rivista anarchica
anno 31 n. 277
dicembre 2001 - gennaio 2002


Bolivia

Chaparre: programmi di sottosviluppo alternativo
di Massimo Annibale Rossi

Un complesso militare impressionante, catapecchie tirate su con assi di legno, una situazione esplosiva.

Ramón Perez il 27 settembre stava guidando un gruppo di giornalisti a Loma Alta, uno degli accampamenti militari che dal 1998 mantengono il tropico di Cochabamba sotto stato d’occupazione. Da tre settimane i presidi sono accerchiati e presidiati dai cocaleros. L’obiettivo è quello di sempre: contrastare le eradicazioni. La stampa reagì condannando il fatto come gravissima aggressione al diritto d’informazione, tuttavia le misure prese dall’autorità proseguivano nella direzione di sempre: aumentare il numero degli effettivi. Nei giorni successivi si contarono altri quattro feriti e per sabato 6 ottobre si convocava una riunione generale dei sindacati nei pressi di Chimoré.
I campesinos sembrano giunti allo stremo. Le eradicazioni hanno distrutto l’economia e le strategie di sviluppo alternativo sono unanimemente definite un fallimento. La maggioranza dei circa cento partecipanti si dichiara non più disponibile a collaborare con le ong (organizzazione non governative) né con gli organismi responsabili dei programmi. Tre confederazioni su sei si esprimono per il blocco immediato della strada che collega Santa Cruz a Cochabamba. Tuttavia la lunga paralisi del settembre dell’anno passato non raggiunse alcun risultato, se non mettere in ginocchio la già esausta economia del tropico e provocare una scia di morti. Conduce l’incontro Evo Morales, leader cocalero da tre anni eletto deputato nazionale. I delegati denunciano nuove violazioni dei diritti umani e affermano che in molti campi sia arrivata la fame. Sentono d’avere perso tutto e sono disposti alla lotta a oltranza. Evo prende una posizione moderata, si dichiara fiducioso nelle trattative con il governo, che riprenderanno il prossimo lunedì. La bandiera comune, il punto irrinunciabile, è il cato di coca. Si tratta di una parcella di 1,6 ettari per famiglia di cui è richiesta la concessione per un periodo transitorio. L’estensione media delle proprietà supera i dieci ettari, tuttavia molti campi ora rimangono incolti.
Le speranze nel paese che negli anni ’80 sperimentò gli squadroni neo nazisti di García Mesa non hanno vita lunga. Le trattative sono state sospese il secondo giorno. I blocchi stradali sono posticipati a metà ottobre, invitando le confederazioni dell’altopiano a unirsi alla lotta. La posizione del governo, nonostante il recente cambio alla presidenza, si mantiene ferma. In gioco ci sono gl’ingenti finanziamenti Usa e dell’Unione europea. In gioco è il piano economico nazionale, centrato su un aumento massiccio della produzione di gas e petrolio nei prossimi quattro anni. Il tre di ottobre il Presidente Quiroga rendeva pubblico un mega progetto di produzione e commercializzazione d’idrocarburi verso il nordamerica. Si tratta di costruire un impianto per la liquefazione del gas, gas da trasportare mediante navi cisterna dal porto di Arica in Cile. Attualmente il 40% della produzione boliviana proviene dal tropico di Cochabamba.
La miseria nei campi si è fatta evidente. Mortalità infantile e malattie endemiche sono in aumento; soprattutto, si segnalano casi di denutrizione. Incontriamo Alfredo Escobar, maestro del presidio scolastico di San Rafael, nei dintorni di Villa Tunari. “Negli ultimi anni abbiamo avuto una diminuzione di un quarto degli alunni. Le famiglie non hanno più soldi per mandarli a scuola e il problema fondamentale è l’alimentazione. Il 20% dei bimbi soffre di malaria, si segnalano casi di tisi, tetano e febbre gialla. I controlli sanitari sono diminuiti e dalla militarizzazione le condizioni sono gravemente peggiorate. Alcune famiglie hanno preso la decisione di andarsene dal Chapare. Ci manca materiale didattico e lo stipendio attuale di un insegnante è di circa 100 dollari il mese”.
Dati che contrastano con le dichiarazioni di Pino Arlacchi, direttore dell’Agenzia antidroga delle nazioni unite, pubblicate dall’Espresso” il 27 dicembre dell’anno passato. La Bolivia, dove gli interventi iniziarono vent’anni fa, è presentata come un modello di sviluppo alternativo (1). “È stato scritto […] che nel Chapare ci sarebbero 40.000 famiglie di cocaleros. Le quali rivendicherebbero un pezzetto di terra per coltivare la droga. Ora i cocaleros consistono in 4 mila nuclei familiari per un totale di 20 mila individui... Abbiamo favorito le culture alternative: per esempio ananas e banane. Abbiamo mandato in pezzi lo stereotipo che solo la coca fa guadagnare i contadini. Le 1.550 famiglie coinvolte nel progetto agro-forestale gestito dalla mia Agenzia ricavano ogni anno 4.000 dollari di reddito ciascuna, contro i 300 di tre anni fa”. Arlacchi sostiene inoltre che si siano costruiti migliaia di chilometri di strade, centinaia di scuole, ospedali, linee elettriche...


