Fra l’entusiasmo di un popolo che finalmente diventa artefice del proprio destino, il passaggio della colonna contribuisce alla nascita e al grandioso sviluppo della collettivizzazione delle terre. Chiamata dal governo a difesa di Madrid assediata, la colonna giunge nella capitale nel novembre del 1936. Impegnata in sanguinosi combattimenti, vede i propri effettivi pesantemente decimati e lo stesso Durruti, il leggendario Durruti, muore pochi giorni dopo colpito al cuore. Oggi nessuno può dire con certezza da dove sia partito il colpo che lo ha ucciso, se dal fronte nemico o da qualche postazione in mano ai comunisti spagnoli. Due cose però sono certe, la prima è che presto gli stalinisti inizieranno “l’epurazione degli anarchici e dei trotzkisti”, la seconda è che ai funerali di Buenaventura Durruti, nella rivoluzionaria Barcellona, più di un milione di persone ne seguirà il feretro.
Se la vita di Durruti è stata eccezionale per la eccezionalità delle sue avventure, il suo sentire era invece quello di migliaia di altri operai e contadini che “portavano un mondo nuovo nei loro cuori”. Non un mondo di pura retorica, ma un mondo che ha reso reale un sogno di libertà nelle campagne e nelle fabbriche spagnole, il sogno di vivere finalmente senza schiavi e senza padroni.
In questo numero della rivista, accanto ad alcune pagine nelle quali Enzensberger racconta degli anarchici spagnoli esiliati in Francia, e oltre al discorso che il nostro “ritratto in piedi” rivolse ai miliziani nei primi giorni di combattimento, riporto anche due brevi, significative testimonianze. La prima è dell’anarchico francese Gaston Leval, che illustra la concretezza dell’anarchismo nella Catalogna rivoluzionaria descrivendo con efficacia la collettivizzazione dei trasporti a Barcellona. La seconda è nelle parole di Enrique Castillo, un militante “qualsiasi” di una generazione che, nella sua modestia e semplicità, ha saputo rendere viva e concreta la progettualità anarchica. Una generazione, ed un progetto, battuti solo dalla infame alleanza che sui campi di battaglia spagnoli vide il fascismo internazionale, lo stalinismo e le democrazie occidentali uniti per sconfiggere un proletariato che stava dimostrando che il sogno non era utopia. Una generazione, comunque, vittoriosa.

