rivista anarchica
anno 31 n. 277
dicembre 2001 - gennaio 2002


De André

Gli occhi della memoria
di Romano Giuffrida

Con questo titolo (sottotitolo: “Tracce di ricordi con Fabrizio”) è in uscita a gennaio, per i tipi di Elèuthera, un nuovo volume sul cantautore genovese. Con lettere, tra gli altri, di Carla Corso, Giorgio Bezzecchi, Andrea Gallo, Claudio Lolli, Alda Merini, Tonino Paroli e Stefano Raspa. Eccone due stralci.

Avrei voluto scriverle a Fabrizio queste pagine.
A lui, che da quando avevo dodici anni – e si parla di un periodo che risale a qualche decennio fa... – mi ha accompagnato nella crescita, non solo anagrafica, ma in quella dei sentimenti, delle emozioni, della politica; a lui, prima o poi, avrei detto che la sua poesia ha fatto parte della mia vita sino a darle argomenti che mi orientassero con “cognizione di causa” nelle mie scelte.
Per certi aspetti, Fabrizio De André ha avuto per me il ruolo che, solitamente, hanno i filosofi, i teorici ma anche quegli uomini di azione che, attraverso le loro gesta, raccontandoti la loro vita, ti dicono: «si può fare».
Come è naturale per un’identità “in formazione”, filosofi e teorici di cui ho letto le pagine per cercare conferme (e trovare dubbi), ne ho avuti diversi: Rousseau, Proudhon, Marx, Sartre ma anche: Nietszche, Schopenauer, Kollontaj, Freud.
Altrettanti, e forse di più, gli uomini di azione ai quali ho sempre riconosciuto il massimo rispetto. Sono stati rivoluzionari che dialettizzavano la «critica delle armi» con «le armi della critica» (il “Che”, prima di tutti), ma sono stati anche tante donne e uomini senza nome o con il nome che, ad esempio, puoi vedere sulle lapidi in ricordo della Resistenza o conoscere solo se vai ad incontrarli in quei posti di frontiera (quelli sì, veramente «off limits»), dove vivono o, almeno, cercano di vivere i dannati della Terra.
Ecco, così come con ciascuno di loro – con Proudhon, Marx, Sartre o Freud, così come con il prete conosciuto nella Romania centrale che, senza domandare né soldi né fede religiosa («gli occhi dischiuse il vecchio al giorno/ non si guardò neppure intorno/ ma versò il vino e spezzò il pane/ per chi diceva ho sete e ho fame» (1) dava il suo aiuto a una massa di disperati che facevano la fila sotto al sole per ricevere due pani e un thermos di minestrone (insaporito, comunque, anche da parole affettuose, da sguardi, da compassione, nel senso etimologico del termine: patire insieme); o ancora, come con il vecchio compagno che ha dedicato la vita alla causa e che, ancora adesso, pur di fronte allo sgomento che è nei suoi e nei tuoi occhi, sa trovare le parole e i gesti per spiegarti che «si può fare» – ecco, scrivevo, così come con ciascuno di loro mi sarei seduto ad ascoltare, per imparare, per domandare, per cogliere il significato più profondo delle loro parole, per elaborarle e farle mie scegliendo ciò che meglio si ritagliava su di me, così ho sempre fatto con Fabrizio.
Ho ascoltato le sue parole non come canzoni bensì come poesie in musica che, non solo sintetizzavano in splendidi versi frammenti di sguardi sul mondo, ma racchiudevano in dotti e preziosi “bigini” intere biblioteche di saperi apocrifi ed eretici.
E ciò nonostante, Fabrizio non mi ha mai raccontato «la verità» (e se queste pagine avessi potuto indirizzargliele, lo avrei ringraziato di questa delicatezza che solo i geni dubbiosi possiedono).
Fabrizio mi ha semplicemente cantato ciò che vedevano i suoi occhi, ciò che percepiva la sua mente, ciò che elaborava il suo pensiero. Non mi ha mai detto: «è così» ma, tutt’al più: «io la vedo così».
Troppo poco? Non credo, dato che quello che vedeva, e che mi mostrava, era ciò che più veniva nascosto da tutti: dalla famiglia, dalla scuola, dalla televisione, dai partiti; cose di cui, a volte, pure con gli stessi compagni più vicini faticavi a parlare.
Anche negli “anni migliori”, negli anni più belli, non era facile, infatti, coniugare il proprio desiderio di riscatto insieme a quello di tutti gli oppressi: gli oppressi dalla vita, dalle coincidenze, dalla loro stessa immaginazione più grande del plausibile, e non solo degli oppressi “ufficiali” di cui, comunque, la storia, di tanto in tanto, si ricorda perché utili alla storia stessa.
Non era facile considerare la propria liberazione comunque monca, se quella stessa non fosse stata la liberazione di ogni individuo da qualsiasi condizionamento: economico, sociale, ma anche etnico, psicologico, culturale, sessuale.
Non se ne parlava, o se ne parlava male e quasi con timore, come a rivelare una chissà quale perversione nel trattare di soggetti non immediatamente, o per nulla, rispondenti ai canoni tradizionali dei “soggetti rivoluzionari”: che c’entravano – potevi sentirti dire – transessuali, rom, prostitute, gay, tossicodipendenti con la lotta di classe?
Fabrizio, insieme ad altri – ma meglio di altri – mi ha parlato di ciò che, invece, nessuno mi voleva parlare, se non, magari, a fatica, con “non-detti”, con imbarazzi, reticenze, luoghi comuni, ovvietà.
No, Fabrizio non aveva la presunzione di “indicare la strada”, caso mai, l’unica presunzione che aveva era quella di riconoscere a se stesso e agli altri la libertà della scelta, «la libertà» in senso sartriano, ossia quella che si fonda sull’assunto secondo il quale: «ciascuno di noi, scegliendosi, sceglie per tutti gli uomini ... non c’è un solo dei nostri atti che, creando l’uomo che vogliamo essere, non crei nello stesso tempo una immagine dell’uomo quale noi giudichiamo debba essere» (2).(...)