Soci dei narcos?

La realtà del Chapare dimostra invece come strategie di militarizzazione e sviluppo siano fondamentalmente incompatibili. Come non si possa parlare di mercato senza la disponibilità da parte dei paesi ricchi ad aprire i loro propri mercati. Un esempio significativo è offerto dallo stato di crisi dichiarata da una delle industrie alimentari di punta della zona. Si tratta dell’Indatrop, del gruppo Duralit, che commercializza palmito in latta. Il direttore Ruddy Rivera afferma che il prezzo alla cassa, in particolare a causa delle concorrenza ecuadoriana, dal 1995 sia diminuito del 50%. Gli standard e gli accordi commerciali vigenti nel Primo mondo impediscono l’ingresso ai prodotti boliviani. I mercati di riferimento si restringono a quello nazionale e al Mercosur (2). Una situazione anche peggiore riguarda un altro dei prodotti chiave dello sviluppo alternativo, l’ananas, il cui prezzo crollò fino a indurre molti produttori ad abbandonare la coltivazione. Da parte loro i blocchi stradali hanno a più riprese isolato il Chapare, provocando danni enormi alle imprese. I tentativi di lanciare il turismo sono a loro volta falliti, data la scarsa attrattiva di una regione in stato di guerra. La costruzione di un mega complesso nei pressi di Villa Tunari, dotato di piscine e campi da golf, è stata recentemente sospesa.
Riguardo alla situazione è interessante considerare i dati contenuti nel Piano di sviluppo del tropico pubblicato nel luglio del 1999 e frutto della collaborazione tra il Ministero dell’agricoltura, la Prefettura di Cochabamba e la cooperazione tedesca. La popolazione dell’area è valutata in 188.238 abitanti, con un incremento del 5,2% e un 70% di immigrati nel medio-lungo periodo. Dato quest’ultimo che, incrociato con le località di origine, si rivela utile per comprendere il quadro di arretratezza tecnica che caratterizza le campagne. Si tratta di famiglie provenienti dalle zone più povere dell’altipiano che s’insediarono 20, 25 anni fa, tentando di adeguare le tecniche tradizionali al clima e al suolo tropicali. Scelsero la coca per la redditività e per la facilità di coltivazione. In breve il prodotto giunse a rappresentare il 71% delle entrate nette agricole locali. In Chapare non esistono istituti di credito e i tentativi fatti nel decennio passato non hanno avuto esito. In ogni caso, i tassi praticati in Bolivia arrivano al 24% ed è attivo un movimento nazionale di debitori rovinati dai contratti stipulati con le banche. Un quarto della popolazione adulta è analfabeta e il sistema scolastico, assolutamente insufficiente.
Opinione comune in Europa, come in molti dipartimenti di Bolivia, è che in passato i campesinos del tropico abbiano accumulato grandi somme con il commercio della coca. Li si descrive come soci dei narcos, ma le loro condizioni sono terribili. Nel Chapare si salva dalla povertà un misero 13,1% della popolazione; i moderatamente poveri rappresentano il 40,1% e gli ingenti la maggioranza, raggiungendo un tasso del 41,6%. Fuori da qualsiasi analisi si pongono i marginali: il 5,2 del totale. Solo un quarto delle abitazioni raggiunge gli standard di vivibilità e già nel 1997 il 35% dei minori di cinque anni soffriva di denutrizione (3). La domanda comune è: “dove sono finiti i centinaia di milioni di dollari spesi per la cooperazione in questi anni?”. Alcune strade e linee elettriche, qualche fabbrica e struttura sanitaria, molte ricerche. Ma anche mani lunghe dei politici e la spaventosa corruzione di questo paese. Da molto tempo la gente di qui ha perduto la fiducia nello stato e da qualche anno la fiducia nei programmi di sviluppo.
L’altra faccia della medaglia Chapare è l’occupazione militare. Nonostante la fase delle eradicazioni massicce si sia conclusa, le operazioni continuano coinvolgendo aree dell’interno e campi minori. I posti di blocco e le perquisizioni sono frequenti e la strategia degli umopares, reparti speciali antidroga, mira a spaventare e dividere i cocaleros. Le denunce più frequenti di violazione dei diritti umani riguardano le eradicazioni. Coloro che segnalano i campi illegali ricevono un compenso, ma quali collaboratori dei militari rischiano la vita per mano delle loro comunità. Il clima è segnato dal sospetto e dalla paura: chiunque può tradire, chiunque può essere il nemico. Il peggioramento delle condizioni aumenta le tentazioni di passare dall’altro lato.


