Tre giorni di treno per Istanbul, l’Orient
Express, treno di disperati stipato all’inverosimile di famiglie
turche di ritorno da Germania e Nord Europa, in condizioni indescrivibili.
Nelle prime ore non ci si riesce a muovere. Poi le prime amicizie
sul treno, nelle interminabili pianure slave, marcia a cinquanta
all’ora. Fermi nella notte nelle stazioni, senza mangiare, senza
bere, senza un cesso, la corsa alle fermate per scaricare i
bisogni e la noia.
Nella Turchia europea il treno è così lento che
si scende in corsa e ci si diverte a cambiare vagone, correndo
a piedi a fianco del convoglio. Un ragazzo libanese, in questo
gioco, dà una craniata contro una sbarra di ferro che
avrebbe steso un mulo: si rialza sorridendo, non è niente,
non è niente! Siamo accompagnati dal volo delle cicogne.
L’ultimo giorno sul vagone postale, finalmente possiamo stenderci
per terra e dormire nei sacchi a pelo. L’arrivo a Istanbul,
i parenti degli emigrati fuori dalla vecchia e bellissima stazione,
a migliaia ad abbracciarsi, carichi di vettovaglie, di pacchi,
valigie, involucri e ogni ben di dio. Ci defiliamo, unici occidentali,
e di corsa al Sozyal Oteli, vicino ad Aja Sofia e da Yener,
transito degli hippies in viaggio da e per l’India. Si dorme
in terrazza per pochissimo, tutti insieme, senza pensieri.
Al mattino, senza concederci tregua, il traghetto per la Turchia
asiatica poi, il treno per Teheran. Si viaggia in prima, il
costo è irrisorio, vagoni a cuccetta che sembra un sogno,
il treno piombato, inaccessibile dall’esterno, per evitare gli
assalti dei questuanti. Altri tre giorni di viaggio, vagone
ristorante, il gruppo formatosi in Yugo è ancora insieme,
alcuni italiani, alcune francesi, un inglese, un australiano,
un brasiliano consapevole di assomigliare a Marlon Brando, il
libanese ansioso di piacere agli occidentali e di essere “accettato”.
Sembriamo dei signori ma per altri tre giorni niente doccia
e rimpiangiamo quella non fatta al Sozyal per non pagare l’acqua.
Si attraversano lentamente gli altopiani anatolici.
Un altro poveraccio
In una sperduta stazioncina un piccolo paralitico corre come
può verso di noi per una elemosina. Cerco di scendere
ma il treno sta ripartendo. Butto al volo una cartamoneta, è
andata, penso, ma all’improvviso spunta un altro poveraccio,
che con un balzo precede il bambino portandogli via quello che
credeva già suo. Lo maledico con tutte le mie forze,
ma non posso farci niente. Un’amarezza che mi accompagna ancora
oggi. A Van lunga sosta. Salgono alcuni ragazzi, curiosi e vocianti.
Cercano di fare amicizia, soprattutto con le francesi. In breve,
come accade, dalla simpatia alla paura e alle minacce. Sono
offesi dai modi impauriti e inutilmente aggressivi degli italiani
che pensano di dover difendere le ragazze. Ma da cosa? Dalla
curiosità e dalla voglia di parlare inglese? Sono l’unico
con un po’ di esperienza, faccio rientrare i viaggiatori nello
scompartimento che viene chiuso a chiave e resto nel corridoio
con i turchi, che hanno già i coltelli in mano. Offro
una sigaretta, un sorriso, due parole di scuse. Rispuntano i
sorrisi, le strette di mano, la cordialità innata. Scendono,
il treno riparte.
