Avrei voluto scriverle a Fabrizio queste
pagine.
A lui, che da quando avevo dodici anni e si parla di
un periodo che risale a qualche decennio fa... mi ha
accompagnato nella crescita, non solo anagrafica, ma in quella
dei sentimenti, delle emozioni, della politica; a lui, prima
o poi, avrei detto che la sua poesia ha fatto parte della mia
vita sino a darle argomenti che mi orientassero con “cognizione
di causa” nelle mie scelte.
Per certi aspetti, Fabrizio De André ha avuto per me
il ruolo che, solitamente, hanno i filosofi, i teorici ma anche
quegli uomini di azione che, attraverso le loro gesta, raccontandoti
la loro vita, ti dicono: «si può fare».
Come è naturale per un’identità “in formazione”,
filosofi e teorici di cui ho letto le pagine per cercare conferme
(e trovare dubbi), ne ho avuti diversi: Rousseau, Proudhon,
Marx, Sartre ma anche: Nietszche, Schopenauer, Kollontaj, Freud.
Altrettanti, e forse di più, gli uomini di azione ai
quali ho sempre riconosciuto il massimo rispetto. Sono stati
rivoluzionari che dialettizzavano la «critica delle armi»
con «le armi della critica» (il “Che”, prima di
tutti), ma sono stati anche tante donne e uomini senza nome
o con il nome che, ad esempio, puoi vedere sulle lapidi in ricordo
della Resistenza o conoscere solo se vai ad incontrarli in quei
posti di frontiera (quelli sì, veramente «off limits»),
dove vivono o, almeno, cercano di vivere i dannati della
Terra.
Ecco, così come con ciascuno di loro con Proudhon,
Marx, Sartre o Freud, così come con il prete conosciuto
nella Romania centrale che, senza domandare né soldi
né fede religiosa («gli occhi dischiuse il vecchio
al giorno/ non si guardò neppure intorno/ ma versò
il vino e spezzò il pane/ per chi diceva ho sete e ho
fame» (1) dava il suo aiuto a una massa di disperati che
facevano la fila sotto al sole per ricevere due pani e un thermos
di minestrone (insaporito, comunque, anche da parole affettuose,
da sguardi, da compassione, nel senso etimologico del termine:
patire insieme); o ancora, come con il vecchio compagno che
ha dedicato la vita alla causa e che, ancora adesso, pur di
fronte allo sgomento che è nei suoi e nei tuoi occhi,
sa trovare le parole e i gesti per spiegarti che «si può
fare» ecco, scrivevo, così come con ciascuno
di loro mi sarei seduto ad ascoltare, per imparare, per domandare,
per cogliere il significato più profondo delle loro parole,
per elaborarle e farle mie scegliendo ciò che meglio
si ritagliava su di me, così ho sempre fatto con Fabrizio.
Ho ascoltato le sue parole non come canzoni bensì come
poesie in musica che, non solo sintetizzavano in splendidi versi
frammenti di sguardi sul mondo, ma racchiudevano in dotti e
preziosi “bigini” intere biblioteche di saperi apocrifi ed eretici.
E ciò nonostante, Fabrizio non mi ha mai raccontato «la
verità» (e se queste pagine avessi potuto indirizzargliele,
lo avrei ringraziato di questa delicatezza che solo i geni dubbiosi
possiedono).
Fabrizio mi ha semplicemente cantato ciò che vedevano
i suoi occhi, ciò che percepiva la sua mente, ciò
che elaborava il suo pensiero. Non mi ha mai detto: «è
così» ma, tutt’al più: «io la vedo
così».
Troppo poco? Non credo, dato che quello che vedeva, e che mi
mostrava, era ciò che più veniva nascosto da tutti:
dalla famiglia, dalla scuola, dalla televisione, dai partiti;
cose di cui, a volte, pure con gli stessi compagni più
vicini faticavi a parlare.
Anche negli “anni migliori”, negli anni più belli, non
era facile, infatti, coniugare il proprio desiderio di riscatto
insieme a quello di tutti gli oppressi: gli oppressi dalla vita,
dalle coincidenze, dalla loro stessa immaginazione più
grande del plausibile, e non solo degli oppressi “ufficiali”
di cui, comunque, la storia, di tanto in tanto, si ricorda perché
utili alla storia stessa.
