Concretamente Chiapas
Il municipio autonomo in ribellione di San Manuel in Chiapas
è composto da 38 comunità sparse in un territorio
ai confini della Selva Lacandona, grande come una media provincia
italiana. La natura è lussureggiante, fiumi gonfi di
limo sono orlati da campi di mais e fagioli, bananeti e residui
della foresta pluviale ritiratasi a giornate di cammino per
il feroce disboscamento operato negli ultimi anni.
Il camion con la stella rossa della cooperativa autotrasportatori
zapatisti arranca sull’unica fangosa strada, aperta dopo l’insurrezione
del 1994 dall’esercito federale per disseminare questa vallata
di accampamenti e postazioni militari.
A quattro ore dalla pseudo cittadina di Ocosingo si arriva alla
comunità ‘Emiliano Zapata’: una manciata di baracche
sparse attorno a questa vuota arteria costruita non certo per
favorire lo sviluppo economico-relazionale di questa gente che
misura le distanze ancora con le giornate di cammino.
La ‘Emiliano Zapata’ è il banco di prova per il ‘Progetto
Libertario Flores Magón’ di Milano: un gruppo formato
da anarchici e libertari del quale “A” si è già
occupata recentemente.
In questa comunità abbiamo deciso di concentrare gli
sforzi per lasciare un segno duraturo della solidarietà
libertaria pur non attutendo l’impegno a sostegno di altri progetti
in terra zapatista che durano oramai da due anni, in particolare
con il piano di salute degli Altos per il consolidamento della
clinica di Oventic e per la costruzione di nuovi presidi sanitari.
La scelta di intervenire nel Municipio di San Manuel è
sorta direttamente dalla richiesta delle comunità di
essere aiutate nel miglioramento delle condizioni alimentari
e, dalla nostra decisione, di intervenire in una zona marginale
poco appoggiata dal circuito militante che troppo spesso predilige
interventi spendibili in termini di propaganda a casa propria.
D’altronde alla ‘Emiliano Zapata’ ad aspettarci non ci sono
palchi per foto ricordo ma al massimo quattro cani rognosi e
famelici.
L’idea che ci muove è chiara: noi non andiamo a catechizzare
nessuno e neppure vogliamo creare dipendenza dagli aiuti esteri.
Noi non siamo una ONG che deve mantenere la sua burocrazia con
finanziamenti parastatali. Il nostro intento è creare
un ponte di solidarietà internazionalista teso a consolidare
un processo di autogestione e democrazia diretta intentato dalle
comunità in resistenza.
Una mano concreta su un progetto di sviluppo agricolo deciso
dall’assemblea comunitaria e dal Municipio. Forse costruire
un orto di 1 ettaro non avrà il fascino evocativo della
guerriglia nella Selva ma sicuramente è molto più
costruttivo scommettere sul futuro con interventi strutturali
che non aspettano la palingenesi sociale ma modificano immediatamente
le condizioni quotidiane di vita. Dietro ad un orto che migliora
la condizione di 300 persone c’è il lavoro collettivamente
svolto, c’è la scelta di non usare prodotti chimici o
semi modificati geneticamente, c’è studio e competenze
che si creano e che diventano patrimonio della comunità,
c’è il protagonismo delle donne che erode la tradizionale
subalternità nella quale sono (se non formalmente) realmente
relegate: c’è insomma l’esercizio della democrazia diretta
nelle sue più svariate accezioni.
Il tutto in una situazione politica continuamente sotto pressione
dalla presenza massiccia di militari e soldataglia varia.
Oggi è più difficile pensare ad autogestire la
propria comunità rispetto a qualche anno fa: il nuovo
governo chiapaneco ha scelto la strada del riformismo (pur tenendo
le caserme stipate per ogni evenienza), le comunità che
si sottomettono ottengono scuole, acqua e luce: diritti che
vengono passati per concessioni.
