rivista anarchica
anno 32 n. 278
febbraio 2002


anarchici

Ritratti in piedi
Dialoghi fra storia e letteratura

a cura di Massimo Ortalli

Anarchici italiani in Brasile

È di questi giorni la notizia che Zélia Gattai, vedova di Jorge Amado, ha ottenuto il posto che fu del marito, uno dei più grandi autori contemporanei brasiliani, nella prestigiosa Accademia di letteratura di Rio de Janeiro. Zélia Gattai non è solo la brillante scrittrice più volte tradotta anche in Italia, ma è una delle ultime epigoni di quella massiccia emigrazione italiana in Brasile che, a cavallo fra Ottocento e Novecento vide tante famiglie di anarchici italiani recarsi nel grande paese sudamericano «con la speranza di giorni migliori». «La maggior parte – spiega Edgar Rodrigues – era venuta credendo di incontrare pace, lavoro, benessere sociale, uguaglianza di possibilità, fratellanza umana, libertà di opinione e d’associazione. Ma era illusione». (Lavoratori italiani in Brasile, Casalvelino, Galzerano, 1985). Di quelle vicende, così legate alla storia del nostro movimento, Zélia si è fatta testimone e piacevole narratrice nel bel racconto autobiografico uscito in Italia una ventina di anni orsono (Anarchici, grazie a dio, Milano, Frassinelli, 1983), nel quale descrive con grande freschezza l’atmosfera di profonda umanità che caratterizza l’ambiente degli anarchici italiani, sempre capaci di mantenere una intima coerenza ideale anche nel loro duro e legittimo sforzo di emancipazione. La popolarità dell’argomento è attestata dall’enorme successo che ottenne, a suo tempo, la telenovela omonima tratta da questo romanzo, successo ripetutosi, e non casualmente, per altre serie ispirate, come questa, al milieu anarchico italiano.
I primi nuclei di libertari italiani giunsero nel grande paese sudamericano al seguito di Giovanni Rossi, l’agronomo toscano promotore della famosa Colonia Cecilia, una delle prime e più importanti comunità anarchiche sperimentali. E fra i fondatori di quella Comune troviamo anche Francesco Gattai, nonno paterno di Zélia. Nonostante l’infelice destino di quell’esperimento, arenatosi tristemente davanti alle immense difficoltà ambientali (ma non solo), che ne travagliarono l’esistenza, non si fermò l’afflusso di anarchici e libertari nel ricchissimo Brasile, così come continuò massiccia l’emigrazione da ogni parte d’Italia di poveri contadini e operai alla ricerca di condizioni di vita più dignitose. Questo movimento migratorio fu particolarmente significativo dalla metà degli anni Novanta dell’Ottocento, fino al primo decennio del Novecento, per riprendere vigore negli anni Venti, allorché cominciarono a giungere in Brasile nuovi esuli costretti a cercarvi riparo per sfuggire alle persecuzioni fasciste.
Leggendo il documentato lavoro di Edgar Rodrigues, ci si rende conto dell’importanza che ebbe per la vita politica e culturale di quel paese l’apporto della numerosa comunità libertaria italiana. In grandi città come San Paolo, dove maggiore era la concentrazione degli anarchici, i gruppi di lingua italiana furono spesso all’avanguardia delle lotte sociali del proletariato brasiliano e i militanti più preparati parteciparono fecondamente alla vita intellettuale locale. Grazie anche alla comune matrice latina, l’integrazione fra la cultura italiana e quella portoghese raggiunse livelli ben più organici di quelli che si registrarono, negli stessi anni, fra la comunità anarchica italiana emigrata negli Stati Uniti e l’anarchismo locale. Sia come sia, il movimento anarchico di lingua italiana in Brasile conobbe l’attività di alcune figure di militanti davvero particolari, fra le quali voglio ricordarne due, se non fra le più note nella nostra galleria, certamente fra le più significative. E poiché oggi vive a Castelbolognese la compagna Giordana Garavini, figlia di Nello ed Emma Neri, una bella, bellissima coppia di anarchici rifugiatisi nella metropoli carioca nei primi anni del fascismo, è a tutti loro che dedico volentieri questi ritratti.