Massimo Ortalli


Siamo ottimisti!
di Buenaventura Durruti

Compagni, sul fronte aragonese le milizie operaie non stanno inattive: attaccano, sconfiggono il nemico e guadagnano terreno per la causa rivoluzionaria; ma questo è solo il preludio della grande offensiva che le milizie intraprenderanno su tutto il fronte dell’Aragona. Anche voi, lavoratori di Spagna, avete un’importante missione da compiere, perché la rivoluzione non si raggiunge né si assicura solo sparando, ma producendo. Non esiste né fronte né retrovia, perché tutti noi formiamo un solo blocco che deve combattere unito per raggiungere lo stesso obiettivo. E il nostro obiettivo non può essere altro che costruire una Spagna rappresentativa della classe operaia.
I lavoratori che combattono oggi sul fronte e nelle retrovie non lo fanno per difendere i privilegi della borghesia, bensì per il diritto di vivere con dignità. L’autentica forza della Spagna sta nella sua classe operaia e nelle sue organizzazioni. Dopo la vittoria, la CNT e la UGT discuteranno e si accorderanno sui modi e gli orientamenti economici e politici della Spagna.
Noi che siamo sul campo di battaglia, non ci battiamo per ottenere decorazioni. Non lottiamo per essere deputati o ministri. Quando otterremo la vittoria e ritorneremo dai fronti nelle città e nei paesi, riprenderemo i nostri posti che avevamo lasciato nelle fabbriche, nelle officine, nelle campagne e nelle miniere. La nostra grande vittoria sarà quella che vinceremo sul posto di lavoro. (...)
Noi siamo contadini e seminiamo nonostante le tempeste che possono scoppiare e mettere in pericolo i nostri raccolti; siamo preparati e sappiamo come combatterle. Le messi sono mature. Immagazziniamo il grano! E sarà per tutti e nella distribuzione non vi saranno privilegi. Al momento della divisione, né Azaña né Caballero né Durutti avranno diritto a una parte maggiore. Il raccolto appartiene a tutti, a tutti coloro che lavorano in maniera continua e sincera ponendo tutta la loro capacità, volontà e forza perché il raccolto non ci venga rubato.
Lavoratori di Catalogna, qualche giorno fa da Sariñena mi sono rivolto a voi per esprimervi l’orgoglio che io provavo rappresentandovi sul fronte di Aragona: e vi dicevo anche che noi saremmo stati degni della fiducia che avevate riposto nei nostri fucili e in noi. Ma perché questa fiducia e fratellanza persista bisogna che ci impegniamo interamente nella lotta fino al punto di non pensare a noi stessi. Al di sopra di tutto, voi, compagne, non seguite le indicazioni del vostro cuore, e lasciate che continuino a combattere coloro che si trovano sul fronte di Aragona. Non scrivetegli dando cattive notizie, tenetevele per voi. Lasciateci combattere. Pensate che è da tutti noi che dipende il futuro della Spagna e l’avvenire dei nostri figli. Aiutateci ad essere forti in questa guerra che esige da noi tutta la nostra volontà se vogliamo vincere!
Compagni, le armi devono stare al fronte. Abbiamo bisogno di tutte le armi per elevare una barriera di ferro contro il nemico. Abbiate fiducia in noi. Le milizie non difenderanno mai gli interessi della borghesia. Esse sono e saranno sempre l’avanguardia proletaria in questa lotta che abbiamo intrapreso contro il capitalismo. Il fascismo internazionale è deciso a vincere la battaglia e noi dobbiamo essere decisi a non perderla. A voi, lavoratori che mi ascoltate dietro le linee nemiche, vi diciamo che il momento della vostra liberazione è vicino. Le milizie libertarie avanzano e nulla e nessuno potrà fermarle perché esse sono sospinte dalla volontà di tutto un popolo. Collaborate anche voi alla nostra opera sabotando l’industria bellica dei fascisti, creando centri di resistenza e di guerriglia, sia in città che in montagna. Combattete, tutti voi che potete, finché rimane una goccia di sangue nelle vostre vene.
Lavoratori di Spagna, coraggio! Se sta scritto che nella vita degli uomini vi è un momento in cui bisogna esporla, diciamoci che questo momento è ormai arrivato ed è oggi!
Compagni, siamo ottimisti. Ci accompagna il nostro ideale, che è la nostra forza. Animo e avanti! Il fascismo non si discute, ma si distrugge, perché fascismo e capitalismo sono la stessa cosa!

Abel Paz, Durruti e la rivoluzione spagnola, t.2, Pisa Ragusa Milano, edizioni BFS, La Fiaccola, Zero in condotta, 2000, pp. 115-116.