Bombe lacrimogene

Padre Sperandio Ravasio vive in Bolivia da diciotto anni e sostenne un ruolo significativo durante le trattative che posero termine alla sollevazione dell’anno passato. “Credo che come Chiesa dobbiamo fare ascoltare la nostra voce. Qui si spendono 20.000 dollari al giorno per la sola alimentazione del personale militare e c’è una situazione di violenza che appare senza uscita. La miseria della gente è assoluta. L’anno scorso, causa gli svenimenti che avvenivano in classe, abbiamo svolto un’indagine nella scuola Don Bosco. Scoprimmo che il 72% degli alunni soffriva di anemia. La situazione è drasticamente peggiorata negli ultimi anni e lo sviluppo alternativo fino a ora non ha dato risultati. In primo luogo non esiste mercato. Il palmito è frutto di due anni di lavoro: all’inizio lo pagavano 2,50 bolivianos – 0,38 dollari –, ora si vende per 50 centesimi. L’ananas, che in Chapare dà frutti giganti e permette due raccolti l’anno, si vende per 20 centesimi. Recentemente lanciarono il peperoncino, dicendo che se ne sarebbero tratti cinque bolivianos, ma il prezzo è sceso a un boliviano la cuartilla – unità di circa 800 grammi. C’è molta corruzione e i tecnici incaricati dei piani sono tutti dell’Azione democratica nazionalista, partito di governo”.
“Il governo si era impegnato a creare mercato; sono state stanziate cifre enormi. Andai a La Paz a parlare con Guillermo Fortún, Ministro del governo di Banzer: dovette ammettere che su 100 dollari iniziali, in Chapare, quando arrivano, ne arrivano 20. ‘Sviluppo’ non può significare portare qui una folla di tecnici e ingegneri, dotati di fiammanti fuoristrada; Arlacchi sostiene d’aver costruito, costruito... Costruito cosa? Sono discorsi che si possono spacciare in Europa, dove non si conosce la situazione. Le condizioni della gente e i dati parlano chiaro (4). Il denaro serve a mantenere un complesso militare impressionante. Un lacrimogeno costa 12 dollari, 18 se provoca vomito. L’anno passato siamo stati gassificati per due settimane. E qui si vede chi tira le fila: durante gli scontri ci fu un ferito grave. Era necessario l’intervento di un elicottero: ci dissero che bisognava chiedere un’autorizzazione, ma non al ministro, bensì agli americani. Così domandai ai militari: ‘non vi sentite umiliati?”.
Viaggiamo all’interno della municipalità di Villa Tunari con destinazione Isinuta, sede di un accampamento militare accerchiato, nel quale negli ultimi giorni si sono segnalati incidenti. La strada non è asfaltata, le sue condizioni peggiorano lungo il cammino. I villaggi sono miserabili ed è difficile indovinare i segni dell’antico benessere legato alla coca. Molte catapecchie sono tirate su con assi di legno, il pavimento in terra e un tavolato ammezzato che funge da dormitorio. Ci accompagna Rolando Gomerrez, rappresentante locale della Assemblea per i diritti umani. Ci parla delle ultime azioni dei militari e della recente gassificazione del villaggio con bombe lacrimogene. “I proiettili provocano vomito, irritazioni agli occhi e alle vie respiratorie: arrivarono alla una della notte, approfittando del nostro riposo”. Nell’occasione il vice sindaco locale fu aggredito e pestato a sangue nel suo