Oreste Ristori nasce a Empoli nel 1874 ed entra giovanissimo operaio nel locale gruppo anarchico. Dopo un primo arresto a 17 anni, in seguito alle famigerate leggi crispine viene inviato al domicilio coatto a Porto Ercole, poi a Tremiti e Pantelleria. Costretto per la sua intensa attività di agitatore ad espatriare in Francia dopo i moti del 1898, viene più volte espulso e rispedito in Italia, dove frequenta i «bagni» di Ponza ed Ustica. Nel 1902 emigra in Argentina e l’anno successivo le autorità del paese sono già pronte a rimandarlo in Italia. Con una fuga avventurosa dalla nave che dovrebbe riportarlo in Europa, si sottrae nuovamente all’espulsione, quindi ripara in Uruguay e infine in Brasile. Qui fonda il giornale «La Battaglia» che, nei suoi otto anni di vita, sarà uno degli organi di propaganda più diffusi e importanti di tutto il paese. Nel lungo periodo di permanenza nel paese sudamericano, la sua attività in favore della libertà e contro la dittatura fascista non conosce soste, e questo gli procura numerosi arresti e condanne. Frequenti sono gli spostamenti nei paesi confinanti, là dove lo richiama la lotta o una sommossa, e altrettanto frequenti sono le rocambolesche fughe e le espulsioni poliziesche. Cacciato dal Brasile nel 1936, pare che sia fra gli anarchici accorsi in difesa della rivoluzione spagnola. L’anno successivo lo troviamo in Francia e nel 1940, allo scoppio della guerra, viene rispedito dalle autorità francesi nella sua Empoli. Nel 1943 viene incarcerato dai fascisti e il 2 dicembre di quell’anno è fucilato a Firenze dai nazifascisti come rappresaglia in seguito all’uccisione di un gerarca. Un suo compagno di lotta ricorda che «morì con coraggio e con la pipa in bocca, cosa abituale per lui». (Testimonianza contenuta in una lettera di Oscar Giovannelli di Empoli, pubblicata da Carlo Romani in Oreste Ristori. Un’avventura anarchica, in «Rivista Storica dell’Anarchismo», VI (1999), 1, p. 102).
È autore di numerosi opuscoli, ormai introvabili, fra i quali ricordiamo Polemiche sull’anarchia (São Paulo, 1907), Le infamie secolari del cattolicesimo (São Paulo, 1908), Con Mosé o con Darwin (Buenos Aires, 1919), Le corbellerie del collettivismo (São Paulo, s.a.).