Non era facile considerare la propria liberazione comunque monca,
se quella stessa non fosse stata la liberazione di ogni individuo
da qualsiasi condizionamento: economico, sociale, ma anche etnico,
psicologico, culturale, sessuale.
Non se ne parlava, o se ne parlava male e quasi con timore,
come a rivelare una chissà quale perversione nel trattare
di soggetti non immediatamente, o per nulla, rispondenti ai
canoni tradizionali dei “soggetti rivoluzionari”: che c’entravano
potevi sentirti dire transessuali, rom, prostitute,
gay, tossicodipendenti con la lotta di classe?
Fabrizio, insieme ad altri ma meglio di altri
mi ha parlato di ciò che, invece, nessuno mi voleva parlare,
se non, magari, a fatica, con “non-detti”, con imbarazzi, reticenze,
luoghi comuni, ovvietà.
No, Fabrizio non aveva la presunzione di “indicare la strada”,
caso mai, l’unica presunzione che aveva era quella di riconoscere
a se stesso e agli altri la libertà della scelta, «la
libertà» in senso sartriano, ossia quella che si
fonda sull’assunto secondo il quale: «ciascuno di noi,
scegliendosi, sceglie per tutti gli uomini ... non c’è
un solo dei nostri atti che, creando l’uomo che vogliamo essere,
non crei nello stesso tempo una immagine dell’uomo quale noi
giudichiamo debba essere» (2).(...)
Generazione beat
Ma cosa significava per me «essere beat»? Oggi,
dicendo “beat”, mi sembra di usare un termine di un’epoca molto
vicina al paleolitico e, oltre a tutto, nessuno, a meno di non
aver memoria diretta o indiretta per motivi di studio
della prima metà degli anni Sessanta, può
essere a conoscenza di una stagione così breve (più
o meno tra il 1965 e il 1968), così particolare e, nello
stesso tempo, pur nella sua innocenza e ingenuità, così
radicale da provocare ire e interrogazioni parlamentari.
Essere “beat” significava molte cose. In primo luogo, l’essere
rimasti folgorati «davanti alla visione epifanica dei
Beatles» (3) il che, voleva dire l’essere stati abbagliati
dal modo dirompente e provocatorio di presentarsi, di vestirsi
e di muoversi dei quattro “ragazzi” di Liverpool. Per molti,
soprattutto se già avevano un po’ di adrenalina in corpo
che li portava ad avere fastidio delle convenzioni ipocrite
così ben espresse dall’Italia rappresentata da Carosello,
quell’apparizione innescò immediatamente un solo desiderio:
assomigliargli.
Oggi questa cosa può giustamente sembrare ridicola; all’epoca,
però sia chiaro, quella scelta, al di là del fatto
puramente estetico, non significava altro che mettere in discussione
il potere, qualsiasi esso fosse: della famiglia, della scuola,
della chiesa, del lavoro, delle istituzioni in genere.
Lasciar crescere i capelli, vestirsi in jeans, indossare minigonne
colorate, cose che oggi nessuno troverebbe sensato discutere
(però: mai dire mai...), in quel periodo divennero
simboli “per eccellenza” di diversità e di ribellione
al grigio conformismo imperante.
«Io sono quel che sono/ non faccio la vita che fai»
(4): potevo sottrarmi, pur nei limiti imposti dall’età,
a non far mia quella diversità e quella ribellione? No,
di certo...
Ma questo fu solo l’aspetto più esteriore della contestazione
generazionale che si era accesa. Molti, al di là dello
scegliere come colonna sonora del loro ribellismo estetico le
musiche che furoreggiavano al Piper (5) o che venivano
trasmesse da Bandiera gialla (6), si accontenteranno
di scandalizzare i benpensanti, appunto con i capelli lunghi,
i pullover corti in vita, le minigonne.
