rivista anarchica
anno 31 n. 277
dicembre 2001 - gennaio 2002


 

Concretamente Chiapas


Il municipio autonomo in ribellione di San Manuel in Chiapas è composto da 38 comunità sparse in un territorio ai confini della Selva Lacandona, grande come una media provincia italiana. La natura è lussureggiante, fiumi gonfi di limo sono orlati da campi di mais e fagioli, bananeti e residui della foresta pluviale ritiratasi a giornate di cammino per il feroce disboscamento operato negli ultimi anni.
Il camion con la stella rossa della cooperativa autotrasportatori zapatisti arranca sull’unica fangosa strada, aperta dopo l’insurrezione del 1994 dall’esercito federale per disseminare questa vallata di accampamenti e postazioni militari.
A quattro ore dalla pseudo cittadina di Ocosingo si arriva alla comunità ‘Emiliano Zapata’: una manciata di baracche sparse attorno a questa vuota arteria costruita non certo per favorire lo sviluppo economico-relazionale di questa gente che misura le distanze ancora con le giornate di cammino.
La ‘Emiliano Zapata’ è il banco di prova per il ‘Progetto Libertario Flores Magón’ di Milano: un gruppo formato da anarchici e libertari del quale “A” si è già occupata recentemente.
In questa comunità abbiamo deciso di concentrare gli sforzi per lasciare un segno duraturo della solidarietà libertaria pur non attutendo l’impegno a sostegno di altri progetti in terra zapatista che durano oramai da due anni, in particolare con il piano di salute degli Altos per il consolidamento della clinica di Oventic e per la costruzione di nuovi presidi sanitari.
La scelta di intervenire nel Municipio di San Manuel è sorta direttamente dalla richiesta delle comunità di essere aiutate nel miglioramento delle condizioni alimentari e, dalla nostra decisione, di intervenire in una zona marginale poco appoggiata dal circuito militante che troppo spesso predilige interventi spendibili in termini di propaganda a casa propria.
D’altronde alla ‘Emiliano Zapata’ ad aspettarci non ci sono palchi per foto ricordo ma al massimo quattro cani rognosi e famelici.
L’idea che ci muove è chiara: noi non andiamo a catechizzare nessuno e neppure vogliamo creare dipendenza dagli aiuti esteri. Noi non siamo una ONG che deve mantenere la sua burocrazia con finanziamenti parastatali. Il nostro intento è creare un ponte di solidarietà internazionalista teso a consolidare un processo di autogestione e democrazia diretta intentato dalle comunità in resistenza.
Una mano concreta su un progetto di sviluppo agricolo deciso dall’assemblea comunitaria e dal Municipio. Forse costruire un orto di 1 ettaro non avrà il fascino evocativo della guerriglia nella Selva ma sicuramente è molto più costruttivo scommettere sul futuro con interventi strutturali che non aspettano la palingenesi sociale ma modificano immediatamente le condizioni quotidiane di vita. Dietro ad un orto che migliora la condizione di 300 persone c’è il lavoro collettivamente svolto, c’è la scelta di non usare prodotti chimici o semi modificati geneticamente, c’è studio e competenze che si creano e che diventano patrimonio della comunità, c’è il protagonismo delle donne che erode la tradizionale subalternità nella quale sono (se non formalmente) realmente relegate: c’è insomma l’esercizio della democrazia diretta nelle sue più svariate accezioni.
Il tutto in una situazione politica continuamente sotto pressione dalla presenza massiccia di militari e soldataglia varia.
Oggi è più difficile pensare ad autogestire la propria comunità rispetto a qualche anno fa: il nuovo governo chiapaneco ha scelto la strada del riformismo (pur tenendo le caserme stipate per ogni evenienza), le comunità che si sottomettono ottengono scuole, acqua e luce: diritti che vengono passati per concessioni.
Inoltre non si può sottacere la progressiva ossificazione dell’EZLN che incrina pericolosamente la simbiosi esistita tra basi d’appoggio e guerriglia: in più luoghi si avverte un allontanamento tra ‘popolo’ e dirigenti. I quali, oltre alla sopravvivenza dell’organizzazione, devono ora competere con lo stato su un piano di servizi (educazione, giustizia, sviluppo economico, salute). Va da sé l’incombente nascita di una nuovo apparato burocratico che sbilancia la dialettica sino ad ora funzionante tra verticismo militare e orizzontalità comunitaria.
Proprio per questi motivi è fondamentale intervenire ora a sostegno della parte più viva ed interessante da un punto di vista libertario di questo grande progetto di trasformazione sociale.
Appello sino ad ora accolto da molti (il nostro gruppo ha inviato in un anno 15 compagni e poco meno di 20 milioni di lire, raccolti tra serate a tema e di tasca in tasca) che ha permesso l’ampliamento del progetto originario nella vicina comunità di Miguel Gomez, dove è stata costruita una piccola clinica affidata ai locali promotori di salute.
Progetto che si integra in un unico disegno: non si può parlare tenute compresse (un esempio del processo messo in moto è la costituzione da parte delle donne di una cooperativa di consumo gestita solo da loro e di un forno collettivo).
Contemporaneamente si è progettato un orto produttivo lungo quasi tutto l’anno, estremamente diversificato per scoraggiare la tentazione di vendere i prodotti al posto di mangiarli così come sono stati costruiti piccoli orti sperimentali nelle comunità limitrofe: primo passo per un allargamento dell’esperienza.
Lo stesso vale per la clinica, seguita con particolare attenzione dall’USI Sanità, primo tassello per un processo di autonomia che prevede a breve l’arrivo dell’acqua alle case e l’alimentazione elettrica attraverso pannelli fotovoltaici.