Alessandro Cerchiai nasce a Pescia nel 1877. A soli 7 anni segue la famiglia in Francia dove trascorre la giovinezza. Avvicinatosi alle idee libertarie, nel 1896 rientra in Italia e l’anno successivo, assieme a Cipriani e altri anarchici, partecipa alla campagna greco-turca combattendo nella battaglia di Domokos. Rientrato a Milano si trova coinvolto nei moti del 1898, finendo così di fronte al tribunale militare che lo condanna a quattro anni. Una volta tornato in libertà, nel 1901, non tollerando le pesanti attenzioni poliziesche, si reca in Brasile dove si ricongiunge con la famiglia. Guadagnandosi da vivere con i mestieri più umili, dedica il tempo restante all’attività di propaganda, scrivendo sulle pagine in italiano dell’«Amigo do Povo» e di «Germinal!». Collabora assiduamente con Ristori e per otto anni è redattore de «La Battaglia». Come per tutti i suoi compagni di fede, l’attività che svolge è causa di continui arresti e denunce, e frequenti sono pure le temute minacce d’espulsione. Più volte condannato e incarcerato, si reca spesso in Argentina e in Uruguay, dove collabora alla stampa anarchica. Pacifista per convinzione, come ci ricorda Rodrigues, «divenne maestro, un grande maestro nell’arte dell’insegnamento» (Lavoratori... cit., p. 221). Così lo descrive il romanziere socialista Tito Batini, uno dei suoi migliori allievi: «Arrivò a Bauru alla fine del 1913, chiamato da amici che desideravano dare ai loro figli un buon insegnante. Non portava dolci o regali, ma la grande offerta di una bontà immensa e degli insegnamenti facili e soavi come le sue grandi mani [...]. Avrei moltissimo da raccontare di quell’anarchico, uomo buono, utile e fecondo, che fu Alessandro Cerchiai, soldato garibaldino, giornalista, netturbino qui a San Paolo, tornitore a Sorocabana e uomo di molti altri mestieri e, inoltre, grande maestro» (in Lavoratori... cit., p. 221). Attivo fino all’ultimo nell’opera di propaganda, si spegne a San Paolo nel 1935. Tra i suoi scritti, introvabili come quelli di Ristori, ricordo gli opuscoli usciti fra il 1932 e il 1936 nella collana paulista «I Quaderni della Libertà»: L’incendio degli altiforni; Pagine di vita; Deportati ed emigrati italiani in America; La decapitazione di Crispi.

Massimo Ortalli

Bibliografia

La bibliografia su Ristori, e soprattutto su Cerchiai, è estremamente scarsa. Ricorderò le brevi note biografiche di entrambi che appaiono in appendice all’opera già citata di Edgar Rodrigues, forse l’unico testo uscito in italiano che affronta il tema dell’emigrazione anarchica italiana in Brasile. Altre notizie su Ristori sono contenute nel recente saggio di Carlo Romani (Oreste Ristori. Un’avventura anarchica cit.), molto interessante anche per la buona documentazione bibliografica. Su Cerchiai posso segnalare soltanto le brevi note biografiche, qui utilizzate, redatte da Elvio Nervo sul numero 5 de «I Quaderni della Libertà», apparse a São Paulo nel 1936.
È un po’ più ricca, al contrario, la bibliografia relativa a Giovanni Rossi e alla Colonia Cecilia, e qui mi limito a rimandare al fondamentale testo di Rosellina Gosi, Il socialismo utopistico. Giovanni Rossi e la colonia anarchica Cecilia, Milano, Moizzi, 1977.

 

