La guerra, se ci pensi, ti accorgi che
è impensabile. Impensabile come ogni concetto od evento
che travalichi lo spazio del quotidiano, della vita come la
immagini e come la vivi e come pensi di poterla vivere domani.
Della guerra puoi avere una rappresentazione negli orrori visti,
raccontati, ripresi dagli occhi gelidi delle telecamere ma mai
una pensabilità nell’ambito dell’umano, di quello che
ti concerne come persona. Perché, sebbene per
chiamarla giusta, per renderla accettabile ed invitante si sprechino
i vessilli, le motivazioni (sempre buone), gli appelli alla
ragione e alla giustizia resta il dato, incontrovertibile, che
la guerra è, sempre, una frantumazione dell’umano, la
sua scissione nella dicotomia amico/nemico che si può
ricomporre solo a patto che il “nemico” sia scisso dall’umano,
relegato tra le belve nell’universo feroce del Male assoluto,
irricomponibile. E, quindi, da eliminare. Ad ogni costo.
La guerra, è bene ricordarlo, non riguarda mai i singoli
ma è la massima espressione della potenza degli Stati,
di quegli Stati che, avocando a se il monopolio della violenza,
considerano la propria come l’unica legittima. Chiunque uccida,
per motivi propri, un altro essere umano rischia seriamente
di incorrere nelle ire di quegli stessi Stati più che
disposti ad onorare, esaltare e lautamente retribuire chiunque
uccida in loro nome durante una guerra. È un’operazione
terrificante quella di trasformare docili sudditi, abituati
a considerare un crimine la risoluzione violenta di conflitti
che magari li vedono coinvolti sul piano personale, a trasformarsi
in assassini di uomini, donne e bambini sconosciuti, mai visti,
della cui vita non sanno assolutamente nulla. Quest’operazione
oggi viene fatta con maggiore accortezza che non nel passato:
l’affermarsi di un modello di esercito su base professionale
di fatto riserva agli “specialisti”, volontari e ben pagati,
il lavoro sporco. Gli altri, quelli che restano a casa, sono
chiamati ad una “semplice” mobilitazione morale. Niente di nuovo
sotto il sole, niente che non avessimo già sperimentato.
Eppure, negli ultimi anni, la politica aveva elaborato un nuovo
codice per definire la guerra, che persino sul piano terminologico
era stata accantonata per lasciare il posto alle “operazioni
umanitarie” di dalemiana memoria. Il trionfo della neolingua
orwelliana pareva compiuto e, chiamando la guerra pace, le coscienze
potevano dormire sonni più che tranquilli. Ma, evidentemente
nell’Italia di oggi queste raffinatezze appaiono inutili all’uomo
che ha vinto le elezioni con ben altri ossimori: dal “presidente
operaio” (artefice di una finanziaria bellica) alle “città
più sicure” (Genova sotto il segno del piombo e del manganello
“tonfa”).
Tuttavia la rozzezza di un Berlusconi, non diversamente da quella
del suo collega d’oltreoceano, Bush II, il rampollo di una stirpe
di petrolieri e di presidenti, non può essere liquidata
solo con l’irrisione e la battuta salace. Concetti quali la
guerra di religione, sempre negata ma costantemente allusa,
lo scontro di civiltà, sin troppo esplicitamente dichiarato,
non rimandano solo ad un becero ma efficace apparato propagandistico
ma interrogano in modo inquietante anche la coscienza di quella
parte dell’occidente, laico universalista ed umanista al quale
anche gli anarchici si richiamano. Se un miliardario saudita,
invischiato sino al collo con la CIA che lo ha sostenuto e finanziato,
è oggi divenuto un’icona capace di catalizzare la rabbia
e la voglia di riscatto nei sobborghi africani come in Indonesia,
in Pakistan come in Egitto, siamo di fronte ad un fallimento
che non tocca solo la folle ed irrefrenabile volontà
di dominio planetario di una parte (minoritaria) del pianeta
ma coinvolge anche chi su un mondo diverso, capace di riscattarsi
dal dominio, dallo sfruttamento economico e dal delirio religioso,
aveva puntato tutte le proprie carte.
L’universalismo della ragione si frantuma di fronte alle “ragioni”
di chi di questo universalismo non ha conosciuto che la deprivazione
materiale e culturale, di chi sa di essere, irrimediabilmente,
escluso dalla tavola imbandita le cui briciole garantiscono
un’esistenza decorosa anche agli ultimi tra i fortunati abitanti
del nord ricco, opulento e predatore.
Conti da fare
Difficile non pensare che questa guerra feroce scoppia mentre
da un paio d’anni, su scala planetaria, si sta sviluppando un
movimento che tenta di porre le basi per un mondo altro, un
mondo capace di spezzare la cesura tra nord e sud, che sappia
coniugare lo sviluppo e la salvaguardia dell’ambiente e della
salute, che sappia creare ponti di solidarietà e cooperazione,
che riesca ad elidere la logica perversa del profitto ad ogni
costo. Un movimento che è stato criminalizzato e represso
e che oggi la propaganda bellica pone sullo stesso piano dei
terroristi che hanno ferocemente colpito a New York. Un movimento
che è portatore di una semplice verità: senza
giustizia non è possibile una vera pace. E, aggiungeremmo
noi anarchici, senza una gestione diretta, laica ed astatuale
della vita pubblica, dell’economia e della società la
guerra resterà, purtroppo, ancora nella storia.
Cacciare la guerra dalla storia, un vecchio ma sempre bello
slogan femminista, significa rintracciare le ragioni, i desideri,
i percorsi identitari di ciascuna donna, di ciascun uomo, di
ciascun bambino e tentare di creare relazioni non gerarchiche,
orizzontali egualitarie. È un lavoro, dopo due secoli
dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo, molto difficile perché
non sul piano dei principi generali ed astratti ma con persone
concrete occorre fare i conti. Conti che, ripeto, non possono
non tenere conto dei lunghi fallimenti che abbiamo alle spalle,
che ci obbligano a ripensare il linguaggio del dialogo e della
solidarietà per spezzare la lunga catena di odio che
oggi trova espressione nel fondamentalismo religioso, nell’intolleranza,
nella guerra santa.La guerra santa in nome del dollaro di George
Bush e la jihad in nome di dio di Osama bin Laden.
Sotto le macerie delle Torri gemelle giacciono migliaia di uomini,
donne e bambini come sotto le rovine delle case di fango di
Kabul. La scommessa, ancora una volta, è quella di rendere
visibile che le loro ragioni, come quelle di ciascuno di noi,
non possono essere quelle della religione, della volontà
di dominio, non possono essere né quelle di Bush né
quelle di bin Laden.
Maria Matteo
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