Quando la Cia a(r)mava
Bin Laden
Sabato 20 ottobre 2001, il Centro Studi Libertari e il Laboratorio
Libertario, con la collaborazione del Comune di Venezia, hanno
promosso un incontro con John Cooley presso il Municipio di
Mestre. Questa è la presentazione di Piero Brunello.
1. John Cooley è un giornalista americano e lavora per
la ABC News. Questo libro (Una guerra empia. La Cia e l’estremismo
islamico, Elèuthera, Milano 2000, pp. 399, L. 35.000)
è stato pubblicato a Londra nel 1999 con il titolo Guerre
empie. Afganistan, America e terrorismo internazionale:
le “guerre empie” sono le “guerre sante” condotte – così
viene dichiarato – in nome dell’Islam (1).
Il libro si apre con una citazione da Il Principe di
Machiavelli, dove si dice che “l’arme mercenarie sono inutile
e periculose”. Così si entra nell’argomento del libro:
quando nel 1979 l’Unione Sovietica invase l’Afganistan, gli
Stati Uniti promossero una “guerra santa”, e reclutarono a tale
scopo nel mondo islamico 250mila mercenari, i quali, dopo avere
respinto l’invasione sovietica, diedero vita a un terrorismo
su scala mondiale, in primo luogo contro gli Stati Uniti.
L’alleanza promossa dagli Stati Uniti era formata da “alcuni
tra i più reazionari e fanatici esponenti dell’Islam”
(p. 13), e cioè la dittatura militare pakistana e il
governo dell’Arabia Saudita. Alla coalizione aderirono la Cina
(p. 111) e il governo inglese della Thatcher (p. 152). Inoltre
sarebbe stato “fondamentale” il ruolo di Israele, ma non ci
sono prove (p. 64).
Funzionari della Cia e ufficiali pakistani addestrarono i mercenari
che l’A. chiama “islamisti” e non “fondamentalisti”, termine
che giudica “logoro e impreciso” (p. 14). Il reclutamento fu
delegato a enti religiosi o filantropici musulmani (p. 138).
Furono aperte a tale scopo scuole religiose islamiche (p. 139).
In un primo tempo la consegna delle armi era fatta in segreto
(p. 94), ma nel 1984-85 c’è una autorizzazione del Congresso
statunitense per la consegna ai combattenti afgani “dei micidiali
missili Stinger” (p. 180). La Cia trasportava con aerei americani
armi egiziane in Pakistan, affidandole all’esercito locale,
che le distribuiva “con bella percentuale di sprechi e di corruzione”
(p. 67). Per scampare alla guerra, da due terzi a metà
degli abitanti afgani si rifugiarono in Pakistan o in altri
paesi; Kabul fu ridotta ad ammassi di rovine.
I mercenari erano pagati bene, da 100 a 300 dollari al mese:
“somme enormi” per gli standard dei loro paesi (p. 177). I fondi
destinati agli islamisti passavano attraverso società
di comodo con sede in Svizzera, Francia, Stati Uniti (p. 203).
Nel primo anno di occupazione sovietica il giornalista americano
Bob Woodward parla di cento milioni di dollari destinati ai
guerriglieri antisovietici (p. 179); altrettanto denaro era
fornito dal regno saudita; infine “si aggiungevano i milioni
di dollari provenienti dai patrimoni arabi privati” (p. 182).
Bin Laden, apparve ai sauditi e alla Cia il leader ideale (p.
194), e aprì un ufficio a Londra (p. 201).
La guerra in Afganistan diede “un impulso decisivo” al “mostruoso
e redditizio business internazionale” del traffico di droga
(p. 209). La droga sequestrata negli Stati Uniti – eroina, cocaina
– veniva venduta ai soldati russi, e di lì nella società
russa. Da allora la tossicodipendenza si è diffusa fino
a raggiungere “proporzioni gigantesche” nella società
postsovietica (pp. 210-211). I mujahedin afgani aumentarono
la produzione di droga per comprare armi (pp. 215, 226). Inoltre
missili Stinger americani finirono nelle mani dei “contrabbandieri
di droga che intendevano così eliminare gli elicotteri
che ostacolavano i loro traffici” (p. 281). Nel 1999 l’Afganistan
risulta il primo paese produttore d’oppio (p. 225).