Buenaventura Durruti

Sull’invecchiamento
della rivoluzione
di Hans Magnus Enzensberger

Sono passati trentacinque anni dalla sconfitta della rivoluzione spagnola. Chi ne vuole seguire la traccia, da un giorno all’altro, deve leggere “Solidaridad Obrera”, in italiano “Solidarietà Operaia”, a quel tempo il massimo quotidiano di Barcellona. In una cantina sullo Herengracht di Amsterdam, ne troverà i fogli ingialliti, in grosse cartelle polverose; e nei quattro piani che la sovrastano, troverà tutto ciò che è stato scritto, stampato e legato sulla rivoluzione spagnola. L’Istituto per la Storia Sociale Internazionale ne custodisce le vittorie e le sconfitte. Lettere e volantini, decreti e deposizioni, plichi quasi in pezzi: una immortalità malinconica. Ma qui non si trovano soltanto morte lettere alfabetiche, ma anche le tracce dei sopravvissuti: biografie, ricordi, indirizzi. Indizi che portano lontano: nei tristi sobborghi di Mexico City, in villaggi sperduti della provincia francese, nelle mansarde di Parigi, nei cortiletti interni dei quartieri operai di Barcellona, nei miseri uffici della capitale argentina, nei fienili della Guascogna.
Nell’esilio francese, l’ebanista Florentino Monroy, a settantacinque anni, gira di castello in castello. Non ha pensioni di vecchiaia. Vive dei rappezzi che fa agli armadi intarsiati dei decrepiti aristocratici del circondario.
Dietro una drogheria dell’insonnolito sobborgo parigino di Choisy-le-Roi, in un cortiletto alla Rue Chevreuil n.6, gli anarchici spagnoli si sono fatta una piccola tipografia. Qui stampano manifesti cinematografici per i grossi borghi del dipartimento e inviti ai veglioni, ma anche le proprie riviste ed i propri opuscoli.
Da qualche parte nell’America latina lavora, in una piccola casa editrice, Diego Abad de Santillàn, un tempo uno degli uomini più potenti della Catalogna, poi critico esacerbato della CNT, dalle cui file era uscito: un uomo sempre pronto ad aiutarti, pacato, che non lascia mai spegnere la pipa.
Ricardo Sanz, operaio tessile di Valenza, uno dei vecchi Solidarios, vive tutto solo, con quarantamila lire di rendita in un’oscura casa contadina sulla Garonna; più di trent’anni fa, seguace di Durruti, ha comandato una divisione di milizie anarchiche. Mostra a chi va a fargli visita le reliquie della rivoluzione: la maschera mortuaria di Durruti, le fotografie sul comò, l’armadio alla parete riempito di esemplari dei suoi libri, di cui lui stesso è editore.
La maggior parte, tuttavia, sono morti. Deve essere ancora in vita Gregorio Jover, in qualche angolo dell’America centrale. Altri sono dispersi.
In un vecchio cortile di fabbrica a Tolosa si può trovare il quartier generale della CNT in esilio. Salendo due rampe consunte si giunge alla “Segreteria Intercontinentale”. Accanto ad una piccola libreria, ove si possono trovare strani opuscoli degli anni trenta e quaranta ed i romanzi tra curiosi ed edificanti della “Biblioteca Ideal”, Federica Montseny si è fatta il proprio ufficio, nel quale rifinisce instancabilmente, come decenni fa, i suoi discorsi ed i suoi articoli di fondo.
E’ un mondo a sé, geograficamente disseminato in lungo e in largo, eppure assai ristretto; un mondo con le proprie regole non scritte, il proprio codice di preferenze ed inclinazioni, nel quale ciascuno è al corrente dei fatti dell’altro, pur se non l’abbia visto da anni. Questo mondo dei vecchi compagni non è rimasto immune dalla frustrazione, dalla gelosia, dal disaccordo e dall’estraniamento, stigmate di tutte le emigrazioni. L’età media è alta; le voci e le notizie hanno vita facile e si mantengono tenacemente; le rimembranze si sono coagulate da tempo; ciascuno ha appreso a memoria il proprio ruolo negli anni decisivi; la caparbietà e le falle di memoria all’età senile riscuotono il proprio tributo.