 

Generazione beat

Ma cosa significava per me «essere beat»? Oggi, dicendo “beat”, mi sembra di usare un termine di un’epoca molto vicina al paleolitico e, oltre a tutto, nessuno, a meno di non aver memoria diretta – o indiretta per motivi di studio – della prima metà degli anni Sessanta, può essere a conoscenza di una stagione così breve (più o meno tra il 1965 e il 1968), così particolare e, nello stesso tempo, pur nella sua innocenza e ingenuità, così radicale da provocare ire e interrogazioni parlamentari.
Essere “beat” significava molte cose. In primo luogo, l’essere rimasti folgorati «davanti alla visione epifanica dei Beatles» (3) il che, voleva dire l’essere stati abbagliati dal modo dirompente e provocatorio di presentarsi, di vestirsi e di muoversi dei quattro “ragazzi” di Liverpool. Per molti, soprattutto se già avevano un po’ di adrenalina in corpo che li portava ad avere fastidio delle convenzioni ipocrite così ben espresse dall’Italia rappresentata da Carosello, quell’apparizione innescò immediatamente un solo desiderio: assomigliargli.
Oggi questa cosa può giustamente sembrare ridicola; all’epoca, però sia chiaro, quella scelta, al di là del fatto puramente estetico, non significava altro che mettere in discussione il potere, qualsiasi esso fosse: della famiglia, della scuola, della chiesa, del lavoro, delle istituzioni in genere.
Lasciar crescere i capelli, vestirsi in jeans, indossare minigonne colorate, cose che oggi nessuno troverebbe sensato discutere (però: mai dire mai...), in quel periodo divennero simboli “per eccellenza” di diversità e di ribellione al grigio conformismo imperante.
«Io sono quel che sono/ non faccio la vita che fai» (4): potevo sottrarmi, pur nei limiti imposti dall’età, a non far mia quella diversità e quella ribellione? No, di certo...
Ma questo fu solo l’aspetto più esteriore della contestazione generazionale che si era accesa. Molti, al di là dello scegliere come colonna sonora del loro ribellismo estetico le musiche che furoreggiavano al Piper (5) o che venivano trasmesse da Bandiera gialla (6), si accontenteranno di scandalizzare i benpensanti, appunto con i capelli lunghi, i pullover corti in vita, le minigonne.
Nell’Italia di allora, comunque, questa scelta era già “coraggiosa”: anche se l’industria, sempre fedele al motto «pecunia non olet», coglierà al volo le opportunità (7), l’opinione pubblica, aizzata da una stampa gretta e facile agli scandalismi di bassa lega, “sparerà a zero” contro quelli che chiama zazzeruti.
A maggior ragione lo farà contro l’area beat più impegnata politicamente, quella che, sulla scia dei Provos olandesi (8) e facendo proprio il messaggio di Bertrand Russel: «Fate l’amore non fate la guerra!», elabora un pensiero e un modus vivendi in cui pacifismo, antimilitarismo, libertarismo si fondono con l’antiautoritarismo, il nomadismo, con la liberazione sessuale suggerita da Wilhelm Reich e con la volontà di “allargare le coscienze”, che fu il percorso indicato da molti poeti di quella “beat generation” (9) per moltissimi aspetti all’origine di ciò che stava avvenendo.
«E se non siamo come voi/ una ragione forse c’è/ e se non la sapete voi/ ma che colpa abbiamo noi» (10): inutile dire che tutto ciò, in misura diversa, entrerà nella mia formazione, anche perché, pur se giovanissimo, nella reazione spropositata che il mondo borghese e piccolo borghese stava avendo contro quel mondo giovanile non conformato, percepirò il segno di uno iato irriducibile che mi avrebbe per sempre diviso da chi fa dell’arroganza, dell’ignoranza e della violenza i cardini attorno ai quali far ruotare il proprio potere, i propri eserciti e le proprie polizie. E le proprie “bande armate”. Contro «i capelloni e i sovversivi», infatti, si mobiliteranno giovani fascisti al soldo della borghesia più reazionaria: verranno organizzate vere e proprie “ronde” con aggressioni, pestaggi, accoltellamenti ai danni di giovani “evidentemente” non in linea con i dettami del perbenismo reazionario. Lo studente Paolo Rossi, verrà assassinato durante un assalto di quella teppaglia — che tanto piaceva alla cosiddetta “maggioranza silenziosa” — alla facoltà romana di Giurisprudenza occupata dagli studenti (11).
E a dare costrutto e profondità alle mie percezioni, ecco arrivarmi ancora in aiuto Fabrizio con il suo antimilitarismo, con il suo antiautoritarismo, con la sua derisione dei potenti, tanto forti quanto ridicoli (“in mutande”, appunto) nella loro meschina arroganza.


