rivista anarchica
anno 31 n. 277
dicembre 2001 - gennaio 2002


guerra

Non in mio nome
di Maria Matteo

Se davvero si vuol cercare di cacciare la guerra dalla storia, allora...

La guerra, se ci pensi, ti accorgi che è impensabile. Impensabile come ogni concetto od evento che travalichi lo spazio del quotidiano, della vita come la immagini e come la vivi e come pensi di poterla vivere domani.
Della guerra puoi avere una rappresentazione negli orrori visti, raccontati, ripresi dagli occhi gelidi delle telecamere ma mai una pensabilità nell’ambito dell’umano, di quello che ti concerne come persona. Perché, sebbene per chiamarla giusta, per renderla accettabile ed invitante si sprechino i vessilli, le motivazioni (sempre buone), gli appelli alla ragione e alla giustizia resta il dato, incontrovertibile, che la guerra è, sempre, una frantumazione dell’umano, la sua scissione nella dicotomia amico/nemico che si può ricomporre solo a patto che il “nemico” sia scisso dall’umano, relegato tra le belve nell’universo feroce del Male assoluto, irricomponibile. E, quindi, da eliminare. Ad ogni costo.
La guerra, è bene ricordarlo, non riguarda mai i singoli ma è la massima espressione della potenza degli Stati, di quegli Stati che, avocando a se il monopolio della violenza, considerano la propria come l’unica legittima. Chiunque uccida, per motivi propri, un altro essere umano rischia seriamente di incorrere nelle ire di quegli stessi Stati più che disposti ad onorare, esaltare e lautamente retribuire chiunque uccida in loro nome durante una guerra. È un’operazione terrificante quella di trasformare docili sudditi, abituati a considerare un crimine la risoluzione violenta di conflitti che magari li vedono coinvolti sul piano personale, a trasformarsi in assassini di uomini, donne e bambini sconosciuti, mai visti, della cui vita non sanno assolutamente nulla. Quest’operazione oggi viene fatta con maggiore accortezza che non nel passato: l’affermarsi di un modello di esercito su base professionale di fatto riserva agli “specialisti”, volontari e ben pagati, il lavoro sporco. Gli altri, quelli che restano a casa, sono chiamati ad una “semplice” mobilitazione morale. Niente di nuovo sotto il sole, niente che non avessimo già sperimentato. Eppure, negli ultimi anni, la politica aveva elaborato un nuovo codice per definire la guerra, che persino sul piano terminologico era stata accantonata per lasciare il posto alle “operazioni umanitarie” di dalemiana memoria. Il trionfo della neolingua orwelliana pareva compiuto e, chiamando la guerra pace, le coscienze potevano dormire sonni più che tranquilli. Ma, evidentemente nell’Italia di oggi queste raffinatezze appaiono inutili all’uomo che ha vinto le elezioni con ben altri ossimori: dal “presidente operaio” (artefice di una finanziaria bellica) alle “città più sicure” (Genova sotto il segno del piombo e del manganello “tonfa”).
Tuttavia la rozzezza di un Berlusconi, non diversamente da quella del suo collega d’oltreoceano, Bush II, il rampollo di una stirpe di petrolieri e di presidenti, non può essere liquidata solo con l’irrisione e la battuta salace. Concetti quali la guerra di religione, sempre negata ma costantemente allusa, lo scontro di civiltà, sin troppo esplicitamente dichiarato, non rimandano solo ad un becero ma efficace apparato propagandistico ma interrogano in modo inquietante anche la coscienza di quella parte dell’occidente, laico universalista ed umanista al quale anche gli anarchici si richiamano. Se un miliardario saudita, invischiato sino al collo con la CIA che lo ha sostenuto e finanziato, è oggi divenuto un’icona capace di catalizzare la rabbia e la voglia di riscatto nei sobborghi africani come in Indonesia, in Pakistan come in Egitto, siamo di fronte ad un fallimento che non tocca solo la folle ed irrefrenabile volontà di dominio planetario di una parte (minoritaria) del pianeta ma coinvolge anche chi su un mondo diverso, capace di riscattarsi dal dominio, dallo sfruttamento economico e dal delirio religioso, aveva puntato tutte le proprie carte.
L’universalismo della ragione si frantuma di fronte alle “ragioni” di chi di questo universalismo non ha conosciuto che la deprivazione materiale e culturale, di chi sa di essere, irrimediabilmente, escluso dalla tavola imbandita le cui briciole garantiscono un’esistenza decorosa anche agli ultimi tra i fortunati abitanti del nord ricco, opulento e predatore.


Conti da fare

Difficile non pensare che questa guerra feroce scoppia mentre da un paio d’anni, su scala planetaria, si sta sviluppando un movimento che tenta di porre le basi per un mondo altro, un mondo capace di spezzare la cesura tra nord e sud, che sappia coniugare lo sviluppo e la salvaguardia dell’ambiente e della salute, che sappia creare ponti di solidarietà e cooperazione, che riesca ad elidere la logica perversa del profitto ad ogni costo. Un movimento che è stato criminalizzato e represso e che oggi la propaganda bellica pone sullo stesso piano dei terroristi che hanno ferocemente colpito a New York. Un movimento che è portatore di una semplice verità: senza giustizia non è possibile una vera pace. E, aggiungeremmo noi anarchici, senza una gestione diretta, laica ed astatuale della vita pubblica, dell’economia e della società la guerra resterà, purtroppo, ancora nella storia.
Cacciare la guerra dalla storia, un vecchio ma sempre bello slogan femminista, significa rintracciare le ragioni, i desideri, i percorsi identitari di ciascuna donna, di ciascun uomo, di ciascun bambino e tentare di creare relazioni non gerarchiche, orizzontali egualitarie. È un lavoro, dopo due secoli dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo, molto difficile perché non sul piano dei principi generali ed astratti ma con persone concrete occorre fare i conti. Conti che, ripeto, non possono non tenere conto dei lunghi fallimenti che abbiamo alle spalle, che ci obbligano a ripensare il linguaggio del dialogo e della solidarietà per spezzare la lunga catena di odio che oggi trova espressione nel fondamentalismo religioso, nell’intolleranza, nella guerra santa.La guerra santa in nome del dollaro di George Bush e la jihad in nome di dio di Osama bin Laden.
Sotto le macerie delle Torri gemelle giacciono migliaia di uomini, donne e bambini come sotto le rovine delle case di fango di Kabul. La scommessa, ancora una volta, è quella di rendere visibile che le loro ragioni, come quelle di ciascuno di noi, non possono essere quelle della religione, della volontà di dominio, non possono essere né quelle di Bush né quelle di bin Laden.

Maria Matteo