Ma questa rivoluzione battuta e invecchiata non ha perduto il suo portamento eretto. L’anarchia spagnola, per la quale questi uomini e queste donne hanno combattuto per tutta la loro vita, non è mai stata una setta al margine della società, una moda intellettuale, un borghese giocare col fuoco. E’ stata un movimento proletario di massa. Ha meno a che vedere di quanto lascino supporre manifesti e slogan col neo-anarchismo dei gruppi studenteschi attuali. Questi ottantenni considerano con sentimenti contrastanti la rinascenza che le loro idee hanno sperimentato nella Parigi di maggio e altrove. Quasi tutti hanno lavorato con le proprie mani per tutta la vita. Molti si recano ancora oggi tutti i giorni al cantiere, alla fabbrica. Lavorano per la maggior parte in piccole imprese. Con un certo orgoglio dichiarano di non dipendere da nessuno, di continuare a guadagnarsi il pane da sé, e ciascuno di loro è competente nel proprio campo. Gli slogan della “società del tempo libero”, le utopie dell’ozio restano loro estranee. Nelle loro casette non c’è nulla di superfluo; lo sperpero e il feticismo della merce gli sono sconosciuti. Conta unicamente il valore d’uso. Vivono in una povertà che non li opprime. In silenzio, senza polemica, ignorano le norme del consumo.
Il comportamento dei giovani rispetto alla cultura riesce loro sospetto. Non riescono a comprendere lo scherno dei situazionisti per tutto ciò che abbia sapore di “cultura formativa”. Per questi vecchi operai la cultura è qualcosa di buono. E non fa meraviglia, perché per conquistarsi l’alfabeto hanno pagato sudore e sangue. Nelle loro oscure camerette non ci sono televisori, ma libri. Non si sognerebbero neppure di buttare a mare arte e scienza, sia pure di origine borghese. Osservano, senza comprenderlo, l’analfabetismo di una “scena”, il cui significato può cogliersi attraverso i fumetti e il rock’n’roll. Sorvolano in silenzio sulla “liberazione sessuale”, che prende alla lettera vetusti teoremi anarchici.
Questi rivoluzionari di un altro tempo sono invecchiati, ma non danno alcuna impressione di stanchezza. Non sanno che cosa sia la leggerezza. La loro morale è silenziosa, ma non lascia spazio ad alcuna ambiguità. Non comprendono più il mondo. La violenza è loro familiare, il piacere della violenza è invece profondamente sospetto. Sono solitari e diffidenti; ma non appena si superi la soglia che li separa da noi, la soglia del loro esilio, si spalanca un mondo di soccorevolezza, di ospitalità e di solidarietà. Chi li venga a conoscere si meraviglia di quanto poco siano confusi, di quanto poco siano esacerbati; assai meno dei loro più giovani visitatori. Non sono dei malinconici; la loro cortesia è proletaria. La loro dignità è quella di gente che non ha mai capitolato. Non devono ringraziare nessuno. Nessuno li ha “lanciati”. Non hanno ricevuto nulla, non hanno consumato alcuna sovvenzione. Il benessere non li interessa. Sono incorruttibili. La loro coscienza è intatta. Non sono minimamente sfasciati. La loro salute fisica è eccellente. Non sono sbattuti, non sono nevrotici, non hanno bisogno di droghe. Non si commiserano. Non si pentono. Le loro sconfitte non hanno loro insegnato a peggiorare. Sanno di aver compiuto errori, ma non ritirano nulla. Gli antichi uomini della rivoluzione sono più forti di tutto ciò che è venuto dopo di loro.