Inoltre non si può sottacere la progressiva ossificazione
dell’EZLN che incrina pericolosamente la simbiosi esistita tra
basi d’appoggio e guerriglia: in più luoghi si avverte
un allontanamento tra ‘popolo’ e dirigenti. I quali, oltre alla
sopravvivenza dell’organizzazione, devono ora competere con
lo stato su un piano di servizi (educazione, giustizia, sviluppo
economico, salute). Va da sé l’incombente nascita di
una nuovo apparato burocratico che sbilancia la dialettica sino
ad ora funzionante tra verticismo militare e orizzontalità
comunitaria.
Proprio per questi motivi è fondamentale intervenire
ora a sostegno della parte più viva ed interessante da
un punto di vista libertario di questo grande progetto di trasformazione
sociale.
Appello sino ad ora accolto da molti (il nostro gruppo ha inviato
in un anno 15 compagni e poco meno di 20 milioni di lire, raccolti
tra serate a tema e di tasca in tasca) che ha permesso l’ampliamento
del progetto originario nella vicina comunità di Miguel
Gomez, dove è stata costruita una piccola clinica affidata
ai locali promotori di salute.
Progetto che si integra in un unico disegno: non si può
parlare tenute compresse (un esempio del processo messo in moto
è la costituzione da parte delle donne di una cooperativa
di consumo gestita solo da loro e di un forno collettivo).
Contemporaneamente si è progettato un orto produttivo
lungo quasi tutto l’anno, estremamente diversificato per scoraggiare
la tentazione di vendere i prodotti al posto di mangiarli così
come sono stati costruiti piccoli orti sperimentali nelle comunità
limitrofe: primo passo per un allargamento dell’esperienza.
Lo stesso vale per la clinica, seguita con particolare attenzione
dall’USI Sanità, primo tassello per un processo di autonomia
che prevede a breve l’arrivo dell’acqua alle case e l’alimentazione
elettrica attraverso pannelli fotovoltaici.
Dino Taddei
Ricordando Gino Agnese
Eravamo un centinaio di persone, lunedì 29 ottobre,
al cimitero di Staglieno a Genova ad accompagnare
la salma del “compagno professore” Gino. A 61 anni se ne è
andato, in pochi minuti, Angelo “Gino” Agnese, anarchico da
oltre quarant’anni, professore di fisica all’Università
di Genova.
Si era avvicinato al nostro movimento sul finire degli anni
50: la prima occasione era stata una conferenza pubblica
di Armando Borghi. Era entrato in contatto con i compagni della
storica sede di piazza Embriaci: con i compagni genovesi d.o.c.,
come Adriano Bosi (morto due anni fa) che girava i mercati con
il suo banchetto di cravatte, frequentava il circolo anarchico
“Pietro Gori” a Genova-Certosa con Giuseppe Pasticcio e poi
teneva trasmissioni in genovese in una radio locale (e declamava
l’epopea del partigianato e la strage di piazza Fontana), e
con quel curioso gruppetto di sardi trapiantati a Genova, che
costituivano una piccola comunità (aderente ai Gruppi
d’Iniziativa Anarchica) nella più vasta famiglia anarchica:
i Tolu, gli Strinna, i Tilocca. Per un periodo, anche Aurelio
Chessa.
Gino era più giovane mediamente di un ventennio
di quella generazione e gli è così capitato
di fare da tramite tra i compagni che avevano vissuto galera,
confino, esilio, la mitica Spagna del 36, e noi più
giovani, sessantottini, e quanti sono venuti dopo. Non era solo
una questione di sorte anagrafica: Gino a quei compagni, sempre
più vecchi, è rimasto concretamente affezionato
ed era tra i pochissimi ad andarli a trovare anche quando gli
acciacchi della maledetta vecchiaia li relegavano ai margini
del movimento e della vita.
Il nome e la vicenda che forse di più l’avevano segnato
nel profondo non erano però genovesi: erano quelli del
ferroviere anarchico milanese Pino Pinelli, che lui aveva ben
conosciuto ed amato. Ed il cui assassinio in questura
nella notte tra il 15 ed il 16 dicembre 1969 rimase per
lui (ma non solo per lui) una ferita che non si sarebbe più
rimarginata.