Come Piero

Come stare, ad esempio, dalla parte delle “patrie” e dei generali che hanno riempito il pianeta di cimiteri di guerra per infarcirli di eroi «alla memoria» e come, invece, non condividere la tragica, muta ma ribelle domanda di «lei che lo amava» e che, aspettando il ritorno di un soldato vivo, «di un eroe morto che ne farà?/ Se accanto, nel letto, le è rimasta la gloria/ d’una medaglia alla memoria» (12)?
E poi Piero e la sua guerra (13), i cui accordi – probabilmente semplificati – imparo subito e con essi il senso di una giustizia che fa fatica ad affermarsi perché se gli uomini non hanno la volontà di cambiare le regole del gioco, diventano inevitabilmente carnefici, consenzienti alle regole imposte loro dal potere.
Piero, che vorrebbe che lungo le sponde del suo torrente scendessero «i lucci argentati/ non più i cadaveri dei soldati/ portati a spasso dalla corrente».
Piero, che , «come gli altri verso l’inferno», se ne va triste «come chi deve» e che, mentre marcia «con l’anima in spalle» vede «un uomo in fondo alla valle» il cui umore – umore di soldato costretto a marciare agli ordini e per gli interessi di chi se ne sta ben lontano dai campi di battaglia – è sicuramente identico al suo. Unico problema: «la divisa di un altro colore».
Piero, che, per non «vedere gli occhi di un uomo che muore», disobbedisce alla regola che vorrebbe fargli imbracciare il fucile e sparare fino a vedere il nemico «cadere in terra a coprire il suo sangue».
Piero, che solo quando «la divisa di un altro colore» gli spara, non ricambiandogli la cortesia di disobbedire anch’egli alle regole, apprende sulla sua pelle la malvagia assurdità della logica del potere.
Piero, che cade «a terra senza un lamento», Piero che si accorge «in un solo momento» che il tempo non gli «sarebbe bastato a chieder perdono per ogni peccato» e che la sua vita «finiva quel giorno/ e non ci sarebbe stato ritorno».
Piero, che oggi dorme «in un campo di grano» e che, a vegliarlo «dall’ombra dei fossi», non ha né la rosa né il tulipano ma «mille papaveri rossi».
Piero, per me, ma anche per centinaia di migliaia di persone che ascolteranno la sua storia dalla voce di Fabrizio, diventa il simbolo dell’assurdità, non della «Guerra», quella con la “g” maiuscola, simbolo volutamente astratto di un pacifismo senza radici politiche, spesso ipocrita, capace di “andare sotto braccio” all’untuoso e falso buonismo che, ad ogni ricorrenza, politicanti e militari graduati sono capaci di esprimere senza vergogna davanti agli ossari dei caduti.
No, Piero diventa il simbolo dell’oscenità della guerra “vera”, quella che i potenti scatenano per i propri interessi di profitto, di sopraffazione, di sfruttamento e che, per condurla, procurano morte per migliaia, milioni di uomini, di donne, di bambini. Ieri sul Carso, sulla Marna piuttosto che in Spagna, in Albania, in Grecia, in Unione Sovietica; oggi in Iraq, in Bosnia, nel Kosovo, in Costa d’Avorio e negli altri mille luoghi più o meno sconosciuti in cui si combatte e si muore senza “fare notizia”. E domani?