2. Sconfitta l’Unione Sovietica nel 1989, i reduci dalla guerra
in Afganistan portarono le “guerre empie” in altre parti del
mondo.
In Algeria furono veterani dell’Afganistan “armati e ben addestrati,
a istigare, scatenare e guidare le prime azioni terroristiche
e di guerriglia delle milizie islamiche” (p. 21): tra il 1992
e il 1998 furono uccise 100.000 persone.
Il terrorismo, compiuto da mercenari afgani, cominciò
a colpire la provincia dello Xinijang, in Cina, abitata da popolazioni
musulmane (p. 111).
Nella regione indiana del Kashmir, guerriglieri che avevano
combattuto nella guerra afgana, appoggiati dai servizi segreti
pakistani, diedero il via a un piano terroristico volto alla
secessione dall’India (p. 22). Crebbero i conflitti sanguinosi
tra indù e musulmani. Nel marzo 1993 le bombe a Bombay,
capitale finanziaria dell’India (“un parallelo interessante
con l’obiettivo del World Trade Center, nel centro finanziario
di New York”, osserva Cooley) fecero in India oltre 300 morti
e circa 1.200 feriti (pp. 373-374).
Nel 1994 fallì un piano dei terroristi islamisti che
agivano nelle Filippine, per impadronirsi nello stesso giorno
di 11 aerei americani nel Pacifico (p. 377).
Fu un terrorista egiziano, addestrato nella guerra afgana, a
dirigere l’uccisione di 58 turisti stranieri a Luxor, in Egitto,
nel 1997 (p. 299)
Infine, il terrorismo “si muove ora all’attacco degli Stati
Uniti” (p. 22). Le bombe al World Trade Center del 26 febbraio
1993, fecero sei vittime e migliaia di feriti. Molti responsabili
erano stati addestrati dalla Cia (p. 356); la bomba, che aprì
un cratere di 65 metri, “risultò composta di nitrato
di ammonio e nafta, come da manuali della Cia”, di cui alcune
copie “furono trovate in possesso dei cospiratori” (p. 381).
Dopo questo inizio, un piano “prevedeva di distruggere almeno
undici aerei di linea americano in un sol giorno” (pp. 22-23).
Nell’estate del 1998, bombe scoppiarono nelle zone vicino alle
ambasciate americane di Nairobi e di Dar-es-Salaam. Ci furono
più di 200 morti e oltre 4.500 feriti (p. 351). Gli Usa
bombardarono i campi di Usama bin Laden in Afganistan, progettati
dalla Cia e dai servizi segreti pakistani, e una fabbrica in
Sudan, accusata di produrre materiale bellico: dopo molte proteste
nei paesi arabi, giornali come il “New York Times” e il “Washington
Post” ammisero che si trattava di una fabbrica di medicinali
(pp. 353-354).
Alla fine del secolo, scrive Cooley, “i responsabili di gran
parte del terrorismo politico postbellico in Occidente non sono
tanto governi criminali quanto magnati privati”; questa “privatizzazione
strisciante” della guerra “fu il frutto dell’alleanza tra Arabia
Saudita e Stati Uniti” (p. 183). Tra questi “magnati” spicca
la figura di Usama bin Laden, a cui Cooley sembra attribuire
un ruolo di primo piano, a differenza di altri osservatori.