Si arriva in Iran, nell’Iran dello Scià. A Teheran subito
alla stazione dei bus per la corriera per Mashad, la città
santa vicino al confine afgano. La corriera è di “lusso”
come tutto quello che deve apparire per lo straniero, le strade,
gli ostelli, le birre ghiacciate e il cesso sull’autobus. Peccato
che il contorno rimandi a una miseria senza fine, che fa presagire
la prossima rivoluzione komeinista. La Teheran dello Scià,
americanizzata e occidentalizzata non ci attrae, scappiamo a
gambe levate. Mashad ci prende con la sua bellezza fra le tribù
dei nomadi del deserto che si incontrano in una delle moschee
più sacre del mondo sciita. La moschea è interdetta
ai non credenti, ma la curiosità è grande. Con
la faccia che passa il convento e con un turbante riesco ad
affacciarmi sul cortile: uno spettacolo straordinario, un enorme
affollatissimo bivacco di famiglie, di tribù dai mille
costumi e dalle mille fogge. Sono sbalordito, accecato da questo
incontro improvviso con un mondo così antico. Mi riprendo
e capisco che restare è pericoloso, qualcuno comincia
a guardarmi male.
Mi allontano ma non posso dimenticare. Fuori per cena una tazza
di brodo venduta da una donna per strada. Me la porge con gentilezza
ma quando, vuotatala, gliela rendo, la scaglia per terra con
disprezzo. Mi ha dato da mangiare per dovere ma preferisce perder
la tazza piuttosto che riutilizzarla. Il giorno dopo il visto
per l’Afganistan. Cinque dollari, un furto. Ma tant’è.
Cinque dollari e niente storie, neanche per la faccia sulla
foto tessera. Di notte sulla terrazza del Kharoun Hotel, sulla
testa volteggiano, silenziosi e magici, i gufi reali numerosi
nella città. Finalmente, dopo otto giorni di viaggio,
si parte per Herat, la prima città afgana.
Un paese vicino al cielo
L’Afganistan è una conquista, deve essere una conquista,
arrivarci via terra con disagi e fatica, poco per volta, un
avvicinamento fisico e intellettuale graduale, come sono graduali
le diversità che offre una cultura che la nostra presuntuosa
ignoranza altrimenti non potrebbe comprendere. Ora per ora,
chilometro per chilometro, le sfumature del viaggio si sommano
per farsi consapevolezza della distanza che ci separa da una
realtà così diversa, e diventa chiara la particolarità
di questa terra meravigliosa, di questo popolo così semplice
ma anche così “altro” rispetto a tutto ciò che
lo circonda. A quei paesaggi, a quella gente, penso che niente
gli assomigli. Nessun angolo della terra può somigliare
a questo. Un mio amico lo ha definito un paese vicino al cielo,
ed è così.
Si parte in tanti, in quegli anni, quando si cerca un’alternativa
a un sogno di rivoluzione che vediamo sfaldarsi. Si parte anche
per cercare qualcosa di proibito, sapendo che lì è
facile, ma nel viaggio, nella dimensione del viaggio, nella
emozione che ti comunica il paesaggio senza tempo che ti scorre
davanti agli occhi, tutto cambia, l’avvicinamento al cielo è
reale, il passaggio dall’occidente all’oriente non è
la distanza fisica dalla tua terra, ma diventa un momento di
riflessione e di apertura mentale che non potevi prevedere.
Questo è l’Afganistan, questo è percorrere quel
paese seduto sullo scalcinato trapuntino di una corriera da
cartone animato.
Sorridono, calmi
Alla frontiera un gruppo di afgani, intere famiglie che attendono
di rientrare, seduti per terra, in attesa di un visto, di un
lasciapassare, non so di cosa. Sono rassegnati, rassegnati ad
essere gli ultimi anche rispetto a quegli iraniani che solo
un occhio ormai abituato ci permette di distinguere. La loro
attesa potrebbe essere indifferentemente di un’ora o di una
vita. Ma sorridono, calmi. Nessuno li potrà mai cancellare.
Come possessori di dollari, anche se pochi, siamo privilegiati,
abbiamo la precedenza e passiamo Ci sono dieci chilometri di
terra di nessuno, una strada diritta sull’altopiano, bellissima,
c’è fretta di proseguire e in assenza di un mezzo immediato
che ci carichi, decidiamo di farcela a piedi.
È l’Afganistan. Non so come sarà ma lo immagino
bellissimo. È il tramonto e dobbiamo andare. Dopo alcuni
chilometri siamo raggiunti da un pullmino già stracolmo
di afgani. Dodici posti a sedere e in tutto siamo una trentina.