Piero è la “prova del nove” del fatto che «Al momento di marciare molti non sanno/ che alla loro testa marcia il nemico./ La voce che li comanda/ è la voce del loro nemico./ E chi parla del nemico/ è lui stesso nemico» (14).
Quando ascolto questa canzone, è ormai da tempo che al telegiornale vedo le immagini dei massacri che gli USA stanno compiendo nel Vietnam. Dalla stampa e ancora dalla televisione vengo a sapere che, al grido di: «Johnson boia!» (15), negli Stati Uniti, in Europa, nella mia stessa città, sfilano cortei di studenti, di beatniks, di democratici. Una canzone come C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones (16), altro brano che diventa uno dei miei “pezzi forti” alla chitarra, mi fa capire, una volta di più, l’assurdità che sto vivendo: io che suono quella canzone, io che ascolto e che amo i Beatles e i Rolling Stones e ragazzi, di poco più grandi di me, che in quel preciso istante stanno uccidendo e stanno morendo invadendo una piccola parte di mondo per difendere gli interessi dei potentati economici terrorizzati dal comunismo.
Per quanto ingenua, la lettura che faccio della guerra nel Vietnam, sarà per me, di lì a breve, la base di riferimento per la comprensione reale di quei termini come “capitalismo” e “imperialismo” che, all’epoca, cominciavo ad ascoltare sempre più spesso senza capirne il significato se non facendomi aiutare dai dizionari che consultavo ogni volta che “inciampavo” in parole che non conoscevo.
In ogni caso, pur solidarizzando senza dubbi con il popolo vietnamita («l’eroico popolo vietnamita» come si diceva e come dicevo allora), capisco che Piero, con la sua nausea per la guerra, avrebbe potuto benissimo essere comunque lì, in mezzo agli invasori, pronto, suo malgrado, a diventare un’altra «medaglia alla memoria».
Lo stesso Piero, se avesse potuto, avrebbe fatto come David Miller, giovane statunitense che per primo aveva bruciato la propria cartolina precetto che lo “invitava” nel Vietnam...
Come aveva dichiarato durante un comizio Mario Savio, leader del Free Speech Movement (17), Piero, davanti ai corpi carbonizzati di Norman Morrison, Roger La Porta e di Alice Herz che, contro la guerra nel Vietnam, si erano arsi vivi sui gradini del Pentagono (18), avrebbe capito che
«C’è un’ora in cui le operazioni della macchina divengono così odiose, provocano tanto disgusto, che non si può più stare al gioco, nemmeno tacitamente. È allora che bisogna mettere i nostri corpi sugli ingranaggi e sulle ruote, sulle leve e su tutto l’apparato della macchina per farla fermare. È allora che si deve far capire a chi la fa funzionare, a chi ne è il padrone, che se pure noi non siamo liberi impediremo ad ogni costo che la macchina funzioni».