Prima dell’attacco alle Twin Towers, alcuni ritenevano infatti
che bin Laden fosse diventato “al di là delle azioni
che gli vengono attribuite, la star di fiction hollywoodiana
planetaria, dove recita nel ruolo del bad guy, garantendo
il successo dei programmi televisivi, riviste, libri e siti
web a lui dedicati, e servendo da giustificazione ad alcune
scene politiche americane” (2).
3. Le fonti di informazione di Cooley sono uomini politici,
studiosi, giornalisti, funzionari di ambasciata. Non sempre,
come spiega nei Ringraziamenti, l’autore può riportare
i nomi.
La parte del volume che si basa su documentazione di prima mano,
riguarda il coinvolgimento statunitense nella guerra in Afganistan,
che tutti gli osservatori sottovalutano. Altre parti del libro
utilizzano invece inchieste e studi esistenti, verso cui l’A.
dimostra gratitudine e ammirazione. La storia del traffico di
droga per esempio, scrive Cooley, è “quasi sconosciuta
salvo a due tre intraprendenti scrittori europei che hanno letteralmente
rischiato la vita per conoscerla” (p. 226).
4. Il senso di questo libro si capisce meglio pensando al teatro.
La politica, così come ci viene presentata dai media,
si svolge sulla scena. Cooley invece indaga nel retroscena.
Faccio un solo esempio, riferendomi al mondo occidentale. Nel
1982 la Cia fu esonerata – in segreto – dall’obbligo di denunciare
il contrabbando di droga da parte dei suoi funzionari (p. 218).
La Cia copriva il traffico di droga da parte dei contras
in Nicaragua e cominciava a fare la stessa cosa in Afganistan.
Sempre in quell’anno il compito di promuovere le campagne antidroga
negli Usa venne sottratto alla Dea (l’agenzia americana contro
la droga), divenuta un intralcio, e affidato all’FBI. Tutto
questo si svolge nel retroscena. Invece sulla scena vediamo
comparire la moglie del presidente Reagan e annunciare “una
sua personale crociata, rivolgendosi soprattutto ai giovani
americani con lo slogan «Diciamo no alla droga»
(p. 219). Sul palcoscenico può andare in scena una farsa,
come in questo caso; oppure una tragedia, se pensiamo all’enorme
incremento delle tossicodipendenze in Pakistan (pp. 245-246),
in Unione Sovietica, negli Stati Uniti.
Sulla scena i protagonisti sono due, contrapposti: un maschio
adulto occidentale e un maschio adulto musulmano. Nel retroscena
– considerando solo i maschi adulti – le parti sono mescolate.
Anche qui, un solo esempio. Chi dirigeva la Bank of Credit and
Commerce International, una delle banche che ha finanziato la
guerra afgana, era uno sceicco, era amico di Carter e aveva
stretti rapporti con la Thatcher; la banca aveva conti segreti
in Svizzera, Londra, Miami (p. 187).
La politica che si svolge sulla scena fa appello a valori che
nel retroscena vengono calpestati. Non è argomento del
libro spiegare in che modo “guerre empie” – guidate da uomini
d’affari, narcotrafficanti e dittatori appoggiati fino a ieri
dagli Stati Uniti – possano essere vissute nei paesi musulmani
o nelle comunità immigrate in Occidente come “guerre
sante”. Per quanto riguarda i paesi occidentali, i governi ignorano
i principi di democrazia e di libertà sui quali chiedono
il consenso. Le scelte politiche decisive sono prese in segreto
da apparati militari e finanziari.
5. Come tutti i discorsi che si ispirano a Machiavelli, e che
analizzano le azioni politiche sulla base della loro efficacia
rispetto alla conservazione o alla perdita del potere, le pagine
di Cooley possono svelare i crimini su cui si fondano i governi,
oppure possono essere consigli al Principe. Nell’Introduzione
all’edizione italiana, scritta nel marzo del 2000, Cooley
scrive infatti che “il mondo dovrà subire tragedie ancora
peggiori se gli Stati Uniti e il resto del mondo occidentale,
nel ventunesimo secolo, non saranno più cauti nella scelta
degli alleati”. Soprattutto – aggiunge – , non si dovrà
sostituire l’Islam al comunismo quale “avversario diabolico
che deve essere sconfitto” (p. 24).