Nell’Italia di allora, comunque, questa scelta era già
“coraggiosa”: anche se l’industria, sempre fedele al motto «pecunia
non olet», coglierà al volo le opportunità
(7), l’opinione pubblica, aizzata da una stampa gretta e facile
agli scandalismi di bassa lega, “sparerà a zero” contro
quelli che chiama zazzeruti.
A maggior ragione lo farà contro l’area beat più
impegnata politicamente, quella che, sulla scia dei Provos olandesi
(8) e facendo proprio il messaggio di Bertrand Russel: «Fate
l’amore non fate la guerra!», elabora un pensiero e un
modus vivendi in cui pacifismo, antimilitarismo, libertarismo
si fondono con l’antiautoritarismo, il nomadismo, con la liberazione
sessuale suggerita da Wilhelm Reich e con la volontà
di “allargare le coscienze”, che fu il percorso indicato da
molti poeti di quella “beat generation” (9) per moltissimi aspetti
all’origine di ciò che stava avvenendo.
«E se non siamo come voi/ una ragione forse c’è/
e se non la sapete voi/ ma che colpa abbiamo noi» (10):
inutile dire che tutto ciò, in misura diversa, entrerà
nella mia formazione, anche perché, pur se giovanissimo,
nella reazione spropositata che il mondo borghese e piccolo
borghese stava avendo contro quel mondo giovanile non conformato,
percepirò il segno di uno iato irriducibile che mi avrebbe
per sempre diviso da chi fa dell’arroganza, dell’ignoranza e
della violenza i cardini attorno ai quali far ruotare il proprio
potere, i propri eserciti e le proprie polizie. E le proprie
“bande armate”. Contro «i capelloni e i sovversivi»,
infatti, si mobiliteranno giovani fascisti al soldo della borghesia
più reazionaria: verranno organizzate vere e proprie
“ronde” con aggressioni, pestaggi, accoltellamenti ai danni
di giovani “evidentemente” non in linea con i dettami del perbenismo
reazionario. Lo studente Paolo Rossi, verrà assassinato
durante un assalto di quella teppaglia — che tanto piaceva alla
cosiddetta “maggioranza silenziosa” — alla facoltà romana
di Giurisprudenza occupata dagli studenti (11).
E a dare costrutto e profondità alle mie percezioni,
ecco arrivarmi ancora in aiuto Fabrizio con il suo antimilitarismo,
con il suo antiautoritarismo, con la sua derisione dei potenti,
tanto forti quanto ridicoli (“in mutande”, appunto) nella loro
meschina arroganza.
Come Piero
Come stare, ad esempio, dalla parte delle “patrie” e dei generali
che hanno riempito il pianeta di cimiteri di guerra per infarcirli
di eroi «alla memoria» e come, invece, non condividere
la tragica, muta ma ribelle domanda di «lei che lo amava»
e che, aspettando il ritorno di un soldato vivo, «di un
eroe morto che ne farà?/ Se accanto, nel letto, le è
rimasta la gloria/ d’una medaglia alla memoria» (12)?
E poi Piero e la sua guerra (13), i cui accordi probabilmente
semplificati imparo subito e con essi il senso di una
giustizia che fa fatica ad affermarsi perché se gli uomini
non hanno la volontà di cambiare le regole del gioco,
diventano inevitabilmente carnefici, consenzienti alle regole
imposte loro dal potere.
Piero, che vorrebbe che lungo le sponde del suo torrente scendessero
«i lucci argentati/ non più i cadaveri dei soldati/
portati a spasso dalla corrente».
Piero, che , «come gli altri verso l’inferno», se
ne va triste «come chi deve» e che, mentre marcia
«con l’anima in spalle» vede «un uomo in fondo
alla valle» il cui umore umore di soldato costretto
a marciare agli ordini e per gli interessi di chi se ne sta
ben lontano dai campi di battaglia è sicuramente
identico al suo. Unico problema: «la divisa di un altro
colore».
Piero, che, per non «vedere gli occhi di un uomo che muore»,
disobbedisce alla regola che vorrebbe fargli imbracciare il
fucile e sparare fino a vedere il nemico «cadere in terra
a coprire il suo sangue».