ufficio. Per Rolando, la morte di Ramón Perez non può rappresentare un incidente: i militari sparano senza tregua. Denuncia detenzioni illegali e gravi e continue minacce ai dirigenti. Giungiamo a destinazione e incontriamo i membri del sindacato riuniti in assemblea. I pigli sono battaglieri, ma i visi rivelano la stanchezza, gli sguardi sono amareggiati. Dietro di noi giace, vuoto, il mercato della coca. La riunione è breve, gli oratori si esprimono in un misto di quechua e castigliano e la piccola folla si disperde dopo aver deciso di riprendere il presidio il lunedì successivo.
L’accampamento si trova alla fine del villaggio, tra la riva del fiume e il complesso scolastico. Camminiamo a lato delle installazioni, sorvegliati a vista dalle sentinelle appostare su di improvvisate torri di guardia. Di fronte all’ingresso ci attende una pattuglia, aria aggressiva e fucili spianati. Ci circondano, ci requisiscono i documenti e ci obbligano a entrare. Spunta un ufficiale che asserisce di averci incontrati giorni prima nel medesimo posto osservando le installazioni e d’aver scattato foto. La situazione per un momento si fa critica: qualsiasi giustificazione è usata a nostro carico. In particolare si accusa Rolando di aver introdotto persone estranee nell’area. Interviene il capitano, che si rivolge a noi in tutt’altra forma e spiega che, trattandosi di una zona rossa, sono in vigore misure eccezionali. In una mezz’ora ci restituiscono i documenti e l’ufficiale ci offre una bibita fresca. L’interno dell’accampamento è misero. La maggioranza dei soldati sono ragazzi di leva: i permessi sono sospesi e le uniche distrazioni sono un televisore sotto una tettoia e il piccolo chiosco dove siamo seduti. Le tende sono sgualcite e alla steccionata d’assi annerite mancano alcuni tratti. Come alleati dei poderosi yankee, non appaiono in buone condizioni.
Il capitano afferma che sua principale preoccupazione è che attorno al campo non corra sangue. La voce è cortese, lo sguardo afflitto. Ci domandiamo se si tratti dello stesso ufficiale che il giorno prima diede l’ordine d’attacco. Si dichiara amareggiato dalle conseguenze di questa guerra tra boliviani e mal sopporta i limiti alla sovranità imposti dalla presenza nordamericana. Ricorda come un tempo i politici incentivassero e si arricchissero con il traffico e si rende conto della povertà che lo circonda: “tuttavia le decisioni fondamentali non sono nostre...”. Un rappresentante dei diritti umani e un ufficiale dell’esercito di occupazione seduti alla stessa tavola: che sia un segno del destino?

Massimo Annibale Rossi

Note

1. Le dichiarazioni di Arlacchi sono messe a confronto con quelle di Padre Sperandio Ravasio, che partecipò alle trattative dello scorso settembre, e di Luciano Invernizzi, direttore della Ciudad del niño di San Rafael, in: Chi mente sul Chapare?, “Narcomafie”, aprile 2001, Torino, p. 16.
2. Luz Marina Canelas, El palmito chapareño tiene dura competencia, “Los Tiempos”, Cochabamba, 7 octubre 2001, p. c7.
3. I dati sono tratti dal Plan de Desarrollo del Trópico de Cochabamba; nei due anni successivi alla pubblicazione, la situazione si è aggravata.
4. Padre Sperandio si riferisce al citato Plan de Desarrollo.