L’autore non si chiede come la “guerra santa”, cresciuta dopo
la scomparsa del messianismo socialista e del nazionalismo arabo,
possa esprimere e mobilitare la rivolta contro l’imperialismo
americano e occidentale, né come possa dare risposte
al vuoto culturale provocato dai modelli occidentali di modernizzazione,
e neppure come possa rientrare nelle strategie di Stati “non
occidentali”. L’argomento del libro restano le alleanze militari
degli Stati Uniti.
Ma da che punto di vista queste alleanze possono essere considerate
un errore? Su che base si dà per scontato che “il resto
del mondo occidentale” debba appoggiare la politica americana?
E basterà nel futuro una maggiore cautela nella scelta
degli alleati “non occidentali”? La “guerra santa” in Afganistan
appare essere stata un aspetto di una politica più generale:
dai bombardamenti e dall’embargo sull’Irak, al sostegno ai regimi
reazionari arabi, al veto nei confronti delle risoluzioni dell’Onu
sulla questione palestinese, per arrivare al controllo economico
e militare delle aree petrolifere.
Il libro di Cooley dimostra che la retorica messa in scena nei
paesi occidentali nel corso della “guerra santa” contro i sovietici
in Afghanistan ha poco a che vedere con gli obiettivi perseguiti
realmente. Leggendo il libro dopo l’attacco alle Torri di New
York, e mentre continuano i bombardamenti sull’Afganistan, ci
si chiede quali sono gli obiettivi che contano nel retroscena
della nuova “guerra giusta”.
Piero Brunello
Note
1. Non userò il termine “jihad”, che a
detta degli studiosi non può essere tradotto con “guerra
santa”.
2. Gilles Kepel, Jihad, ascesa e declino. Storia del fondamentalismo
islamico, Carocci, Roma 2001, p. 359. Secondo Kepel l’islamismo,
in declino alla fine del secolo, è destinato a sfaldarsi
rapidamente perché non riesce a tenere insieme le diverse
classi e i diversi settori della società che aveva coagulato
(pp. 11-19).
Politica di
parola
Parole non consumate – libro di recente
pubblicazione (Liguori editore, pp. 157, £ 24.000)
apporta l’intrigante sottotitolo donne e uomini nel linguaggio.
Ne è autrice Chiara Zamboni che, insieme ad altre ha
dato vita, presso l’Università di Verona dove insegna
Filosofia del linguaggio, alla Comunità filosofica “Diotima”.
Attiva fin dal 1984 nella ricerca di quello che viene nominato
pensiero della differenza sessuale, la comunità
anima il dibattito anche attraverso seminari pubblici dove la
politica delle donne trova luogo di espressione e punto di riferimento
per l’elaborazione simbolica. Chiara Zamboni ha collaborato
infatti ai saggi collettanei di “Diotima” (il nome della donna
straniera a cui Socrate, nel Simposio di Platone, riconosce
autorità in tema d’amore) e ha scritto opere di pregevole
spessore filosofico e letterario: Favole e immagini nella
matematica; Interrogando la cosa - Riflessioni a partire
da Martin Heidegger e Simone Weil; L’azione perfetta;
La filosofia donna - percorsi di pensiero femminile.
Pur affrontando un tema desueto e di non facile approccio, “Parole
non consumate” costituisce un gioiello di chiarezza ed un contributo
di raffinato valore per il senso di orientamento offerto
con scrittura pura ed illuminante dal pensiero della
differenza sessuale alla storia della filosofia e al suo
impianto metafisico. Non è comunque un testo classico
teso a ripercorrere per tappe quanto i filosofi antichi hanno
teorizzato sul linguaggio. Rappresenta invece un testo storico
perché evento di portata simbolica per l’ontologia sulla
e della parola in esso rintracciabile. E per la creazione
ipso tempore di un logos metafisico prossimo alle
realtà quotidiane.