Hans Magnus Enzensberger, La breve estate dell’anarchia. Vita e morte di Buenaventura Durruti, Milano, Feltrinelli, 1973, pp. 273-276.

Hans Magnus Enzensberger

I tram di Barcellona
di Gaston Leval

Il mezzo di locomozione più comune a Barcellona e dintorni, era il tramway. Si contavano in totale sessanta linee che tagliavano la città in tutti i sensi e raggiungevano i sobborghi. Dei settemila lavoratori impiegati nell’impresa tranviaria, seimila e cinquecento circa appartenevano al Sindacato dei Trasporti Urbani – della CNT – che comprendeva, oltre la sezione dei tramways, quella degli autobus, del métro (due linee in tutto), dei taxi e le due funicolari di Tibidabo e della Rebasada.
La rivoluzione del 19 luglio paralizzò tutti i mezzi di trasporto, particolarmente i tramways, obbligati a seguire linee in parte distrutte lungo strade ancora ostruite. I grandi azionisti, membri del Consiglio amministrativo della Società, non si preoccuparono di ristabilire il traffico. Decisero allora di incaricarsene gli operai della sezione tranvieri. Le sezioni degli autobus, del métro e della funicolare seguirono il loro esempio. Quanto ai taxi, essi, interamente in mano ai nostri compagni, non cessarono mai di funzionare.
Una commissione fu incaricata di sostituire il Consiglio Amministrativo inefficiente. Ne facevano parte cinque militanti della CNT e due della UGT, la quale non contava che cinquanta aderenti in un primo tempo, prima cioè che i comunisti ne prendessero le redini.
La Commissione si recò alla sede centrale della Compagnia con fucili in mano e chiusa in un camion blindato, che era servito a trasportare denaro, per difendersi eventualmente dall’attacco delle Guardie Civili poste a custodia del caseggiato. Ma il conflitto fu evitato. Ci furono parlamentari, scambi di telefonate tra il comando di truppa e quello centrale, quindi l’evacuazione pacifica.
Il Comitato sindacale frattanto aveva già riunito i delegati delle differenti sezioni tecniche, i quali si trovarono d’accordo nel decidere di rimettere in marcia i tramways.
Allora tutti i lavoratori furono convocati in assemblea generale per mezzo della radio e della stampa. Nessuno mancò. C’erano anche gli ingegneri che si misero al servizio del sindacato.
Dei gruppi percorsero la città per sbarazzare le vie, aggiustare i binari, assicurare gli scambi automatici e i semafori. Dopo solo cinque giorni, il 24 luglio, non più seicento ma settecento tramways circolavano regolarmente, dipinti in rosso e nero, con ai fianchi le iniziali CNT.