Saliamo sul tetto in compagnia di vecchi e pecore e raggiungiamo
la frontiera. Bambinetti nascosti dietro le siepi contrattano
velocemente quello che vorrebbero venderci le guardie, scegliamo
i bimbi e sappiamo di far bene, non solo per il prezzo. Un altro
pullmino e nella notte si parte per Herat. Code di turbanti
al vento sul tetto, immagine che ci accompagnerà per
tutto il paese, si ride, semplicemente guardandoci in faccia,
noi e gli afgani, ce l’abbiamo fatta, ci siamo.
Herat. Hotel Kharoun, sulla terrazza sotto un cielo di stelle
che non si può immaginare. Siamo una decina, cominciamo
ad arrotolare e arriva l’albergatore con un tizio: questo è
il capo della polizia di Herat, ci dice, trasecoliamo, adesso
fumate ancora mezz’ora e poi a letto! Ubbidiamo. Per le strade
della città uomini a cavallo col fucile a tracolla, donne
senza burka anche se col velo, un viavai frenetico, davanti
al forno, scavato per terra con il pane schiacciato che cuoce
sulle pareti, gente in fila acquista quel poco che sarà
il suo pasto. Il paese è povero, ho sempre mangiato come
loro e mai più di un po’ di riso, la frutta non si sa
cosa sia, ma yogurt, qualche formaggio, pollo o montone, misere
ossa con attaccata un po’ di carne grassa e saporita. Un “impiegato
del comune” raccoglie per strada lo sterco in un secchio, anch’egli
ha una sua dignitosa professionalità.
Pecore sul tetto
Sulla strada per Kandhar. Un piccolo autobus per metà
fatto di legno trasporta una folla di persone e animali. Sotto
i piedi guardo l’asfalto da un buco nel pavimento in cui passerebbe
un gatto. Ogni tanto ci si ferma, qualcuno scende a pregare
o per incamminarsi verso l’orizzonte deserto, non c’è
una abitazione a perdita d’occhio. Ma lui sa di essere arrivato.
Altri salgono, spuntati come per incanto, siamo beati. Quando
una pecora deve salire sul tetto è un happening. Specialmente
se recalcitra. Lo zombie, l’aiutante dell’autista, entra ed
esce dai finestrini in corsa per salire sul tetto a controllare
i biglietti, accomoda la gente, la fa salire e scendere freneticamente,
non è mai fermo, già guardarlo è un viaggio.
Di notte sosta a Zabul, si mangia un piatto di riso e ci si
accovaccia per terra in una nuda stanza. Al mattino il bagno
è dato da una grande botte piena d’acqua nella quale
ci laviamo tutti insieme. Ci sembra la cosa più naturale
del mondo. Kandhar, la gente dorme per strada in meravigliosi
letti di legno e corda per sottrarsi al caldo dell’altopiano,
le siepi sono piante di canapa, alte tre metri, si fa raccolta,
tutto gratis.
Si riparte per Kabul su quest’unica strada asfaltata del paese,
costruita in condominio da russi e americani, nell’ammirevole
sforzo cooperativo di spartirsi il paese. Villaggi di terra
e fango confusi col paesaggio, pochissime coltivazioni, nessuna
fabbrica per migliaia di chilometri. Pascolo brado e rapaci
nel cielo. Traffico inesistente, poca vegetazione, le montagne
da una parte, il deserto dall’altra. Carovane di nomadi, tribù
kuci, le donne con meravigliosi abiti colorati, i mitici vestiti
afgani che vestiranno le compagne di mezza Europa, cammelli,
asini, cavalli, pecore, uomini, bambini e vecchi, in una teoria
lunga chilometri, gli uomini alla guida poi gli altri, una migrazione
nell’altopiano. È lo spettacolo più straordinario
che abbia mai visto. Li accompagno con lo sguardo e forse vorrei
essere con loro. Mille, duemila anni fa, probabilmente tutto
identico, poche cose sono cambiate, non certo le gerarchie e
le regole sociali che fanno dei nomadi delle steppe e degli
altopiani un’entità a sé. Non sono censibili,
nessuno può sapere quanti siano. Nella grandiosità
del loro passaggio c’è una storia dell’umanità
che stiamo perdendo. Arriviamo a Kabul.
