Secondo la maggior parte dei commentatori,
la cinquantatreesima edizione della fiera del libro di Francoforte
si sarebbe svolta “in tono dimesso”, soprattutto in seguito
alla mancata partecipazione di molti editori , in primo luogo
americani, a causa del “clima politico internazionale”. Qualche
cifra, però, mette in evidenza una situazione meno negativa.
Dei 6700 espositori che avevano annunciato la propria partecipazione,
solo 56 hanno disdetto l’iscrizione e di questi 34 erano editori
o agenti americani. I paesi partecipanti sono stati 105 (due
in meno rispetto all’anno precedente), i titoli presentati poco
meno di quattrocentomila, un quarto dei quali era costituito
da novità. Un segno importante delle tendenze attuali
del settore era dato dalla presenza di prodotti elettronici:
ben 2230 case editrici avevano in catalogo e-book o altri prodotti
digitali. Se mai l’incertezza e la paura hanno tenuto a casa
molti possibili visitatori, che sono stati circa 250.000, con
un calo del 14 per cento rispetto all’edizione del 2000. Va
detto, però, che la Buchmesse è insieme un salone
e una fiera: da una parte ci sono operatori che sono lì
per vendere o acquistare diritti, per proporre progetti editoriali,
per organizzare coedizioni, per cercare distributori dall’altra
ci sono semplicemente persone che visitano la fiera per pura
curiosità, perché sanno di trovarvi un quadro
complessivo di quanto l’industria editoriale ha prodotto nel
corso di un anno.
L’impressione è poi che l’assenza di qualche editore
americano non sia stata troppo rimpianta. Erano in tanti a dire:
“Oramai gli americani vengono a Francoforte, come alla fiera
del libro per ragazzi di Bologna, solo per vendere.” Lo attesta
anche una ricerca promossa da un editore italiano sul numero
di “best sellers” tradotti nei vari paesi. Le percentuali (cito
a memoria) indicano che in Spagna circa il 40 per cento dei
“più venduti” è costituito da opere tradotte da
altre lingue, in Italia la cifra è intorno al 25 per
cento, in Francia e in Germania non arriva al 15 per cento,
in Gran Bretagna è nettamente inferiore al 10 per cento.
Negli Stati Uniti è pari a zero, il che significa che
un editore americano che decide di pubblicare una traduzione
sa a priori che non ne farà un best seller. Una prova
di più della distanza culturale che si sta allargando
tra le due rive dell’Atlantico.
Una tendenza che invece è confermata è quella
della concentrazione e il calo nel numero dei partecipanti è
forse soprattutto dovuto a questo. Basti pensare che il principale
gruppo editoriale, Bertelsmann, oggi comprende marchi e gruppi
come Random House, che a sua volta controlla Ballantine, Bentam
Dell, Crown, Doubleday, Knopf, Prima, Pantheon, mentre direttamente
da Bertelsmann dipendono le case editrici tedesche Springer,
Gruner + Jahr, Goldman, Berlin, Siedler, K. Blessing, le inglesi
Ebury e Transworld, la spagnola Plaza y Yanez, l’argentina Sudamericana.
Tutti questi marchi sono poi a loro volta legati in varie forme
ad altri, con un intrico difficile da dipanare, ma che fa ritenere
che il gruppo nel suo insieme controlli una quota determinante
del mercato librario globale. Sono noti anche i tentativi di
penetrare in Italia, il cui indizio più chiaro è
un’alleanza con il gruppo Mondadori per lo sviluppo del mercato
multimediale. Nel padiglione della fiera che ospitava le case
editrici francesi era impressionante lo spazio occupato dalle
case controllate dal gruppo Vivendi, che vanta nel suo paniere,
fra gli altri, i marchi di Nathan, Bordas, Larousse, La Découverte,
Le Robert, Dalloz, Dunod, Houghton Mifflin, il gruppo spagnolo
Anaya, le brasiliane Atica e Scipione, Coktel, Knowledge Adventure,
Robert Laffont, Plon-Perrin, Pocket, 10/18 e che proprio in
ottobre ha annunciato l’acquisizione della Houghton Mifflin,
la più importante casa editrice scolastica degli Stati
Uniti.
Una strana comunità
Nei numeri precedenti di “A” credo di avere spiegato a sufficienza
quanto, a mio modo di vedere, questa tendenza alla concentrazione,
e la logica globalizzante che le sta dietro, siano deleterie
per la qualità della produzione libraria. Ma mi sia permessa
una dichiarazione d’affetto per la fiera di Francoforte. Nei
quasi vent’anni che la frequento, mi sono convinto che, per
fortuna, esiste una controtendenza. Questa è sostenuta
dal numero enorme di editori indipendenti che continuano a nascere,
a resistere e a battersi con una prospettiva che trascende quella
del puro profitto. Ma nel mondo dell’editoria, anche all’interno
dei grandi gruppi, sono tantissime le persone che cercano di
dare un senso al proprio lavoro di mediatori culturali e che
conducono battaglie quotidiane, che sono quelle che fanno sì
che ogni tanto, in libreria, noi possiamo scoprire un bel romanzo,
un saggio illuminante, un prezioso volume illustrato. Esiste,
per esempio, una strana comunità internazionale, fatta
di editor, di scout, di responsabili dei diritti,
che s’incontra ogni anno alla fiera con lo scopo, non dichiarato
ma centrale, di fare sì che i libri importanti, quelli
che dicono qualcosa, siano accessibili in tante lingue diverse
al maggior numero di lettori.
Questa comunità non opera con un’ottica utilitaristica,
anche se deve fare i conti con questa, ma con un senso che è
quello del dialogo tra culture. Non è un caso che, a
pochi giorni dall’inizio dei bombardamenti in Afghanistan, tra
gli stand della fiera circolassero e fossero sottoscirtti numerosi
appelli contro la guerra e che il maggiore interesse fosse rivolto
sui titoli che favorivano il dialogo e la comprensione.
Questi concetti sono anche stati ribaditi da Jürgen Habermas,
nel discorso di accettazione del “premio per la pace” attribuitogli
di librai tedeschi nella giornata di chiusura della fiera.
Guido Lagomarsino
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