L’espulsione degli “agitatori stranieri”
di Edgar Rodrigues

Il Brasile è stato, senza dubbio, il paese che più di tutti ha tratto vantaggio dalle braccia del lavoratore straniero.
Un tempo esistevano i procacciatori di mano d’opera specializzata in Europa, che allettavano e offrivano vantaggi a chi volesse andare a lavorare in Brasile.
Migliaia e migliaia di braccia si rovesciarono nei porti di Rio de Janeiro e di Santos, alcuni con destinazione Manaus, Recife e il sud del Brasile.
In principio, nulla di nuovo... Padroni sfruttatori come in qualsiasi altra parte del globo e lavoratori soggetti a condizioni identiche ai paesi da cui provenivano.
Qui, come in Europa e in Asia, la questione sociale presentava contraddizioni stridenti. Perciò, come nei loro paesi d’origine, i lavoratori che reclamavano migliori salari ed un trattamento più umano., qui, come nelle loro terre, dovevano protestare e conquistare il diritto di fondare associazioni di classe, di scendere in sciopero, frequentare le scuole, ridurre gli orari di lavoro, addirittura stabilire un minimo di igiene, sicurezza e garanzie rispetto agli incidenti sui luoghi di lavoro.
Ma ad ogni protesta operaia il governo rispondeva con la voce del manganello, che si faceva sentire sui corpi smunti dei lavoratori che protestavano.
La schiavitù era stata abolita per legge; gli antichi capiguardia avevano ceduto il posto ai capimastri, ma la frustra continuava ad esser il mezzo per impedire reclami e miglioramenti salariali. Cambiavano le leggi e i nomi, ma la violenza e le punizioni continuavano ad essere le stesse.
Invece del guardiano tirannico, che frustava o legava i lavoratori schiavi agli alberi per ordine del padrone, ora era il poliziotto che, con la scusa di mantenere l’ordine borghese dei nuovi ricchi, faceva sentire il morso del manganello sul corpo malnutrito dell’operaio schiavizzato.
Per i più recalcitranti, la catena sostituì l’albero, dove un tempo venivano legati i lavoratori schiavi.
In breve, resisi conto della triste realtà sociale, alcuni reagirono con gli scioperi e altri, i più istruiti, attraverso i giornali, fondati dagli stessi lavoratori con l’aiuto di pochi intellettuali. E si fecero sentire protestando contro gli sfruttatori che, in Brasile come in qualsiasi altra parte del mondo, non lasciavano altra scelta ai lavoratori che il diritto di morire silenziosamente di fame, di protestare e venir ammazzati dalla polizia o soffocare le idee in fondo alle prigioni, in attesa della prima nave che portava masse di lavoratori di questo tipo, come bestiame da scaricare in un qualche porto dove venivano raccolti come animali schifosi, indesiderabili.
Attraverso promesse e compromessi, il governo adottò leggi per giustificare le espulsioni. Tentò di chiudere la bocca alla stampa europea, di negare le ragioni, le verità denunciate dagli espulsi.
All’uopo, radunò i suoi servitori, i suoi fedeli aiutanti e, in breve, ottenne le “armi giuridiche” per garantire che i lavoratori e gli uomini decisi venissero obbligati a lasciare il Brasile, venissero processati, giudicati e condannati secondo la legge:
Ma la ferocia del governo cadeva sulla testa degli anarchici che non venivano processati e non avevano modo di difendersi. Catturati, essi erano imbarcati clandestinamente sulle navi dalla polizia, che convinceva i comandanti a portarseli in un porto di qualche paese straniero. Alcuni casi venivano denunciati ai tribunali dalle mogli e dai figli, che rimanevano qui senza conoscere il destino dei loro mariti e padri. Finivano per essere processati; alcuni di loro venivano assolti e, così ritornavano dalle loro famiglie e tra i loro compagni.
La legge d’espulsione aveva come obiettivo specifico gli anarchici. Nessun criminale comune, ladro o vagabondo venne colpito da questa legge ed espulso. La legge prendeva di mira gli anarchici più attivi, i più efficienti e, poiché essi non trovavano alcuno che desse loro lavoro, la maggior parte del loro tempo lo trascorrevano a percorrere gli Stati del Brasile, tenendo i contatti con gruppi affini, svolgendo conferenze e dibattiti, insegnando, facendo circolare la propaganda scritta, vivendo dei sussidi sottoscritti dai gruppi libertari e dalle associazioni operaie, in qualità di delegati itineranti al servizio dell’ideale.
La polizia era al corrente di questa situazione, in quanto essa stessa contribuiva a crearla, “invitando” i padroni a licenziare e a rifiutare lavoro agli anarchici ed agli anarco-sindacalisti più attivi, in modo che, disoccupati, potessero venire espulsi come vagabondi. E quanti vennero accusati perfino di furto senza aver rubato neanche un centesimo!
I militanti italiani erano tra i più colpiti. Attivi come erano, richiamavano subito l’attenzione dei padroni e delle autorità e per questo furono tra i primi a subìrne le conseguenze.

