rivista anarchica
anno 31 n. 277
dicembre 2001 - gennaio 2002


guerra

Al banchetto dei potenti
di Antonio Cardella

Tanti interessi, troppi appetiti. Solo pensando al dopo-guerra si capisce perché...

Man mano che si va avanti, questa guerra sembra sempre di più uno specchio delle vanità: ci vogliono essere tutti e tutti in prima fila, a sculettare come le improbabili ballerine di un avanspettacolo di periferia degli anni Trenta.
Se non fosse tragico, sarebbe uno spettacolo farsesco, e non tanto perchè nessuno vuol rinunciare a dire la propria barzelletta, quanto perchè, impettiti e arcigni come sono nella realtà quotidiana i politici che reggono il mondo, appaiono tutti come avvoltoi che attendono la fine della preda che non hanno ucciso.
Alla vigilia della partecipazione dell’Italia al secondo conflitto mondiale, il duce del fascismo disse ai suoi più stretti collaboratori che gli occorrevano mille soldati italiani morti in campo di battaglia per sedere al tavolo delle trattative di pace quando, vinta la “guerra lampo” di hitleriana memoria, si sarebbe trattato per la spartizione del bottino. Poi le cose andarono diversamente, questa è, però, un’altra questione.
Purtroppo il numero “mille” ricorre frequentemente nella storia italiana, anche se adesso è difficile parlare di storia quando, a enunciare la fatidica quantità è il ministro della difesa che ci ritroviamo, quell’Antonio Martino che, più che un condottiero di uomini in armi sembra una Cassandra che ne celebra in anticipo la sconfitta e la morte.
Ma lasciamo da parte le miserie di casa nostra (che non sono popolate dai soli Martino, basta guardare la faccia beneaugurante di Fassino). C’è una spiegazione politica più seria alla gara di chi si sbraccia per essere parte attiva in questa guerra: nessun partner dello schieramento occidentale vuol rimanere emarginato alla beneficiata finale, che non consisterà, chiaramente, nella spartizione di colonialista memoria dei territori occupati, ma nella definitiva riduzione a sudditanza di un’area immensa, popolata prevalentemente da poveri cristi, ma dal sottosuolo ricchissimo di fonti energetiche e di materie prime necessarie allo sviluppo dei paesi indistrializzati.
Tuttavia, anche all’interno di questo fronte apparentemente compatto, che schiera eserciti possenti per snidare pochi uomini protetti solo da inospitali caverne e armati di residuati bellici, anche all’interno di questo schieramento, dicevo, le finalità non sono eguali per tutti.


Guerra anomala

Bush tende ad estendere i confini dell’influenza americana quanto più a ridosso possibile, di quegli altri imperi, Russia e Cina, che nel presumibile scenario geopolitico di un futuro prossimo, rappresenteranno gli antagonisti credibili della potenza americana. Così si spiega anche la particolare attenzione che gli USA dimostrano nei riguardi del continente indiano: da una parte per sottrarlo a pericolose influenze di una Cina in forte crescita economica e che comincia ad usare il guanto di velluto nella gestione dei suoi rapporti con i paesi confinanti; dall’altra perchè, male che vada, l’India rappresenta sempre, anche geograficamente, un territorio di riserva, lontano dai confini nazionali, sul quale gli americani potranno disporsi per affrontare il possibile nemico di domani.
Russia e Cina, dal canto loro, stanno al gioco, in primis perchè anche loro hanno interessi consistenti nell’area del conflitto; poi perchè ancora non si sentono pronte per un confronto alla pari con la potenza americana. Così, anche loro, quando questa guerra anomala sarà finita, potranno rivendicare il ruolo svolto dalla parte dei vincitori, senza il rischio di incorrere in smacchi, anche di immagine, nei riguardi dei non allineati.
Un discorso diverso va fatto per i paesi arabi.
Il filoamericanismo è merce sconosciuta in tutto il Medio Oriente e nei paesi musulmani dell’Africa Settentrionale. Anche quei regimi che, a fronte di corrispettivi ben precisi, hanno beneficiato dell’appoggio americano e che proprio in virtù di tale appoggio sono rimasti in sella a dispetto spesso della volontà dei loro popoli, avvertono adesso la precarietà di una situazione che riescono malamente a controllare, vuoi per il crescere, per reazione, di un integralismo religioso che, in alcuni paesi – vedi, per esempio, l’Arabia Saudita – se non proprio assente, era quanto meno “in sonno”; vuoi per la difficoltà di tenere comportamenti che non producessero ulteriori fratture tra i paesi della regione.
D’altra parte – ed è significativa in questo senso la posizione della Siria – non si poteva rimanere del tutto neutrali, perchè ciò avrebbe oggettivamente significato lasciare nelle mani di Bin Laden la leadership nella difesa delle ragioni del mondo islamico.
In ultimo, ma non per ultimo, il timore di divenire oggetto di rappresaglie immediate, sotto la spinta emotiva degli attentati di New York e Washington, ha consigliato, più di ogni meditata considerazione politica, di chiamarsi fuori dalle posizioni del capo dei talebani, il quale, non a caso, mira adesso più che mai ad allargare le fratture – qualche volta addirittura familiari – che, più o meno latenti, esistono in Medio Oriente.
Sino a quando sarà possibile mantenere questo equilibrio del terrore, è difficile a dirsi.


