Man mano che si va avanti, questa guerra
sembra sempre di più uno specchio delle vanità:
ci vogliono essere tutti e tutti in prima fila, a sculettare
come le improbabili ballerine di un avanspettacolo di periferia
degli anni Trenta.
Se non fosse tragico, sarebbe uno spettacolo farsesco, e non
tanto perchè nessuno vuol rinunciare a dire la propria
barzelletta, quanto perchè, impettiti e arcigni come
sono nella realtà quotidiana i politici che reggono il
mondo, appaiono tutti come avvoltoi che attendono la fine della
preda che non hanno ucciso.
Alla vigilia della partecipazione dell’Italia al secondo conflitto
mondiale, il duce del fascismo disse ai suoi più stretti
collaboratori che gli occorrevano mille soldati italiani morti
in campo di battaglia per sedere al tavolo delle trattative
di pace quando, vinta la “guerra lampo” di hitleriana memoria,
si sarebbe trattato per la spartizione del bottino. Poi le cose
andarono diversamente, questa è, però, un’altra
questione.
Purtroppo il numero “mille” ricorre frequentemente nella storia
italiana, anche se adesso è difficile parlare di storia
quando, a enunciare la fatidica quantità è il
ministro della difesa che ci ritroviamo, quell’Antonio Martino
che, più che un condottiero di uomini in armi sembra
una Cassandra che ne celebra in anticipo la sconfitta e la morte.
Ma lasciamo da parte le miserie di casa nostra (che non sono
popolate dai soli Martino, basta guardare la faccia beneaugurante
di Fassino). C’è una spiegazione politica più
seria alla gara di chi si sbraccia per essere parte attiva in
questa guerra: nessun partner dello schieramento occidentale
vuol rimanere emarginato alla beneficiata finale, che non consisterà,
chiaramente, nella spartizione di colonialista memoria dei territori
occupati, ma nella definitiva riduzione a sudditanza di un’area
immensa, popolata prevalentemente da poveri cristi, ma dal sottosuolo
ricchissimo di fonti energetiche e di materie prime necessarie
allo sviluppo dei paesi indistrializzati.
Tuttavia, anche all’interno di questo fronte apparentemente
compatto, che schiera eserciti possenti per snidare pochi uomini
protetti solo da inospitali caverne e armati di residuati bellici,
anche all’interno di questo schieramento, dicevo, le finalità
non sono eguali per tutti.
Guerra anomala
Bush tende ad estendere i confini dell’influenza americana
quanto più a ridosso possibile, di quegli altri imperi,
Russia e Cina, che nel presumibile scenario geopolitico di un
futuro prossimo, rappresenteranno gli antagonisti credibili
della potenza americana. Così si spiega anche la particolare
attenzione che gli USA dimostrano nei riguardi del continente
indiano: da una parte per sottrarlo a pericolose influenze di
una Cina in forte crescita economica e che comincia ad usare
il guanto di velluto nella gestione dei suoi rapporti con i
paesi confinanti; dall’altra perchè, male che vada, l’India
rappresenta sempre, anche geograficamente, un territorio di
riserva, lontano dai confini nazionali, sul quale gli americani
potranno disporsi per affrontare il possibile nemico di domani.
Russia e Cina, dal canto loro, stanno al gioco, in primis perchè
anche loro hanno interessi consistenti nell’area del conflitto;
poi perchè ancora non si sentono pronte per un confronto
alla pari con la potenza americana. Così, anche loro,
quando questa guerra anomala sarà finita, potranno rivendicare
il ruolo svolto dalla parte dei vincitori, senza il rischio
di incorrere in smacchi, anche di immagine, nei riguardi dei
non allineati.
Un discorso diverso va fatto per i paesi arabi.
Il filoamericanismo è merce sconosciuta in tutto il Medio
Oriente e nei paesi musulmani dell’Africa Settentrionale. Anche
quei regimi che, a fronte di corrispettivi ben precisi, hanno
beneficiato dell’appoggio americano e che proprio in virtù
di tale appoggio sono rimasti in sella a dispetto spesso della
volontà dei loro popoli, avvertono adesso la precarietà
di una situazione che riescono malamente a controllare, vuoi
per il crescere, per reazione, di un integralismo religioso
che, in alcuni paesi – vedi, per esempio, l’Arabia Saudita –
se non proprio assente, era quanto meno “in sonno”; vuoi per
la difficoltà di tenere comportamenti che non producessero
ulteriori fratture tra i paesi della regione.