Zola, Kropotkin,
Victor Hugo,
Bakunin, e altri
di Zélia Gattai

Finito di sfogliare la Divina Commedia, ci rimaneva ancora molto tempo a disposizione, per ulteriori incursioni nel guardaroba. Ancora un altro giro di Ferro-China... Vera e Wanda spalancarono le ante dell’armadio, tirarono fuori una pila di libri”. Vera andava leggendo i nomi degli autori; chissà che non ci fosse, lì in mezzo, qualche libro sconosciuto per noi? Pietro Gori, un autore: che conoscevamo benissimo. II suo libro era un compendio di drammi anarchici (una autentica bibbia per donna Angelina) piuttosto malridotto, sempre con un segnalibro fra le pagine. Due libri di dottrina anarchica: di Bakunin e di Kropotkin. Neri Tanfucio, poeta umoristico, un prediletto di donna Angelina. Lei sapeva il libro quasi a memoria, ne recitava ogni momento i versi, spiritosi e satirici.
Poi era la volta dei preferiti di mamma e delle mie sorelle: I miserabili e I lavoratori del mare. Quei due libri erano a pezzi, tanto erano stati letti, Mamma amava leggere brani de I miserabili per i figli e per Maria Negra. “Un libro vero”, diceva, “molto istruttivo.”
C’erano tre libri di Émile Zola: Tèresa Raquin, Germinal e Io accuso. Wanda adorava Teresa Raquin, Vera, più puritana, avanzava riserve. Io, che non sapevo leggere, mi accontentavo delle illustrazioni, perché erano impressionanti e proibite. Germinal lo lessi appassionatamente molti anni dopo e fu un libro che significò molto, per me. Io accuso non ci interessava, non era un romanzo, non aveva le figure. Sapevamo però che si trattava di un libro molto importante perché, nelle riunioni proletarie alle quali partecipavamo, si faceva continuo riferimento al “caso Dreyfus” (tema di Io accuso), specialmente durante la campagna a favore di Sacco e Vanzetti. Gli oratori paragonavano i due casi fra di loro, citando Io accuso come esempio di quanto poteva essere fatto nella lotta per la verità, contro la persecuzione politica e razziale.
Zola era un idolo per tutti quegli anarchici italiani, che arrivavano perfino ad attribuirgli la loro nazionalità, visto che pronunciavano il suo nome all’italiana: Emilio Zòla. Identico tentativo di nazionalizzazione veniva fatto per Victor Hugo; loro lo pronunciavano Ugo. “Sono oriundi...” dicevano.

Contestando papà

Era già quasi mezzogiorno, quando Wanda mi ordinò di andare a comprare le olive al negozio del sor Enrico; stava preparando un piatto di melanzane per il pranzo, ricetta nuovissima, speciale, fornita da Jole Strambi. Sopra le melanzane, cotte e ridotte in poltiglia, per adornare il piatto di portata, dovevano essere collocate delle fettine di cipolla e nel mezzo di ogni fettina una oliva nera. In casa c’erano delle olive, ma erano verdi. Non andavano bene, verde con verde non combinava, non faceva effetto. Wanda era esigente, “l’aspetto ha il suo peso nella presentazione di un piatto”.
Arrivata al negozio, trovai un ambiente tumultuoso: parecchi tifosi impegnati in una animatissima discussione sul football. Commentavano la prestazione di Friedenreich nell’ultima partita, la maggior parte esaltava “il più grande goleador di tutti i tempi, meraviglioso, unico...”, pochi altri non erano d’accordo e urlavano a gran voce... Nella speranza che il battibecco degenerasse in pugilato, mi installai comodamente su una pila di sacchi di riso, e aspettai con calma.
La famiglia era già a tavola, quando ritornai con il pacchettino di olive nere. Mi spaventai. Papà era severo in certe cose: per esempio non ammetteva assenze all’ora dei pasti. Oltre a prendere una solenne sgridata, il colpevole restava digiuno.
Fui accolta malamente da un urlaccio di papà.
“Non lo sai, signorina, che all’ora di pranzo devi essere in casa?”
Tentai di spiegare (che cosa, non lo so), ma lui non lo permise:
“Zitta! Quando io parlo non si risponde...”
“Ma papà!”
“Zitta, ho detto!”
“Ma...”
“Silenzio!”
Mi assalì una ondata di ribellione, mi venne in mente una massima anarchica, che lui amava molto citare, senza esitare, mi alzai da tavola, mi avvicinai alla porta e spifferai il discorsetto, con le intonazioni esatte, così come l’avevo imparto, e il dito alzato, come usava fare lui:
“Quando la forza e la ragion contrastan, vince la forza la ragion non basta!” e me la svignai nelle stanze interne.
Pronta a ricevere da mio padre, per la prima volta in vita mia, una scarica di botte, rimasi in camera di mamma in attesa. Questa volta mi ero spinta troppo in là, avevo ecceduto tenendogli testa in quel modo. Chi altri avrebbe avuto il coraggio di affrontarlo così? Neanche mamma!
Dopo un poco venne Vera, colpitissima da quanto stava accadendo:
“Papà ha detto di chiamarti per andare a tavola, dice che il pranzo si raffredda”.
Là per là non ci credetti. Vera non mi stava, per caso preparando qualche scherzetto? E papà non era infuriato? Non aveva detto niente?
“Nessuno scherzetto! Papà è lì, piuttosto sconcertato, non sa che pesci prendere, non ha detto niente; è rimasto di sasso.
Accidenti. Non me lo sarei mai aspettato! Che sfacciata!”