Piero, che solo quando «la divisa di un altro colore»
gli spara, non ricambiandogli la cortesia di disobbedire anch’egli
alle regole, apprende sulla sua pelle la malvagia assurdità
della logica del potere.
Piero, che cade «a terra senza un lamento», Piero
che si accorge «in un solo momento» che il tempo
non gli «sarebbe bastato a chieder perdono per ogni peccato»
e che la sua vita «finiva quel giorno/ e non ci sarebbe
stato ritorno».
Piero, che oggi dorme «in un campo di grano» e che,
a vegliarlo «dall’ombra dei fossi», non ha né
la rosa né il tulipano ma «mille papaveri rossi».
Piero, per me, ma anche per centinaia di migliaia di persone
che ascolteranno la sua storia dalla voce di Fabrizio, diventa
il simbolo dell’assurdità, non della «Guerra»,
quella con la “g” maiuscola, simbolo volutamente astratto di
un pacifismo senza radici politiche, spesso ipocrita, capace
di “andare sotto braccio” all’untuoso e falso buonismo che,
ad ogni ricorrenza, politicanti e militari graduati sono capaci
di esprimere senza vergogna davanti agli ossari dei caduti.
No, Piero diventa il simbolo dell’oscenità della guerra
“vera”, quella che i potenti scatenano per i propri interessi
di profitto, di sopraffazione, di sfruttamento e che, per condurla,
procurano morte per migliaia, milioni di uomini, di donne, di
bambini. Ieri sul Carso, sulla Marna piuttosto che in Spagna,
in Albania, in Grecia, in Unione Sovietica; oggi in Iraq, in
Bosnia, nel Kosovo, in Costa d’Avorio e negli altri mille luoghi
più o meno sconosciuti in cui si combatte e si muore
senza “fare notizia”. E domani?
Piero è la “prova del nove” del fatto che «Al momento
di marciare molti non sanno/ che alla loro testa marcia il nemico./
La voce che li comanda/ è la voce del loro nemico./ E
chi parla del nemico/ è lui stesso nemico» (14).
Quando ascolto questa canzone, è ormai da tempo che al
telegiornale vedo le immagini dei massacri che gli USA stanno
compiendo nel Vietnam. Dalla stampa e ancora dalla televisione
vengo a sapere che, al grido di: «Johnson boia!»
(15), negli Stati Uniti, in Europa, nella mia stessa città,
sfilano cortei di studenti, di beatniks, di democratici. Una
canzone come C’era un ragazzo che come me amava i Beatles
e i Rolling Stones (16), altro brano che diventa uno dei
miei “pezzi forti” alla chitarra, mi fa capire, una volta di
più, l’assurdità che sto vivendo: io che suono
quella canzone, io che ascolto e che amo i Beatles e i Rolling
Stones e ragazzi, di poco più grandi di me, che in quel
preciso istante stanno uccidendo e stanno morendo invadendo
una piccola parte di mondo per difendere gli interessi dei potentati
economici terrorizzati dal comunismo.
Per quanto ingenua, la lettura che faccio della guerra nel Vietnam,
sarà per me, di lì a breve, la base di riferimento
per la comprensione reale di quei termini come “capitalismo”
e “imperialismo” che, all’epoca, cominciavo ad ascoltare sempre
più spesso senza capirne il significato se non facendomi
aiutare dai dizionari che consultavo ogni volta che “inciampavo”
in parole che non conoscevo.
In ogni caso, pur solidarizzando senza dubbi con il popolo vietnamita
(«l’eroico popolo vietnamita» come si diceva e come
dicevo allora), capisco che Piero, con la sua nausea per la
guerra, avrebbe potuto benissimo essere comunque lì,
in mezzo agli invasori, pronto, suo malgrado, a diventare un’altra
«medaglia alla memoria».
Lo stesso Piero, se avesse potuto, avrebbe fatto come David
Miller, giovane statunitense che per primo aveva bruciato la
propria cartolina precetto che lo “invitava” nel Vietnam...