Testo dunque di filosofia del linguaggio e non di storia del
linguaggio, in esso l’essere e la sua dicibilità,
felicemente, non coincidono. Sulla loro distanza si gioca
la vita simbolica delle esistenze di donne e di uomini.
Certo non mancano diretti riferimenti a filosofi-maestri come
Ludwig Wittgenstein, a psicanaliste dell’infanzia come Françoise
Dolto, ad outsider come Walter Benjamin, a pensatrici del tutto
particolari come Simone Weil e la teologa Mary Daly, o a politici
addirittura spirituali come Gandhi. Essi fungono però
da punti qualificanti su cui e da cui il discorso dell’autrice
si fa parola viva. Il libro è anche e a mio avviso
essenzialmente per ciò un testo di politica
prima; quella dove lo spazio di parola mette al mondo altro
essere e l’essere-altro crea parole di verità. Parole
non consumate appunto, di cui, tuttavia consumabili, ci si può
nutrire vicendevolmente.
Ma quali sono allora le parole logore, vuote, morte al senso
del nostro più profondo sentire, quelle intorno alle
quali si sono andate ad allestire le guerre, come lucidamente
scrive Simone Weil (Sulla guerra - scritti 1933-1943,
Pratiche editrice, Milano, 1998)?
‘Nazione’, ‘Patria’, ‘Capitale’, ‘Classe sociale’ hanno (avuto)
il loro carico di responsabilità bellica. Sono le astrazioni
preconfezionate rispetto alle verità dei fatti, irriflettuti
e subito colmati da parole d’ordine imperativo a senso unico.
Ecco come insorgono i fideismi che prescindono dal vivo dei
rapporti diretti tra esseri umani. Su di essi gli eserciti ideologici
e fondamentalisti si compattano sul comune denominatore di una
dimenticanza: la sintassi dei contingenti bisogni vitali viene
obliata per instaurare la grammatica dell’omologazione a tutti
i costi.
Sono i termini del già detto, dell’ancora insistentemente
ripetuto, all’intero dei quali, spesso, più donne che
uomini si sentono ingabbiate e ne patiscono il disagio. Perché
le non-parole hanno perso il contatto con il mondo delle esperienze
quotidiane e con il flusso delle emozioni abbandonate a sensazioni
tanto mute quanto deprivate dalla ricchezza che il lavoro del
pensiero e lo scambio di parola – con altre e con altri
comportano.
Si sbaglierebbe d’altra parte se il libro di Zamboni fosse ritenuto,
per malinteso femminismo di principio egualitario, un incitamento
alla proliferazione tecnica di un lessico sessuato da immettere
nella lingua in forza del genere grammaticale. Per intendersi,
ridurre a convenzione linguistica gli effetti di presa simbolica
che l’opera del pensiero ricava dalle pratiche agite in contesto.
Senza il tempo della riflessione e senza lo spazio di parola
per significarlo, l’agire umano perde il vivo senso della realtà
a cui non viene restituito ciò che ha dato. Predominano
facilmente e fatalmente il linguaggio-etichetta, lo slogan,
il dogma congelato in certezza anche se travestiti da pomposi
linguaggi specialistici. Il codice della lingua si sovrappone
alle parole dei desideri, le sole mediazioni necessarie a non
perdere il radicamento vitale delle singole esistenze. Adeguato
al mantenimento dei dispositivi di potere che lo applicano (in
alcune storiche circostanze addirittura lo impongono o lo hanno
imposto), il freddo codice della lingua segnala, rispetto ai
ruoli sociali, una gerarchia a dir poco bizzarra, per cui sono
quest’ultimi a dar valore agli individui in carne ed ossa e
non viceversa.
