Strana guerra, quella degli Stati Uniti
contro l’Afghanistan (pardon, contro il terrorismo islamico)
in cui ci siamo entusiasticamente cacciati, perché se
no eravamo un paese di serie B. C’è voluto, come minimo,
un mese perché i commentatori “seri” (intendendo per
tali, con le debite virgolette, quelli che scrivono sulla grande
stampa internazionale) si rendessero conto di una verità
che a noi poveretti era già balenata quasi subito: che
le operazioni, guarda un po’, stanno andando malissimo. E non
soltanto dal punto di vista di chi si trova sotto i bombardamenti,
che non è cosa che, in sé, preoccuperebbe nessuno:
vanno ancor peggio, forse, da quello di chi i bombardamenti
li programma ed esegue.
L’osservazione parrà strana, ma è indiscutibile.
In fondo, le possibilità di mettere le mani su Bin Laden
si sono fatte, via via, sempre più remote e la caccia
di cui è oggetto non ha impedito a costui di rvolgersi,
ogni volta che lo volesse, ai media per lanciare i suoi
inquietanti proclami. Al tempo stesso, la strategia esibita
dagli Stati Uniti e dai loro alleati si è rivelata tragicamente
inefficace. Il regime dei talebani non si è affatto dissolto
al primo colpo di missile, ma ha continuato a esercitare un
saldo controllo sulla maggior parte di quell’infelice paese.
I bombardamenti, mirati o no, non hanno modificato sensibilmente
la situazione militare sul terreno. I mujaddin dell’Alleanza
del Nord non sono entrati trionfalmente a Kabul, né,
d’altra parte, vista l’intricata situazione politica, nessuno
è sembrato particolarmente ansioso di vederceli entrare.
Le prospettive di mettere insieme, in qualche modo, un governo
amico si sono fatte, tra veti e controveti, sempre più
remote. L’opinione pubblica internazionale, e non soltanto nei
paesi musulmani, ha cominciato a reagire negativamente a una
condotta di guerra che moltiplicava le vittime civili senza
apprezzabili risultati. E intanto si sta avvicinando l’inverno
e, insomma, al momento in cui scrivo, sembra che, salvo imprevedibili
novità, la possibilità che le forze degli Stati
Uniti, all’alba del XXI secolo, si ritrovino impantanate in
quelle gelide vallate, com’era già successo agli eserciti
dell’Impero Britannico nel XIX e a quelli dell’Unione Sovietica
nel XX, si faccia sempre più maledettamente concreta.
Il che significa che quella che è stata definita la più
grande alleanza militare che la storia ricordi sta correndo
ostensibilmente il rischio di perdere la guerra contro uno dei
paesi più poveri e smandrappati dell’intero pianeta.
Sono cose, diranno i saggi, che succedono da sempre. Ci si potrebbe
persino vedere una conferma di quella teoria degli antichi,
per in qualsiasi esibizione troppo compiaciuta della propria
potenza, in ogni indebito convincimento di superiorità,
si doveva vedere un peccato, una hybris, che nascondeva
in se stessa le ragioni della némesis, come a
dire che conteneva il presupposto del proprio rovesciamento.
E anche senza condividere questa concezione, forse un po’ meccanicistica,
del bene e del male, tutti sanno per esperienza come le vicende
umane siano, per propria natura, imprevedibili e infide.
Perfetti imbecilli
Tuttavia, che le cose potessero mettersi su questa via, Bush
e i suoi generali potevano ben immaginarselo. Che con gli attacchi
missilistici, per quanto mirati, e con i bombardamenti, sia
pure i più “intelligenti” del mondo, non si faccia molta
strada avrebbe potuto insegnarglielo la doppia esperienza dell’aggressione
all’Iraq nel 1990 e di quella alla Serbia nove anni dopo. In
ambo i casi l’attacco era stato sferrato nella prospettiva di
un successo praticamente immediato e, per così dire,
indolore e in ambo i casi gli aggressori si erano trovati, dal
punto di vista militare e politico, nei guai fino al collo.
Mi permetterò anche di ricordare che in tutte e due le
circostanze i risultati sono stati piuttosto deludenti, visto
che Saddam Hussein è tuttora al potere e il suo regime
continua a essere considerato un grave pericolo sul piano internazionale,
mentre la stabilità politica nei Balcani, ancorché
siano state spezzate le reni alla Serbia e Milosevic languisca
in carcere all’Aja è ancora tutta di là da venire.
E allora, delle due l’una. O siamo governati, a livello planetario,
da perfetti imbecilli, che non azzeccano mai la più facile
delle previsioni, o non ce la contano giusta. Non ce la contano
giusta perché sapevano benissimo fin dall’inizio che
le cose sarebbero state come stanno andando e della cattura
di Bin Laden e della rimozione dei talebani dal potere, in fondo,
non gliene interessava più che tanto. Dal punto di vista
di chi sta al potere la guerra presenta tanti di quei vantaggi,
politici, ideologici e materiali che certe volte non vale neppure
la pena di vincerla.
E già. La guerra rafforza il consenso, distoglie l’attenzione
dalle contraddizioni interne, sposta risorse in una direzione
gradita a chi governa. Non sarà un caso se nell’entourage
di Bush hanno sempre avuto un ruolo particolarmente rilevante
gli esponenti del complesso industriale militare. Anche in Italia,
in fondo, è bastato l’annuncio della partecipazione alle
operazioni perché le difficoltà politiche nelle
quali il governo Berlusconi sembrava annaspare si dileguassero
da un momento all’altro. In entrambi i casi (ma se ne potrebbero
elencarne senza sforzo degli altri) al rafforzamento del governo
è seguito, con immancabile simmetria, l’indebolimento,
o addirittura la crisi, dell’opposizione. E se pensiamo a quello
che sta succedendo in tutta l’area che va da Israele al Pakistan,
non sembrerà troppo azzardato affermare che tra gli effetti
dello stato di guerra va annoverato un indebolimento complessivo
del livello planetario di democrazia.
Sono tutti vantaggi cui le classi dirigenti dell’Occidente,
quale che sia la loro affiliazioni ideologica, non sembrano
intenzionate a rinunciare. Che, alla fin fine, la distanza tra
chi sta in alto e chi sta in bassa sarà ancora più
clamorosa è l’unico risultato che, allo stato delle cose,
si possa ragionevolmente prevedere.
Carlo Oliva
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