Dino Taddei

 

Ricordando Gino Agnese

Eravamo un centinaio di persone, lunedì 29 ottobre, al cimitero di Staglieno – a Genova – ad accompagnare la salma del “compagno professore” Gino. A 61 anni se ne è andato, in pochi minuti, Angelo “Gino” Agnese, anarchico da oltre quarant’anni, professore di fisica all’Università di Genova.
Si era avvicinato al nostro movimento sul finire degli anni ’50: la prima occasione era stata una conferenza pubblica di Armando Borghi. Era entrato in contatto con i compagni della storica sede di piazza Embriaci: con i compagni genovesi d.o.c., come Adriano Bosi (morto due anni fa) che girava i mercati con il suo banchetto di cravatte, frequentava il circolo anarchico “Pietro Gori” a Genova-Certosa con Giuseppe Pasticcio e poi teneva trasmissioni in genovese in una radio locale (e declamava l’epopea del partigianato e la strage di piazza Fontana), e con quel curioso gruppetto di sardi trapiantati a Genova, che costituivano una piccola comunità (aderente ai Gruppi d’Iniziativa Anarchica) nella più vasta famiglia anarchica: i Tolu, gli Strinna, i Tilocca. Per un periodo, anche Aurelio Chessa.
Gino era più giovane – mediamente di un ventennio – di quella generazione e gli è così capitato di fare da tramite tra i compagni che avevano vissuto galera, confino, esilio, la mitica Spagna del ’36, e noi più giovani, sessantottini, e quanti sono venuti dopo. Non era solo una questione di sorte anagrafica: Gino a quei compagni, sempre più vecchi, è rimasto concretamente affezionato ed era tra i pochissimi ad andarli a trovare anche quando gli acciacchi della maledetta vecchiaia li relegavano ai margini del movimento e della vita.
Il nome e la vicenda che forse di più l’avevano segnato nel profondo non erano però genovesi: erano quelli del ferroviere anarchico milanese Pino Pinelli, che lui aveva ben conosciuto ed amato. Ed il cui assassinio in questura – nella notte tra il 15 ed il 16 dicembre 1969 – rimase per lui (ma non solo per lui) una ferita che non si sarebbe più rimarginata.
Gino amava ricordare i suoi incontri con i vecchi dell’anarchismo militante: con Federica Montseny, con Umberto Marzocchi, con Pio Turroni, ecc.. Gli piaceva raccontarmi di quando, recatosi una volta ad accompagnare alla stazione di Brignole mio suocero Alfonso Failla, si erano fermati su di una panchina a parlare (soprattutto Alfonso, lasciava intendere), mentre i treni per Carrara continuavano a passare: la Resistenza, il confino, la necessità di stringere le fila del nostro movimento, l’importanza del ruolo della FAI. E quando Alfonso si decise a salire sul treno era quasi mattina...