Il discorso di “Parole non consumate” si congeda
dall’impasse del soggetto unico, cogitante e identico a se stesso,
chiuso nella sua propria autosufficienza, a cui ha condotto
l’impianto metafisico e gnoseologico della tradizione filosofica
occidentale. La soggettività in Parole non consumate
si decentra invece verso una posizione ‘ a latere’, da dove
lo scarto esistente tra atto di pensiero e atto di parola risulta
fertile alla trasformazione di sé e del mondo dall’interno
del linguaggio-visto, quest’ultimo, quale abito dell’essere
al mondo e nel mondo peculiare dell’essere umano.
Il movimento simbolico mette in moto qualcosa
di meno e qualcosa di più che resiste al linguaggio assodato
del codice. Non tutto ciò che è del cuore viene
alle labbra. L’ampia parte riservata dallo studio di Zamboni
sul linguaggio delle creature, elaborato da Walter Benjamin,
chiarisce i contorni di tale spostamento. Ma ancor più
illuminanti sono i passaggi di Chiara Zamboni che precisano
il discorso sulla Lingua materna. Intesa non nell’accezione
nazionalistica di madrelingua, bensì nella dimensione
originaria in cui essere e Parola fanno la spola
creaturale tra l’essere infante e la madre parlante.
Il congedo da un universo linguistico chiuso in se stesso apre
ad altre modalità di pensiero e di parola. Partire
da sé, sapere esperenziale, pensiero come
movimento trasformativo fanno tessuto di filosofia. Essi
indicano significanti non categorici cui dare libera significazione,
differente per virtù dell’agire in fedeltà a sé
e in relazione ad altre e ad altri. Essi lasciano agire la differenza
sessuale sul piano politico-simbolico secondo una duplice onda:
di resistenza all’inquadramento sistematico di cui la parola
patisce l’oggettivazione e di singolare riscatto relazionale
oltre la genericità del codice assoluto. Giacchè
del linguaggio si parla dal suo interno – ossia con il linguaggio
– e i suoi segni sono colti nell’esteriorità del corpo
e dell’espressione verbale.
Senza dover travisare la sostanza di questo bel libro per un
elogio del linguaggio del corpo, se di elogio si sottointende
esso è piuttosto rilanciato alla vita della mente
e alla materialità esperenziale che alimenta ed è,
a sua volta, alimentata. Movimento simbolico-reale c’è
quando una parola ci tocca; quando la parola – oggetto di sé
– ci parla.
Ben al di là di una critica accademica alla pretesa universalistica
implicita nei linguaggi dominanti e dello ‘specialismo’ che,
non di rado, specificando forme di dominio millenario, il testo
di Zamboni si articola in positivo, rivelando nell’asimmetria
tra essere e linguaggio la condizione di possibilità
offerta al corso per il libero senso di ogni esistenza.
“Come donne e uomini siano in gioco nel mondo” – si legge –
“non è dunque oggetto di discorso, bensì è
in primo luogo una interpretazione su di noi data dal linguaggio
dominante e in secondo luogo- in conflitto con tale interpretazione
– un senso che scopriamo e produciamo in un tessuto vivente
del quale siamo parte”.
È un dire che ha a cuore ciò che sta fuori la
definizione assertoria del logos oggettivante. Ha a cuore
l’agire dei soggetti di discorso. E Chiara Zamboni ricorda
che di donne e di uomini si tratta. Da loro e da lì il
mondo della parola lascia baluginare ciò che non si consuma,
giacché l’essere uno, unico e stabilmente identico cede
al brillio dell’essere in divenire.
Monica Cerutti
Giorgi
Stirner e lindividualismo
Potrebbe apparire improprio affermare che Enrico
Ferri dedichi La città degli unici. Individualismo,
nichilismo, anomia (Giappichelli, Torino 2001, pp. 460)
esclusivamente a Max Stirner. Egli ci offre una più generale
riflessione sul fenomeno giuridico-politico dell’individualismo.