Romano Giuffrida

Note

1. De André F., Il pescatore in Fabrizio De André, BMG - Ricordi. Anno di prima pubblicazione: 1970
2. Sartre J.P., L’esistenzialismo è un umanismo, Editrice Mursia
3. Guarnaccia M., Abbasso i capelloni in Beat & Mondo beat, Edizioni Millelire Stampa Alternativa, 1996
4. I Corvi, Un ragazzo di strada. 1966
5. Locale romano che apre i battenti nel 1965. Antesignano delle moderne discoteche, è la versione, in stile anglosassone, dei dancing e delle balere che fino ad allora avevano soddisfatto la voglia di ballo degli italiani. Il Piper romano – sulla cui scia nasceranno numerosi locali più o meno omonimi in tutta la penisola – sarà un vero e proprio fenomeno socioculturale e musicale in quegli anni.
6. Trasmissione radiofonica cui dovranno la loro notorietà Renzo Arbore e Gianni Boncompagni. Bandiera gialla sarà la prima trasmissione della RAI che proporrà regolarmente le musiche beat che arrivavano d’Oltremanica o d’Oltreoceano. Bandiera Gialla dovrà comunque sottomettersi ai diktat censori dei dirigenti RAI che, in più di un’occasione, si dimostreranno «più realisti del re»: si pensi che impedirono la messa in onda di Dio è morto, scritta da Francesco Guccini e portata al successo dai Nomadi, accusandola di blasfemia quando invece la stessa Radio Vaticana non ebbe problemi nel trasmetterla, oltre a tutto sottolineandone gli elevati valori etici del messaggio.
7. Secondo un’indagine della Doxa commissionata nel 1965 dall’Unione Italiana delle Camere di commercio, i ragazzi di età compresa tra i 13 e i 19 anni, spendevano un miliardo e mezzo al giorno, 540 miliardi l’anno. In quello stesso anno avevano acquistato il 70 per cento dei 22 milioni di dischi e dei 400 mila giradischi; inoltre a “colpi” di monete da 50 e 100 lire avevano fatto funzionare i 20mila juke-box della penisola con una spesa annuale di 5 miliardi di lire.
8. Provos, “provocatori”, è il nome di un movimento nato spontaneamente in Olanda nel 1965. Si dichiara: «contro il capitalismo, contro il comunismo, contro il fascismo, la burocrazia, il militarismo, il professionismo, il dogmatismo e l’autoritarismo.» Il suo obiettivo è «incitare alla resistenza ovunque sia possibile [...] ridar vita all’anarchia e insegnarla ai giovani». Nei due anni di vita (il movimento si scioglierà nel 1967) sarà all’origine di numerose e fantasiose pratiche di disubbidienza civile e di provocazioni di vario genere soprattutto nei confronti dei media.
9. Allen Ginsberg, Gregory Corso, Jack Kerouac, Lawrence Ferlinghetti sono tra i più famosi di quella schiera di poeti e letterati che, a partire dagli anni Cinquanta, animeranno la scena statunitense propugnando modelli di vita totalmente alternativi ai modelli occidentali e basati sul nomadismo, sull’antiautoritarismo, sul pacifismo e sul consumo di sostanze allucinogene per «decondizionare» la mente.
10. The Rokes, Ma che colpa abbiamo noi...