Bandiera rossa e nera

In un carrozzone a quattro ruote, con i loro fagotti e alcune masserizie, la famiglia Gattai passò per Santa Barbara: moglie, marito e quattro figli.
Vedendo passar il carro, alcuni bambini gridarono, chiamando le madri: “Venite a vedere, stanno arrivando altri zingari...”Poco più di un mese prima, era già passata di lì tanta gente, più o meno nelle stesse condizioni. Zingari certamente, pensarono gli abitanti del piccolo villaggio, e sbarrarono le porte delle modeste abitazioni, ricoperte di fogli di zinco, per tImore di essere derubati.
In cima alla collina, in mezzo ai pini, si scorgeva, issata su di una altissima palma, una grande bandiera rossa e nera. Era la bandiera della Colonia Cecilia che salutava l’arrivo del suoi ultimi pionieri.
Vedendo la bandiera, nonno Gattai guardò giù ed esclamò: “Eccoli là!” C’era l’accampamento: un grande capannone eretto vicino a un torrentello, alcune piccole baracche in costruzione, uomini che si affaccendavano di qua e di là, un pezzo di terra già pulito, pronto per la semina, vicino ad un boschetto.
Nonna Argìa guardò nella direzione indicata dal marito.
I suoi occhi perduti nel vuoto non vedevano nulla. La sua allegria, la sua speranza, il suo entusiasmo erano rimasti laggiù, sepolti insieme al corpicino della figlia. Durante tutto il viaggio, non aveva proferito una sola parola, nessuna recriminazione, nessuna accusa. Non aveva sparso una lacrima, era completamente apatica. Il marito, controllando il proprio dolore per la morte della figlia, cercava di distrarre la moglie, indicandole mille cose, durante il lungo e faticoso viaggio, per la strada. Ma senza risultato.
Avvistato il carro della famiglia Gattai, la gente dell’ accampamento gli andò incontro. I Gattai furono alloggiati, provvisoriamente, nel capannone costruito dal gruppo arrivato prima. Appena sul posto, tutti avevano lavorato per tirare su il capannone cd avere subito un luogo dove ripararsi. Nei giorni seguenti, ogni famiglia s’ingegnò a costruire la propria casa. Il capannone rimase come deposito e per casi di emergenza come quello dei Gattai.
I quattro bambini, liberi di saltare giù dallo scomodo carro, corsero immediatamente al torrentello, dall’acqua cristallina. Nessuno impedì loro di buttarsi nell’acqua, vestiti e tutto. Avevano bisogno di aria pura, di acqua e soprattutto di libertà.