Il volume parla del pensatore di Bayreuth; sia nella
prima che nella seconda parte del libro Ferri propone una propria
lettura stirneriana, che non si limita al solo celeberrimo L’unico;
egli, infatti, si addentra in un’analisi di alcuni dei cosiddetti
scritti minori, indicandone l’importanza per una più
complessiva comprensione della speculazione di Stirner. Nel
volume vengono qui riprodotti, oltre al una breve nota autobiografica
di Stirner, Sulle leggi scolastiche, L’ingannevole
principio della nostra educazione ovvero l’umanesimo e il realismo
e A proposito de «La tromba del giudizio universale»,
tutti scritti sorti in seno al circolo berlinese dei Liberi.
Stirner va infatti collocato all’interno del dibattito della
sinistra hegeliana; Ferri si occupa di tale movimento di pensiero
filosofico-politico iniziando da Feuerbach e ci propone delle
illuminanti testimonianze epistolari su Stirner: le lettere
di Edgar Bauer e di Engels a Hildebrandt.
Di Stirner si parla, e in proposito Ferri si sofferma
sulle interpretazioni che del pensatore tedesco sono state offerte:
lo Stirner anticipatore/ispiratore di Nietzsche, lo Stirner
visitato dalla destra (Mussolini, Evola, Schmitt e Jünger),
nonché lo Stirner di Marx ed Engels.
Il San Max che domina L’ideologia tedesca, e senza la
cui critica a Feuerbach, che, come sottolinea Ferri, venne ripresa
e fagocita dai due socialisti scientifici, probabilmente non
avremmo avuto quella rottura epistemologica che diede vita la
materialismo storico.
Nel volume di Ferri si intrecciano almeno tre itinerari di ricerca.
A questi non si poteva non aggiungere la questione relativa
all’appartenenza o meno di Stirner al variegato mondo dell’anarchismo.
Ferri, da prima, ricostruisce il pensiero dei teorici dell’anarchismo
classico (in particolare Godwin, Proudhon, Bakunin e Kropotkin),
riconoscendo come comuni denominatori dei loro itinerari speculativi
l’idea dell’uomo non malvagio per natura, quindi un ottimismo
antropologico che li contrappone alle costruzioni politico-filosofiche
hobbesiane; il fermo richiamo all’autonomia, come capacità
di autoregolazione insita nell’uomo a cui fa corollario la socialità,
il rapporto con gli altri e non la solitudine è l’ambito
della libertà. L’anarchismo classico si coagula altresì
intorno al principio universalistico di eguaglianza. Questi
principi sfociano nel più generale rifiuto di ogni principio
di autorità eteronoma.
Per Ferri molti sono i punti in comune fra l’anarchismo classico
ed il pensiero di Stirner (il rifiuto dell’eteronomia, la prospettiva
dell’autoliberazione, il rifiuto della divinizzazione dei e
nei rapporti sociali e così via). La critica alla società
vigente è per così dire affrontata con le stesse
armi. Diverso è invece il discorso riguardante la progettualità.
“Mentre nell’anarchismo classico una società non organica,
costituita sulla base del libero accordo e con caratteri solidaristici
è vista come un’alternativa allo Stato, Stirner equipara
la società e lo Stato e muove alla prima obiezioni assai
simili a quelle portate al secondo”. In tal senso “l’individualismo
stirneriano, a differenza di quello dei teorici dell’anarchismo
classico, non mostra avere attitudini sociali, non ritiene come
i secondi che l’individuo, sebbene avvia un valore in sé
in quanto tale, possa pienamente dispiegarsi solo nella e attraverso
la società, che quest’ultima sia l’ambiente e la forma
di relazione che l’individuo si dà naturalmente”.