11. Illuminanti, a questo proposito, sono gli articoli del Corriere della Sera di quel periodo: un vero e proprio esempio di giornalismo fazioso e istigatore di violenza. «... esprimono il tormento della generazione della bomba: e bisognerebbe buttargliela, possibilmente carica di insetticida»; «da qualche tempo infestano la scalinata di Trinità dei Monti [...] uno di essi, mollemente sdraiato su una balaustra, è caduto giù e si è provvidenzialmente rotto l’osso del collo»; «non resta probabilmente che andare a provocare anche quelli che rimangono. Andare lì, armati di civismo, di insetticida e di forbici. O si lasciano disinfestare e tagliare i capelli, e allora il problema è risolto; o reagiscono, ingaggiano rissa, arrivano le guardie ed è risolto lo stesso». Sono solo alcune “perle” pubblicate dal Corriere il 5.11.65 a firma di Paolo Bugialli. Non potendole citare tutte, rimando caldamente alla lettura del già citato Abbasso i capelloni (cfr. nota 29). In ogni caso sarebbe interessante fare un confronto tra gli articoli di quell’epoca e quelli usciti sulla stampa nazionale in occasione della riunione dei G8 a Genova. Le descrizioni del movimento antiglobalizzazione e i commenti conseguenti, probabilmente, non si discosterebbero di molto...
12. De André F., La ballata dell’eroe in Volume III, op. cit. Anno di prima pubblicazione 1961.
13. De André F., La guerra di Piero in Volume III, op. cit . Anno di prima pubblicazione 1964.
14. Brecht B., Al momento di marciare molti non sanno, op. cit.
15. Lindon Baines Johnson, divenne presidente degli Stati Uniti nel 1963 succedendo a J. F. Kennedy, assassinato nel novembre dello stesso anno. Ordinerà l’escalation dell’intervento americano in Vietnam.
16. Brano che venne portato al successo da Gianni Morandi in Italia nel 1966. Negli successivi, grazie a Joan Baez, C’era un ragazzo che come me... verrà conosciuta a livello internazionale.
17. Il Free Speech Movement animò, a partire dall’Università di Berkeley, la prima ribellione di massa degli studenti nelle università californiane. Dal 14 settembre 1964 al 4 gennaio 1965 il FSM bloccò le attività didattiche con la tattica della disubbidienza civile ponendo di fronte all’opinione pubblica e al corpo accademico, temi quali: gli obiettivi dell’istruzione, il rifiuto degli studenti di essere trattati come prodotti di una catena di montaggio, la protesta per l’asservimento dell’Università all’industria militare e alle ricerche fatte per l’esercito.
18. Il tragico gesto venne compiuto dai tre ragazzi nel 1965 durante quelle che vennero chiamate “Giornate internazionali di protesta”. Per una conoscenza più approfondita, rinvio alla lettura di L’altra America negli anni Sessanta, Arcana Editrice, Roma 1993


Si intitola Fabrizio De André - ... in volo per il mondo..., ha 82 pagine, costa 23,24 euro (45.000 lire). È un libro prevalentemente fotografico, di grande qualità, appena uscito nelle librerie, edito dalla Tipografia Mori di Aulla – la stessa che ha pubblicato recentemente un bel poster e una dozzina di cartoline, sempre dedicati al cantautore genovese. Gli interventi dell’esperto di fotografia Denis Curti e del poeta anarchico Mauro Macario, oltre ad una dedica di Dori Ghezzi, precedono una cinquantina di foto, scattate da Reinhold “Denny” Kohl a cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80. Gran parte di queste foto sono esposte in questi mesi in alcune librerie Feltrinelli e in alcuni RicordiMediaStores, nell’ambito di una mostra intitolata “Signora libertà, signorina anarchia”. Per info: Tipografia Mori, viale Lunigiana 13, 54011 Aulla (Ms), tel. 0187 421 403, fax 0187 421 396, e-mail morimarina@libero.it