Le “Classi Lavoratrici”

I miei genitori erano molto assidui alle riunioni politiche. Il sor Ernesto consultava attentamente i giornali, a caccia di annunci di conferenze e comizi di solidarietà, Non ne perdeva uno. Trascinava con sé tutta la figliolanza, meno Remo, l’irresistibile del quartiere, più interessato alla conquista di cuori che ad assistere, seduto per ore e ore, a noiosi discorsi. Prima ancora di essere invitato, scompariva misteriosamente, si dissolveva nel nulla. Di modo ché soltanto le tre ragazze e Tito si aggregavano alla carovana politico-culturale.
Quella sera il conte Frola (questo era il nome del conferenziere) avrebbe parlato ai lavoratori e agli intellettuali di San Paolo, nel locale delle “Classi Lavoratrici”, salone per feste e conferenze, situato al primo piano di una sopraelevazione, in via del Carmo, al centro della città. Avrebbe senz’altro parlato del caso Sacco e Vanzetti. Questo conte, come ci spiegò papà, era un acceso antifascista, un “cervellone”! Ma i suoi titoli nobiliari non interferivano per nulla con le sue idee avanzate.
Per i ragazzi, quelle riunioni politiche si trasformavano in divertimento. C’era un ambiente festoso, tutti portavano i figli, abitudine o necessità dei poveri che, in generale, non hanno con chi lasciarli quando devono uscire. Si presentavano bambini di tutte le età, inclusi i lattanti che durante le conferenze ciucciavano, con il seno che funzionava da tappo, per zittirli quando minacciavano uno scoppio di pianto.
Le serate erano divise in due parti e, per me, la prima era la migliore. Si vendevano giornali, La lanterna giornaletto anticlericale e La difesa giornale socialista; si facevano riffe di oggetti e libri, tutto per finanziare i giornali e pagare l’affitto della sala. Vera ed io facevamo parte del gruppo delle venditrici. Per la vendita dei giornali e per le attività artistiche erano in concorrenza due gruppi: quello delle italiane e quello delle spagnole. Noi, naturalmente, facevamo parte del primo gruppo, anche se ci sentivamo completamente brasiliane. Ma la gente ci considerava italiane.
Piuttosto popolare e disinvolta, una vedette in campo letterario-musicale come fine dicitrice, io vendevo moltissimo.
I versi che Wanda m’insegnava per quelle occasioni erano in generale poesie di Guerra Junqueiro, sonore, anticlericali, contundenti.
Un gruppetto di bambine spagnole mieteva successi sul palcoscenico, cantando una vecchia canzone anarchica: “Dove vai con pacchi e liste/ dove vai con tanto correre/ al congresso degli anarchici/ che rivendicano un diritto: vivere!”.
Loro cantavano e il pubblico, nel finale, faceva coro, ripetendo il “vivere” a pieni polmoni. Non riuscii mai a trovare qualcosa di altrettanto vibrante, capace di competere con quella ardente canzone e che ci permettesse di sconfiggere le spagnole.
Durante la ricorrenza di un Primo Maggio (ah, che meraviglia, le feste del Primo Maggio, quelle sì che erano eccezionali!), Vera, la “disinvolta”, e un ragazzotto della sua età (si facevano il filo a vicenda, dall’ultima festa) si misero a ballare al suono dell’Inno dell’Internazionale: proprio così, né più né meno. Fu la volta, per mamma, di voler scomparire dalla vergogna. “Che mancanza di rispetto, Madonna mia santissima!” La coppietta si fermò soltanto dopo essere stata richiamata a gran voce, quando ormai aveva quasi attraversato il salone, ballando un passo molto in voga in quel momento: Il “passo del cammello”. Lo stesso giorno, io mi presi un pizzicotto sul braccio, per aver cambiato le parole dell’Internazionale (all’Inno, quella sera, non gliene andava bene una!). Invece di cantare:“... in piedi, o vittime della fame”, io cantai:“... il piede della vittima della fame!”.