L’anello debole

In questo quadro assai composito, emerge con chiarezza il ruolo subalterno che l’Europa è chiamata a svolgere. È l’anello debole di una catena che giuoca le sue carte in termini di economie forti, pragmatiche, tecnologicamente avanzate, coordinate e dirette da regimi politici autoritari, che sono attentissimi a soffocare qualunque sia pur flebile opposizione interna. Ed è proprio la debolezza di un’Europa che stenta a decollare a spingere Francia,Germania ed Inghilterra a tentare di svincolarsi dall’abbraccio delle nazioni più povere del vecchio continente, per sedersi con pari dignità al tavolo in cui si progetteranno le linee-guida della vera globalizzazione. Quanto sia realistica tale rincorsa alla corte del più forte è cosa da verificare. Il direttorio a tre, cui aspirano da tempo le già citate potenze europee, a mio giudizio, non mette nel conto che paesi come l’Italia e la Spagna, ma anche la Grecia e la Turchia, rappresentano un ponte verso un universo, quello non cristiano, che non si lascerà facilmente emarginare e che, in ogni caso, rappresenterà un costo per i paesi industrializzati.
Sic stantibus rebus, sembrerebbe che, nelle sue linee generali, lo scenario futuro sia già delineato e che nullo sia lo spazio per quanti intendono opporsi al suo realizzarsi. .Per fortuna, a mio giudizio, così non è.
Intanto, in quello stesso tavolo in cui si pretenderà di decidere i destini del mondo, matureranno ed esploderanno i nuovi conflitti, non solo tra le potenze che parteciperanno al banchetto, ma tra queste e quei paesi che dal banchetto saranno esclusi. Poi – e questa è la notazione più importante – una cosa sono i regimi politici, e altra cosa, ben diversa, sono i popoli che presumono di amministrare. Infine, la storia insegna che, quanto più ampi sono i confini da salvaguardare, tanto minore è la reale capacità di controllarli.
L’impero romano iniziò il suo declino quando era al massimo della sua espansione. Napoleone fu sconfitto quando pretese di estendere il dominio della Francia alla lontana Russia e analoga fine fece il molto più modesto Hitler nel secondo conflitto mondiale. Quindi, quanto più ambizioso e faraonico è il progetto del dominio, tanto più vulnerabile è la sua circolazione periferica: il sangue affluisce male e in quantità insufficiente. La galassia che si oppone alla globalizzazione dovrebbe meditare seriamente su queste cose, senza lasciarsi annichilire dalla complessità dei problemi. Deve solo decidere il livello al quale intende portare lo scontro, dopo avere correttamente individuato il suo reale nemico.
È auspicabile che, passato il comprensibile sbandamento determinato dagli attentati alle torri gemelle di New York e dalla guerra in corso, si riprenda a discutere sulle cose che si possono fare, senza velleitarismi e pericolose fughe in avanti.

Antonio Cardella