rivista anarchica
anno 31 n. 277
dicembre 2001 - gennaio 2002


guerra

Gli unici risultati prevedibili
di Carlo Oliva

Come sempre, la guerra rafforza il consenso. E...

Strana guerra, quella degli Stati Uniti contro l’Afghanistan (pardon, contro il terrorismo islamico) in cui ci siamo entusiasticamente cacciati, perché se no eravamo un paese di serie B. C’è voluto, come minimo, un mese perché i commentatori “seri” (intendendo per tali, con le debite virgolette, quelli che scrivono sulla grande stampa internazionale) si rendessero conto di una verità che a noi poveretti era già balenata quasi subito: che le operazioni, guarda un po’, stanno andando malissimo. E non soltanto dal punto di vista di chi si trova sotto i bombardamenti, che non è cosa che, in sé, preoccuperebbe nessuno: vanno ancor peggio, forse, da quello di chi i bombardamenti li programma ed esegue.
L’osservazione parrà strana, ma è indiscutibile. In fondo, le possibilità di mettere le mani su Bin Laden si sono fatte, via via, sempre più remote e la caccia di cui è oggetto non ha impedito a costui di rvolgersi, ogni volta che lo volesse, ai media per lanciare i suoi inquietanti proclami. Al tempo stesso, la strategia esibita dagli Stati Uniti e dai loro alleati si è rivelata tragicamente inefficace. Il regime dei talebani non si è affatto dissolto al primo colpo di missile, ma ha continuato a esercitare un saldo controllo sulla maggior parte di quell’infelice paese. I bombardamenti, mirati o no, non hanno modificato sensibilmente la situazione militare sul terreno. I mujaddin dell’Alleanza del Nord non sono entrati trionfalmente a Kabul, né, d’altra parte, vista l’intricata situazione politica, nessuno è sembrato particolarmente ansioso di vederceli entrare. Le prospettive di mettere insieme, in qualche modo, un governo amico si sono fatte, tra veti e controveti, sempre più remote. L’opinione pubblica internazionale, e non soltanto nei paesi musulmani, ha cominciato a reagire negativamente a una condotta di guerra che moltiplicava le vittime civili senza apprezzabili risultati. E intanto si sta avvicinando l’inverno e, insomma, al momento in cui scrivo, sembra che, salvo imprevedibili novità, la possibilità che le forze degli Stati Uniti, all’alba del XXI secolo, si ritrovino impantanate in quelle gelide vallate, com’era già successo agli eserciti dell’Impero Britannico nel XIX e a quelli dell’Unione Sovietica nel XX, si faccia sempre più maledettamente concreta. Il che significa che quella che è stata definita la più grande alleanza militare che la storia ricordi sta correndo ostensibilmente il rischio di perdere la guerra contro uno dei paesi più poveri e smandrappati dell’intero pianeta.
Sono cose, diranno i saggi, che succedono da sempre. Ci si potrebbe persino vedere una conferma di quella teoria degli antichi, per in qualsiasi esibizione troppo compiaciuta della propria potenza, in ogni indebito convincimento di superiorità, si doveva vedere un peccato, una hybris, che nascondeva in se stessa le ragioni della némesis, come a dire che conteneva il presupposto del proprio rovesciamento. E anche senza condividere questa concezione, forse un po’ meccanicistica, del bene e del male, tutti sanno per esperienza come le vicende umane siano, per propria natura, imprevedibili e infide.


Perfetti imbecilli

Tuttavia, che le cose potessero mettersi su questa via, Bush e i suoi generali potevano ben immaginarselo. Che con gli attacchi missilistici, per quanto mirati, e con i bombardamenti, sia pure i più “intelligenti” del mondo, non si faccia molta strada avrebbe potuto insegnarglielo la doppia esperienza dell’aggressione all’Iraq nel 1990 e di quella alla Serbia nove anni dopo. In ambo i casi l’attacco era stato sferrato nella prospettiva di un successo praticamente immediato e, per così dire, indolore e in ambo i casi gli aggressori si erano trovati, dal punto di vista militare e politico, nei guai fino al collo. Mi permetterò anche di ricordare che in tutte e due le circostanze i risultati sono stati piuttosto deludenti, visto che Saddam Hussein è tuttora al potere e il suo regime continua a essere considerato un grave pericolo sul piano internazionale, mentre la stabilità politica nei Balcani, ancorché siano state spezzate le reni alla Serbia e Milosevic languisca in carcere all’Aja è ancora tutta di là da venire.
E allora, delle due l’una. O siamo governati, a livello planetario, da perfetti imbecilli, che non azzeccano mai la più facile delle previsioni, o non ce la contano giusta. Non ce la contano giusta perché sapevano benissimo fin dall’inizio che le cose sarebbero state come stanno andando e della cattura di Bin Laden e della rimozione dei talebani dal potere, in fondo, non gliene interessava più che tanto. Dal punto di vista di chi sta al potere la guerra presenta tanti di quei vantaggi, politici, ideologici e materiali che certe volte non vale neppure la pena di vincerla.
E già. La guerra rafforza il consenso, distoglie l’attenzione dalle contraddizioni interne, sposta risorse in una direzione gradita a chi governa. Non sarà un caso se nell’entourage di Bush hanno sempre avuto un ruolo particolarmente rilevante gli esponenti del complesso industriale militare. Anche in Italia, in fondo, è bastato l’annuncio della partecipazione alle operazioni perché le difficoltà politiche nelle quali il governo Berlusconi sembrava annaspare si dileguassero da un momento all’altro. In entrambi i casi (ma se ne potrebbero elencarne senza sforzo degli altri) al rafforzamento del governo è seguito, con immancabile simmetria, l’indebolimento, o addirittura la crisi, dell’opposizione. E se pensiamo a quello che sta succedendo in tutta l’area che va da Israele al Pakistan, non sembrerà troppo azzardato affermare che tra gli effetti dello stato di guerra va annoverato un indebolimento complessivo del livello planetario di democrazia.
Sono tutti vantaggi cui le classi dirigenti dell’Occidente, quale che sia la loro affiliazioni ideologica, non sembrano intenzionate a rinunciare. Che, alla fin fine, la distanza tra chi sta in alto e chi sta in bassa sarà ancora più clamorosa è l’unico risultato che, allo stato delle cose, si possa ragionevolmente prevedere.

Carlo Oliva