Come aveva dichiarato durante un comizio Mario Savio, leader
del Free Speech Movement (17), Piero, davanti ai corpi
carbonizzati di Norman Morrison, Roger La Porta e di Alice Herz
che, contro la guerra nel Vietnam, si erano arsi vivi sui gradini
del Pentagono (18), avrebbe capito che
«C’è un’ora in cui le operazioni della macchina
divengono così odiose, provocano tanto disgusto, che
non si può più stare al gioco, nemmeno tacitamente.
È allora che bisogna mettere i nostri corpi sugli ingranaggi
e sulle ruote, sulle leve e su tutto l’apparato della macchina
per farla fermare. È allora che si deve far capire a
chi la fa funzionare, a chi ne è il padrone, che se pure
noi non siamo liberi impediremo ad ogni costo che la macchina
funzioni».
Romano Giuffrida
Note
1. De André F., Il pescatore in Fabrizio
De André, BMG - Ricordi. Anno di prima pubblicazione:
1970
2. Sartre J.P., L’esistenzialismo è un umanismo,
Editrice Mursia
3. Guarnaccia M., Abbasso i capelloni in Beat & Mondo
beat, Edizioni Millelire Stampa Alternativa, 1996
4. I Corvi, Un ragazzo di strada. 1966
5. Locale romano che apre i battenti nel 1965. Antesignano delle
moderne discoteche, è la versione, in stile anglosassone,
dei dancing e delle balere che fino ad allora avevano
soddisfatto la voglia di ballo degli italiani. Il Piper
romano sulla cui scia nasceranno numerosi locali più
o meno omonimi in tutta la penisola sarà un vero
e proprio fenomeno socioculturale e musicale in quegli anni.
6. Trasmissione radiofonica cui dovranno la loro notorietà
Renzo Arbore e Gianni Boncompagni. Bandiera gialla sarà
la prima trasmissione della RAI che proporrà regolarmente
le musiche beat che arrivavano d’Oltremanica o d’Oltreoceano.
Bandiera Gialla dovrà comunque sottomettersi ai
diktat censori dei dirigenti RAI che, in più di
un’occasione, si dimostreranno «più realisti del
re»: si pensi che impedirono la messa in onda di Dio
è morto, scritta da Francesco Guccini e portata al
successo dai Nomadi, accusandola di blasfemia quando invece
la stessa Radio Vaticana non ebbe problemi nel trasmetterla,
oltre a tutto sottolineandone gli elevati valori etici del messaggio.
7. Secondo un’indagine della Doxa commissionata nel 1965 dall’Unione
Italiana delle Camere di commercio, i ragazzi di età
compresa tra i 13 e i 19 anni, spendevano un miliardo e mezzo
al giorno, 540 miliardi l’anno. In quello stesso anno avevano
acquistato il 70 per cento dei 22 milioni di dischi e dei 400
mila giradischi; inoltre a “colpi” di monete da 50 e 100 lire
avevano fatto funzionare i 20mila juke-box della penisola con
una spesa annuale di 5 miliardi di lire.
8. Provos, “provocatori”, è il nome di un movimento
nato spontaneamente in Olanda nel 1965. Si dichiara: «contro
il capitalismo, contro il comunismo, contro il fascismo, la
burocrazia, il militarismo, il professionismo, il dogmatismo
e l’autoritarismo.» Il suo obiettivo è «incitare
alla resistenza ovunque sia possibile [...] ridar vita all’anarchia
e insegnarla ai giovani». Nei due anni di vita (il movimento
si scioglierà nel 1967) sarà all’origine di numerose
e fantasiose pratiche di disubbidienza civile e di provocazioni
di vario genere soprattutto nei confronti dei media.
9. Allen Ginsberg, Gregory Corso, Jack Kerouac, Lawrence Ferlinghetti
sono tra i più famosi di quella schiera di poeti e letterati
che, a partire dagli anni Cinquanta, animeranno la scena statunitense
propugnando modelli di vita totalmente alternativi ai modelli
occidentali e basati sul nomadismo, sull’antiautoritarismo,
sul pacifismo e sul consumo di sostanze allucinogene per «decondizionare»
la mente.