Gino amava ricordare i suoi incontri con i vecchi dell’anarchismo
militante: con Federica Montseny, con Umberto Marzocchi, con
Pio Turroni, ecc.. Gli piaceva raccontarmi di quando, recatosi
una volta ad accompagnare alla stazione di Brignole mio suocero
Alfonso Failla, si erano fermati su di una panchina a parlare
(soprattutto Alfonso, lasciava intendere), mentre i treni per
Carrara continuavano a passare: la Resistenza, il confino, la
necessità di stringere le fila del nostro movimento,
l’importanza del ruolo della FAI. E quando Alfonso si decise
a salire sul treno era quasi mattina...
È grazie a Gino se negli anni 70 ed anche
dopo alcune porte di quei modesti appartamenti si sono
aperte per chiacchierate, colloqui, registrazioni. Una per tutte,
la visita la nostra ultima, prima della sua morte
a Vincenzo Toccafondo, splendida figura di militante anarchico,
tenace e semplice, nel cuore di Sampierdarena. Registrammo ore
ed ore delle sue memorie ed alla fine mi regalò alcuni
quaderni neri, manoscritti, che negli anni 30 lo stesso
Toccafondo aveva scritto e fatto girare clandestinamente di
mano in mano. Costituivano l’unico esemplare di un giornale
anarchico, con tanto di titolo (“L’Antistato”), che ora è
custodito presso l’Archivio Pinelli/Centro studi libertari di
Milano.
Negli anni 70 Gino e Carmen, la sua compagna, erano stati
tra gli elementi più attivi del Comitato Spagna Libertaria,
la cui intensa attività si bruciò in quella manciata
di anni che dai colpi di coda della dittatura franchista arrivò
all’inizio del contraddittorio passaggio alla democrazia. Anni
di repressione e di speranze, di compagni in galera e di ripresa
della base di massa dell’anarcosindacalismo cenetista. In quegli
stessi anni Gino visse, come noi di “A”, l’esperienza dei Gruppi
Anarchici Federati, dopo esser stato tra i non molti militanti
dei Gruppi Giovanili Anarchici Federati a cavallo tra il 65
ed il 68 prima, dunque, dell’elettrizzante ripresa
internazionale dell’anarchismo, a partire da Berkeley e dalle
barricate di Parigi.
Come si é ricordato a Staglieno, Gino non ha avuto una
vita clamorosa, esaltante. Non erano i tempi, né a ciò
lo predisponeva il suo temperamento. Eppure dal 59 al
G8 è sempre stato presente, perlopiù in maniera
discreta. Tenne anche dei comizi, tra cui due in occasione del
1° maggio a Senigallia: un’esperienza, questa, che anch’io
ho avuto modo di vivere, tra la calda ospitalità dei
compagni marchigiani e l’ostentato consenso di tanti vecchi
militanti socialisti e repubblicani, insoddisfatti dei loro
partiti e vicini allo spirito ribelle dell’anarchismo. Fu attivo
anche nella rete degli scienziati contro la guerra.
Con la nostra rivista (su cui scrisse più di una volta)
e con le altre iniziative editoriali e culturali di noi “milanesi”
ha sempre avuto un rapporto di particolare sintonia ed amicizia.
E non ha mancato di sostenerci finanziariamente. Spirito non
settario, fu sempre vicino anche al periodico anarchico “L’Internazionale”,
edito ad Ancona da Luciano Farinelli nostro comune, carissimo
amico e ad altre iniziative di propaganda e di solidarietà.
Era una persona semplice, buona, contenta nel far del bene e
nel mettere a proprio agio gli altri. Sincero e fedele negli
affetti, per me è stato un vero amico: ogni volta che
sono “sceso” a Genova, alla stazione ho trovato Gino a prendermi,
ed era lui a riaccompagnarmici dopo il comizio astensionista,
la conferenza, la riunione anarchica, l’iniziativa su De André.
Per me è morto un fratello maggiore. E Genova, una città
cui mi sento particolarmente legato per tante ragioni di affetti
e di militanza anarchica, senza il faccione sorridente e rasserenante
del buon vecchio Gino, non sarà più la stessa.
Paolo Finzi
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