D’altra parte – ed è significativa in questo senso la
posizione della Siria – non si poteva rimanere del tutto neutrali,
perchè ciò avrebbe oggettivamente significato
lasciare nelle mani di Bin Laden la leadership nella difesa
delle ragioni del mondo islamico.
In ultimo, ma non per ultimo, il timore di divenire oggetto
di rappresaglie immediate, sotto la spinta emotiva degli attentati
di New York e Washington, ha consigliato, più di ogni
meditata considerazione politica, di chiamarsi fuori dalle posizioni
del capo dei talebani, il quale, non a caso, mira adesso più
che mai ad allargare le fratture – qualche volta addirittura
familiari – che, più o meno latenti, esistono in Medio
Oriente.
Sino a quando sarà possibile mantenere questo equilibrio
del terrore, è difficile a dirsi.
L’anello debole
In questo quadro assai composito, emerge con chiarezza il ruolo
subalterno che l’Europa è chiamata a svolgere. È
l’anello debole di una catena che giuoca le sue carte in termini
di economie forti, pragmatiche, tecnologicamente avanzate, coordinate
e dirette da regimi politici autoritari, che sono attentissimi
a soffocare qualunque sia pur flebile opposizione interna. Ed
è proprio la debolezza di un’Europa che stenta a decollare
a spingere Francia,Germania ed Inghilterra a tentare di svincolarsi
dall’abbraccio delle nazioni più povere del vecchio continente,
per sedersi con pari dignità al tavolo in cui si progetteranno
le linee-guida della vera globalizzazione. Quanto sia realistica
tale rincorsa alla corte del più forte è cosa
da verificare. Il direttorio a tre, cui aspirano da tempo le
già citate potenze europee, a mio giudizio, non mette
nel conto che paesi come l’Italia e la Spagna, ma anche la Grecia
e la Turchia, rappresentano un ponte verso un universo, quello
non cristiano, che non si lascerà facilmente emarginare
e che, in ogni caso, rappresenterà un costo per i paesi
industrializzati.
Sic stantibus rebus, sembrerebbe che, nelle sue linee
generali, lo scenario futuro sia già delineato e che
nullo sia lo spazio per quanti intendono opporsi al suo realizzarsi.
.Per fortuna, a mio giudizio, così non è.
Intanto, in quello stesso tavolo in cui si pretenderà
di decidere i destini del mondo, matureranno ed esploderanno
i nuovi conflitti, non solo tra le potenze che parteciperanno
al banchetto, ma tra queste e quei paesi che dal banchetto saranno
esclusi. Poi e questa è la notazione più
importante una cosa sono i regimi politici, e altra cosa,
ben diversa, sono i popoli che presumono di amministrare. Infine,
la storia insegna che, quanto più ampi sono i confini
da salvaguardare, tanto minore è la reale capacità
di controllarli.
L’impero romano iniziò il suo declino quando era al massimo
della sua espansione. Napoleone fu sconfitto quando pretese
di estendere il dominio della Francia alla lontana Russia e
analoga fine fece il molto più modesto Hitler nel secondo
conflitto mondiale. Quindi, quanto più ambizioso e faraonico
è il progetto del dominio, tanto più vulnerabile
è la sua circolazione periferica: il sangue affluisce
male e in quantità insufficiente. La galassia che si
oppone alla globalizzazione dovrebbe meditare seriamente su
queste cose, senza lasciarsi annichilire dalla complessità
dei problemi. Deve solo decidere il livello al quale intende
portare lo scontro, dopo avere correttamente individuato il
suo reale nemico.
È auspicabile che, passato il comprensibile sbandamento
determinato dagli attentati alle torri gemelle di New York e
dalla guerra in corso, si riprenda a discutere sulle cose che
si possono fare, senza velleitarismi e pericolose fughe in avanti.
Antonio Cardella
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