Gaston Leval, Né Franco né Stalin, Milano, Istituto Editoriale Italiano, 1952, pp. 111-112

Gaston Leval

...e così entrai
nella CNT clandestina
di Enrique Castillo

Vorrei raccontare brevemente di come, negli anni della dittatura di Primo de Rivera, venni ammesso a far parte della CNT.
Ero da poco arrivato a Barcellona dal mio paese, in Andalusia, quando un giorno, passeggiando per l’Esplanada de Atarazanas, mi soffermai ad una edicola a guardare dei libri, e particolarmente alcuni a carattere sociale. Il libraio, accortosi di cosa stavo osservando, si avvicinò e mi chiese se volevo veder altri libri sull’argomento. Avuta risposta affermativa, tirò fuori da sotto il banco diversi volumi che, disse, mi avrebbe dato a prezzo di favore, raccomandandomene la lettura. Li comprai e mi allontanai con tre o quattro libri, fra cui uno che egli stesso mi regalò.
Arrivato a casa, cominciai a gettarvi qualche occhiata e mi accorsi che si trattava di una letteratura per me totalmente nuova; fui tanto assorbito dalla lettura che in una sera ne lessi due. Da allora si produsse in me un fenomeno molto particolare, scoprii un mondo totalmente diverso da quello che avevo conosciuto fino allora, un mondo di combattimenti, di lotte, di scontri, alcuni dei quali di una violenza notevole e questo provocò in me una crescente ansia di leggere.
Lavoravo allora alla Hispano-Suiza, una fabbrica di automobili, ed era tanta la mia voglia di sapere che leggevo perfino durante le ore di mensa; ma dire che “leggevo” è poco: in realtà divoravo quei libri, che rilessi diverse volte.
Osservai che, mentre leggevo, un uomo anziano ogni tanto mi passava vicino e gettava un’occhiata al libro. La sua curiosità mi pareva un po’ strana finché, alcuni giorni dopo, durante il pasto, finì coll’avvicinarsi e mi chiese:
“Ehi, ragazzo: sembra che ti piace leggere...” “Già”.
Quando vide che genere di lettura avevo fra le mani sembrò molto interessato a farmi avere, se ne volevo, altri libri. Me ne prestò infatti due, e da allora mi prese, per così dire, in stima: veniva a sedersi accanto a me e mi parlava. Venni così a sapere che c’era stata e c’era ancora un’organizzazione che si chiamava CNT. La mia curiosità era così grande che non potei fare a meno di tornare dal libraio e domandargli:
“Senti un po’, ma questi della CNT, dove stanno?”
Mi disse che si trattava di un’organizzazione di lavoratori che in quei tempi, a causa della dittatura militare, era clandestina ma che... “Chissà ci sarà forse l’occasione di trovare il modo...”
La mattina seguente, l’uomo che lavorava in fabbrica mi disse:
“Senti ragazzo, se tu vuoi sapere a proposito del sindacato della CNT, posso accompagnarti domenica prossima a casa di un amico che ti metterà in contatto con qualcun’altro.. Devi sapere che questa è una cosa che funziona, ma solo clandestinamente.”
Con lo slancio dei vent’anni dissi immediatamente di si e ci mettemmo d’accordo. Il giorno convenuto andammo a casa di un amico, anche lui operaio nella nostra fabbrica: si vedeva che il mio accompagnatore gli aveva già parlato di me perché quando arrivai sembrava mi conoscesse già. Chiacchierammo a lungo e mi fecero certe domande che, più che altro, erano volte ad indagare su di me. Uscendo, restammo d’accordo che la domenica seguente mi avrebbero accompagnato ad una riunione della CNT del mio ramo.
Quella domenica andammo, usando qualche precauzione, in un caffè. Sul retro c’era una sala interna e da lì un passaggio che portava alla sede del sindacato. Ero arrivato: vi trovai diversi altri giovani che lavoravano con me.
Diverso tempo dopo venni inviato come rappresentante del mio sindacato ad una riunione regionale catalana; era la mia prima esperienza in un convegno ed avveniva qualche mese dopo l’instaurazione della Repubblica. Uscii da quella serie di riunioni, che ebbero luogo a Lerida, con una notevole quantità di esperienza; mi fecero capire ciò di cui all’interno della CNT si mormorava molto ma che non veniva mai discusso in forma chiara: compresi cioè che esisteva uno scisma di una certa profondità (allora non avrei saputo dire quanto), delle interpretazioni totalmente distinte, fra i militanti di rilievo della CNT a proposito dell’orientamento della sua attività. Di conseguenza per la prima volta si presentò anche a me il problema di delineare il tipo di orientamento che doveva tenere l’organizzazione che, a mio giudizio, era la più importante della Spagna. Questo era probabilmente dovuto al fatto che io avevo letto Bakunin, Kropotkin, Anselmo Lorenzo e altri, prima di far parte della CNT; avevo abbracciato spiritualmente un’idea prima di entrare nella lotta sindacale. Era perciò naturale che mi dicessi che la lotta sindacale non deve limitarsi a conquistare miglioramenti passeggeri per i lavoratori, ma deve dar loro una formazione di tipo ideologico che sappia anteporre all’egoismo dei miglioramenti momentanei la necessità di forgiarsi una visione del futuro, attraverso la lettura di libri che trattano la messa in pratica dell’ideologia libertaria.
Questo fu il primo problema serio che mi si pose, e devo dire che se il fatto di essermi fissato un criterio è stato per me in varie occasioni motivo di soddisfazione, mi è anche costato molti dissapori e dispiaceri. La conclusione finale alla quale arrivai è questa: il fatto che moltitudini di indigenti e sfruttati – dalla terra, dalla miniera o dalla fabbrica – si amalgamino in unità chiamate sindacati, unioni o altro ha poco significato se questi uomini si prefiggono soltanto dei miglioramenti economici e non, per certi aspetti, morali: perché abbia un valore il sindacato deve essere secondo me una fucina, una forgia, un’università che illumini il cammino dei lavoratori e apra nelle loro menti quegli orizzonti che gli permettano – ognuno nella sfera delle sue proprie attività – di essere un positivo elemento di trasformazione sociale. Il lavoratore deve insomma preoccuparsi di sapere in che cosa consiste l’organizzazione della vita lavorativa, quanto vale il lavoro che egli realizza e, associato agli altri lavoratori, quanto vale il tutto nella società; deve sapere che cosa significa un’economia locale, regionale e nazionale nell’attività di cui fa parte, e della quale il controllo è stato finora privilegio dei proprietari dei mezzi di produzione; deve in definitiva studiare il tipo di lavoro che svolge allo scopo di sapere cosa fare il giorno in cui la distribuzione delle ricchezze da lui stesso prodotte sarà nelle sue mani...

AA. VV., Chi c’era racconta, la Rivoluzione Libertaria nella Spagna del 1936, Milano, Zero in Condotta, 1996, pp. 23-25

Enrique Castillo