È grazie a Gino se negli anni ’70 – ed anche dopo – alcune porte di quei modesti appartamenti si sono aperte per chiacchierate, colloqui, registrazioni. Una per tutte, la visita – la nostra ultima, prima della sua morte – a Vincenzo Toccafondo, splendida figura di militante anarchico, tenace e semplice, nel cuore di Sampierdarena. Registrammo ore ed ore delle sue memorie ed alla fine mi regalò alcuni quaderni neri, manoscritti, che negli anni ’30 lo stesso Toccafondo aveva scritto e fatto girare clandestinamente di mano in mano. Costituivano l’unico esemplare di un giornale anarchico, con tanto di titolo (“L’Antistato”), che ora è custodito presso l’Archivio Pinelli/Centro studi libertari di Milano.
Negli anni ’70 Gino e Carmen, la sua compagna, erano stati tra gli elementi più attivi del Comitato Spagna Libertaria, la cui intensa attività si bruciò in quella manciata di anni che dai colpi di coda della dittatura franchista arrivò all’inizio del contraddittorio passaggio alla democrazia. Anni di repressione e di speranze, di compagni in galera e di ripresa della base di massa dell’anarcosindacalismo cenetista. In quegli stessi anni Gino visse, come noi di “A”, l’esperienza dei Gruppi Anarchici Federati, dopo esser stato tra i non molti militanti dei Gruppi Giovanili Anarchici Federati a cavallo tra il ’65 ed il ’68 – prima, dunque, dell’elettrizzante ripresa internazionale dell’anarchismo, a partire da Berkeley e dalle barricate di Parigi.
Come si é ricordato a Staglieno, Gino non ha avuto una vita clamorosa, esaltante. Non erano i tempi, né a ciò lo predisponeva il suo temperamento. Eppure dal ’59 al G8 è sempre stato presente, perlopiù in maniera discreta. Tenne anche dei comizi, tra cui due in occasione del 1° maggio a Senigallia: un’esperienza, questa, che anch’io ho avuto modo di vivere, tra la calda ospitalità dei compagni marchigiani e l’ostentato consenso di tanti vecchi militanti socialisti e repubblicani, insoddisfatti dei loro partiti e vicini allo spirito ribelle dell’anarchismo. Fu attivo anche nella rete degli scienziati contro la guerra.
Con la nostra rivista (su cui scrisse più di una volta) e con le altre iniziative editoriali e culturali di noi “milanesi” ha sempre avuto un rapporto di particolare sintonia ed amicizia. E non ha mancato di sostenerci finanziariamente. Spirito non settario, fu sempre vicino anche al periodico anarchico “L’Internazionale”, edito ad Ancona da Luciano Farinelli – nostro comune, carissimo amico – e ad altre iniziative di propaganda e di solidarietà.
Era una persona semplice, buona, contenta nel far del bene e nel mettere a proprio agio gli altri. Sincero e fedele negli affetti, per me è stato un vero amico: ogni volta che sono “sceso” a Genova, alla stazione ho trovato Gino a prendermi, ed era lui a riaccompagnarmici dopo il comizio astensionista, la conferenza, la riunione anarchica, l’iniziativa su De André. Per me è morto un fratello maggiore. E Genova, una città cui mi sento particolarmente legato per tante ragioni di affetti e di militanza anarchica, senza il faccione sorridente e rasserenante del buon vecchio Gino, non sarà più la stessa.

Paolo Finzi