I soliti interessi
È assurdo arrivare in questo paese in aereo, al mattino
sei a Roma e tac! dopo poche ore sei nei bazar di Kabul. Una
follia, l’impossibilità di capire. È nell’ordine
delle cose, il viaggio non è solo un trasferimento fisico,
ma anche un trasferimento mentale fra diverse dimensioni. Esisteva
allora, in tutta la capitale, un unico posto esclusivo per gli
occidentali, la Chicken House, ristorante americanizzato per
americani ed europei, non arroganti ma certamente ignoranti.
Ne ho sentito tessere le lodi perché finalmente “si mangiava
bene”. Spendendo quel che c’era da spendere. Non ho mai neanche
capito da che parte della città fosse.
C’è modo e modo, penso, di avvicinarsi a un paese comunemente
ritenuto arretrato, quello da colonizzatori e quello da visitatori,
quello “predatorio” e quello “mutualistico”. Nel primo caso,
che si parta per diporto, o in divisa mimetica e al comando
di un cacciabombardiere, l’approccio è lo stesso. A fianco
di tutti i soliti interessi militari, economici, politici, c’è
anche, sempre, un malriposto senso di superiorità che
giustifica e determina ogni possibile infamia. I morti, i dolori,
i lutti, non sono mai uguali. Come si potrebbe paragonare il
tormento di un analfabeta afgano che perde una misera casupola
di fango sotto le bombe umanitarie, con quello di un occidentale
allorché viene privato anche solo di una parte delle
sue tante luccicanti proprietà?
Donne nomadi
Kabul, Mongol Hotel, sul cortile di un caravanserraglio. Servizi
igienici da trincea, camere visitate da enormi scorpioni del
deserto, ma non ci si fa caso. Sigarette indiane, quaderni russi,
fiammiferi pakistani, biciclette cinesi, nulla che sia prodotto
nel paese. Solo l’artigianato, un artigianato meraviglioso,
di stoffe, gioielli, pelli e tappeti, quasi tutto prodotto dalle
donne nomadi numerosissime in città. Sono a capo scoperto,
belle e libere, consapevoli della loro diversità. Per
strada altre donne, alcune col burka, altre, poche, occidentalizzate.
Le studentesse, quelle che oggi non ci sono più, in divisa
all’inglese. L’edificio più alto della città è
di cinque piani, moderno e bruttissimo, ma del resto tutta l’architettura
di Kabul non è granché. Vent’anni di bombardamenti,
russi, afgani, americani, il patrimonio artistico non ne avrà
risentito.
In un asfittico giardino pubblico due anziani, col berretto
di astrakan, si esercitano in una pantomima guerresca
armati di lunghi bastoni. Piccoli levrieri randagi attendono
un boccone. In una çaikana a bere un tè.
Un gruppo di musicisti tradizionali esegue melodie popolari,
suonano per se stessi, siamo solo due avventori. L’afgano è
su una seggiola, ma non seduto, vi è appollaiato come
se fosse all’aperto. La teiera deve essersi rotta in tempi immemorabili,
ma è stata aggiustata con punti metallici. Sembrerebbe
incredibile ovunque, ma non in Afganistan. Non si ha idea di
cosa possa fare un meccanico da queste parti. Offro una caramella,
l’afgano prende il pacchetto e si mette in bocca il contenuto
tutto in una volta. Sembra in difficoltà ma sorride fiero
e amichevole, siamo fratelli. È consapevole del dono,
fa capire che lo apprezza, è il suo modo, un modo primordiale
e profondo, per stabilire un rapporto di reciprocità.
Un antropologo ci andrebbe a nozze.