10. The Rokes, Ma che colpa abbiamo noi...
11. Illuminanti, a questo proposito, sono gli articoli del Corriere
della Sera di quel periodo: un vero e proprio esempio di
giornalismo fazioso e istigatore di violenza. «... esprimono
il tormento della generazione della bomba: e bisognerebbe buttargliela,
possibilmente carica di insetticida»; «da qualche
tempo infestano la scalinata di Trinità dei Monti [...]
uno di essi, mollemente sdraiato su una balaustra, è
caduto giù e si è provvidenzialmente rotto l’osso
del collo»; «non resta probabilmente che andare
a provocare anche quelli che rimangono. Andare lì, armati
di civismo, di insetticida e di forbici. O si lasciano disinfestare
e tagliare i capelli, e allora il problema è risolto;
o reagiscono, ingaggiano rissa, arrivano le guardie ed è
risolto lo stesso». Sono solo alcune “perle” pubblicate
dal Corriere il 5.11.65 a firma di Paolo Bugialli. Non
potendole citare tutte, rimando caldamente alla lettura del
già citato Abbasso i capelloni (cfr. nota 29).
In ogni caso sarebbe interessante fare un confronto tra gli
articoli di quell’epoca e quelli usciti sulla stampa nazionale
in occasione della riunione dei G8 a Genova. Le descrizioni
del movimento antiglobalizzazione e i commenti conseguenti,
probabilmente, non si discosterebbero di molto...
12. De André F., La ballata dell’eroe in Volume
III, op. cit. Anno di prima pubblicazione 1961.
13. De André F., La guerra di Piero in Volume
III, op. cit . Anno di prima pubblicazione 1964.
14. Brecht B., Al momento di marciare molti non sanno,
op. cit.
15. Lindon Baines Johnson, divenne presidente degli Stati Uniti
nel 1963 succedendo a J. F. Kennedy, assassinato nel novembre
dello stesso anno. Ordinerà l’escalation dell’intervento
americano in Vietnam.
16. Brano che venne portato al successo da Gianni Morandi in
Italia nel 1966. Negli successivi, grazie a Joan Baez, C’era
un ragazzo che come me... verrà conosciuta a livello
internazionale.
17. Il Free Speech Movement animò, a partire dall’Università
di Berkeley, la prima ribellione di massa degli studenti nelle
università californiane. Dal 14 settembre 1964 al 4 gennaio
1965 il FSM bloccò le attività didattiche con
la tattica della disubbidienza civile ponendo di fronte all’opinione
pubblica e al corpo accademico, temi quali: gli obiettivi dell’istruzione,
il rifiuto degli studenti di essere trattati come prodotti di
una catena di montaggio, la protesta per l’asservimento dell’Università
all’industria militare e alle ricerche fatte per l’esercito.
18. Il tragico gesto venne compiuto dai tre ragazzi nel 1965
durante quelle che vennero chiamate “Giornate internazionali
di protesta”. Per una conoscenza più approfondita, rinvio
alla lettura di L’altra America negli anni Sessanta,
Arcana Editrice, Roma 1993
Si
intitola Fabrizio De André - ... in volo per
il mondo..., ha 82 pagine, costa 23,24 euro (45.000
lire). È un libro prevalentemente fotografico,
di grande qualità, appena uscito nelle librerie,
edito dalla Tipografia Mori di Aulla la stessa
che ha pubblicato recentemente un bel poster e una dozzina
di cartoline, sempre dedicati al cantautore genovese.
Gli interventi dell’esperto di fotografia Denis Curti
e del poeta anarchico Mauro Macario, oltre ad una dedica
di Dori Ghezzi, precedono una cinquantina di foto, scattate
da Reinhold “Denny” Kohl a cavallo tra gli anni 70
e gli 80. Gran parte di queste foto sono esposte
in questi mesi in alcune librerie Feltrinelli e in alcuni
RicordiMediaStores, nell’ambito di una mostra intitolata
“Signora libertà, signorina anarchia”. Per info:
Tipografia Mori, viale Lunigiana 13, 54011 Aulla (Ms),
tel. 0187 421 403, fax 0187 421 396, e-mail morimarina@libero.it
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