Il rifiuto stirneriano dell’idea di autoregolamentazione, sommato
alla negazione del principio di autorità eteronomo, introduce
nella Verein degli unici il conflitto come elemento endemico,
“naturale”, negatore, quindi, del principio di solidarietà,
proprio all’anarchismo classico. Ciò determina una frattura,
probabilmente incolmabile, fra Stirner propugnatore della Verein
ed il pensiero dell’anarchismo classico e lo avvicina, a parere
di chi scrive, al cosiddetto anarco-capitalismo che vede per
l’appunto nel fantomatico libero mercato (luogo utopico
di conflitto) il garante ultimo della libertà.
Marco
Cossutta
Il n. 4? Un
Fest(a)val!
La possibilità, da parte di ogni potere,
di controllare i canali mediatici è al centro delle disuguaglianze
e delle tragedie che brutalizzano l’umanità.
Capovolgendo quei significati che sostengono un’integrazione
nel mercato e che smorzano o negano ogni dubbio e dissenso sociale,
abbiamo avviato il progetto ApARTe°. In un agire creativo
anticonformista, critico e costruttivo, non astratto, in una
creatività liberata pensiamo si possano trovare risposte
utili per la riappropriazione di percorsi, anche politici, sempre
negati.
Esistono, e sono sempre esistiti, archetipi di realtà
anarchiche che si manifestano, anche, attraverso ciò
che ci fanno pensare: ApARTe° vorrebbe essere una di queste
realtà e questo proposito soffre come limitativo nell’essere
delineato solo su carta.
Nei giorni 14, 15 e 16 settembre del 2001 abbiamo editato ApARTe°4.
Un numero non stampato e letto, ma totalmente partecipato dal
migliaio di persone che hanno decifrato quanto rappresentato
e scritto da almeno 150 creativi. Un numero sostenuto dalla
solidarietà, dall’intelligenza, dalla poesia, dalla forza
muscolare di compagni e artisti che si sono riconosciuti nel
progetto ed ai quali non può che andare il nostro affetto
e ringraziamento, se ci servivano degli stimoli loro li hanno
dati tutti.
Comunque: negli spazi di un parco di Bologna abbiamo montato
la Prima Biennale di Arte & Anarchia; un fest(A)val che
si componeva di installazioni, mostre di pittura, di arte postale,
di fumetti. Dove sono state rappresentate performances, spettacoli
teatrali e di cabaret; dove sono stati proiettati films e cortometraggi;
declamate poesie ed eseguite musiche e canzoni; dove si sono
tenute tavole rotonde e presentazioni.
Nei tre giorni (anzi quattro poiché siamo partiti il
13) si è venuto a creare uno spazio liberato, una insicura
ma dinamica zattera di uguali (artisti e non pubblico) che si
è saputa staccare da tutto quello che vuol rendere sacrale
la creatività. Una zattera sempre più lontana
da una cultura dove l’arte viene amata e promossa poiché
è merce in un commercio che porta ricchezza e potere
per pochi, dove le innovazioni vengono consentite solo se inefficaci
a smantellare l’apparente necessità dell’integrazione
nel Grande Fratello.
Una zattera non statica come una platea, che ha abbandonato
l’usuale con la certezza di navigare e che, questo viaggiare
da disertori, costruisce l’organizzazione dell’utopia possibile;
che sobilla la creazione di altre migliaia di zattere progettate
per migliaia di direzioni... via, contro e lontane dall’ottusità,
dalla ferocia di ogni cella, dall’umiliazione delle costrizioni:
verso il rispetto e la dignità.
Banda
ApARTe
Chi volesse ricevere il pre-catalogo del Fest(A)val
2001 ed il manifesto può richiederlo versando lire 15.000
sul c.c.p. n°12347316 intestato a: Fabio Santin c/o ApARTe°
c.p.85 succ.8, 30171 Mestre - Ve.
Allo stesso modo può essere attivato un abbonamento per
due numeri di ApARTe° al costo di lire 50.000 ed oltre.
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