Al bazar i baratti. Con un vecchio mercante, dopo due ore di
serafica contrattazione intercalata da lunghi silenzi, scambio
una sterlina oro, il mio nascosto tesoro, con alcune stoffe
antiche, meravigliosi ricami sicuramente nomadi. Grande soddisfazione
di entrambi. Quello che gli ho dato, per lui vale dieci volte
tanto, ma lui ha fatto lo stesso con me. Da un venditore di
pietre e argenti ci passo un pomeriggio. Gli cedo la camicia
e le scarpe che indosso, in cambio ricevo tre camiciotti afgani
e due cinture d’argento e lapislazzuli. Vorrebbe appoggiarmi
anche un cucciolo di lupo che tiene sulla strada, ma non saprei
come portarlo a casa.
All’ufficio postale lunga coda di viaggiatori. Si contratta
sul prezzo dei francobolli per le cartoline. Sì, il valore
è stampato sul francobollo, ma la contrattazione deve
solo garantire che una volta consegnate le cartoline affrancate,
il tizio non stacchi i francobolli per rivenderli. Niente di
più normale. La corriera del ritorno, siamo cinque occidentali,
tutti con la stessa destinazione. Cinque biglietti, cinque prezzi
differenti, tutti sicuramente almeno il doppio di quanto pagato
dai locali. Cosa c’è mai di strano? Oggi, a quanto pare,
Kabul non è più la stessa. Vent’anni di guerra,
di ogni tipo di guerra, ne hanno distrutta la fisionomia. Non
credo che ne abbiano distrutto lo spirito.
Né leggi né codici formali
L’Afganistan è un paese dove non cerchi mai l’aria di
casa, non ne hai bisogno. È normale che anche il viaggiatore
più navigato prima o poi cerchi in un volto, un ambiente,
un’insegna, un cibo, una persona incontrata per strada, quel
flash che gli ricordi la sua abituale e rassicurante quotidianità.
Insomma, la voglia di casa. È un bisogno che sorge naturale,
che si fa vivo ogni volta che pesa la lontananza dalle proprie
radici. In Afganistan non succede perché non c’è
nulla che ti faccia pensare di non essere a posto in un posto
congeniale.
Nel tempo che vi ho passato non ho mai assistito a una scena
di violenza, a un alterco, a un momento di tensione o di pericolo.
E questo può sembrare incredibile in un paese dove la
gente gira ancora armata di coltelli e armi da fuoco. E dove
mai avverti il senso dello Stato. O invece proprio per questo.
I rapporti sociali non sembrano regolati da leggi e codici formali
che facciamo riferimento a un’entità astratta e distante,
ma si sviluppano sulla base di norme che poggiano su un sistema
di valori individuali percepiti con forza. Indubbiamente, e
soprattutto negli ultimi tempi, il rigore imposto dai talebani
ha modificato in peggio aspetti fondamentali della vita quotidiana
di questo popolo, ma sono convinto comunque che ogni afgano
continui a rispondere delle proprie azioni, prima di tutto,
a se stesso. La fierezza del portamento che colpisce fin dal
primo momento l’occhio del viaggiatore, non è altro che
lo specchio di una fierezza interiore che nessuna forza al mondo
potrà scalfire. L’afgano può essere affittato,
ma mai comprato, recita un proverbio pakistano divenuto famoso.
Ne sono perfettamente convinto.
Anche oggi, come ormai succede da ventidue anni, ben altra gente
si mette in strada per l’Afganistan. Non più i giovani
e trasgressivi ribelli on the road, ma altri giovani lobotomizzati
su carri armati, aerei e altri mezzi militari. Alcuni ci hanno
già lasciato le penne anni orsono, altri si stanno apprestando
ad affrontare questo “popolo di straccioni”, come lo ha appellato
George Washington Bush, con lo stesso orgoglio e la stessa criminale
incoscienza. Certo, a vedere come sono armati ed equipaggiati
gli afgani, come sono incapaci di marciare o di sottostare alla
disciplina, verrebbe da pensare che la spedizione americana,
una volta finiti i bombardamenti, occuperà militarmente
il paese con la facilità con cui un coltello affonda
nel burro. Però viene da pensare che non sia un caso
che intanto devono scendere in campo i più potenti eserciti
del mondo, con “forze di cielo, di terra, di mare”, per mettere
in riga questa indomabile genia di montanari e pastori analfabeti.
Massimo Ortalli
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