Anarchici italiani in Brasile
È di questi giorni la notizia che Zélia Gattai,
vedova di Jorge Amado, ha ottenuto il posto che fu del marito,
uno dei più grandi autori contemporanei brasiliani, nella prestigiosa
Accademia di letteratura di Rio de Janeiro. Zélia Gattai non
è solo la brillante scrittrice più volte tradotta anche in Italia,
ma è una delle ultime epigoni di quella massiccia emigrazione
italiana in Brasile che, a cavallo fra Ottocento e Novecento
vide tante famiglie di anarchici italiani recarsi nel grande
paese sudamericano «con la speranza di giorni migliori». «La
maggior parte – spiega Edgar Rodrigues – era venuta credendo
di incontrare pace, lavoro, benessere sociale, uguaglianza di
possibilità, fratellanza umana, libertà di opinione e d’associazione.
Ma era illusione». (Lavoratori italiani in Brasile, Casalvelino,
Galzerano, 1985). Di quelle vicende, così legate alla storia
del nostro movimento, Zélia si è fatta testimone e piacevole
narratrice nel bel racconto autobiografico uscito in Italia
una ventina di anni orsono (Anarchici, grazie a dio,
Milano, Frassinelli, 1983), nel quale descrive con grande freschezza
l’atmosfera di profonda umanità che caratterizza l’ambiente
degli anarchici italiani, sempre capaci di mantenere una intima
coerenza ideale anche nel loro duro e legittimo sforzo di emancipazione.
La popolarità dell’argomento è attestata dall’enorme successo
che ottenne, a suo tempo, la telenovela omonima tratta
da questo romanzo, successo ripetutosi, e non casualmente, per
altre serie ispirate, come questa, al milieu anarchico
italiano.
I primi nuclei di libertari italiani giunsero nel grande paese
sudamericano al seguito di Giovanni Rossi, l’agronomo toscano
promotore della famosa Colonia Cecilia, una delle prime e più
importanti comunità anarchiche sperimentali. E fra i fondatori
di quella Comune troviamo anche Francesco Gattai, nonno paterno
di Zélia. Nonostante l’infelice destino di quell’esperimento,
arenatosi tristemente davanti alle immense difficoltà ambientali
(ma non solo), che ne travagliarono l’esistenza, non si fermò
l’afflusso di anarchici e libertari nel ricchissimo Brasile,
così come continuò massiccia l’emigrazione da ogni parte d’Italia
di poveri contadini e operai alla ricerca di condizioni di vita
più dignitose. Questo movimento migratorio fu particolarmente
significativo dalla metà degli anni Novanta dell’Ottocento,
fino al primo decennio del Novecento, per riprendere vigore
negli anni Venti, allorché cominciarono a giungere in Brasile
nuovi esuli costretti a cercarvi riparo per sfuggire alle persecuzioni
fasciste.
Leggendo il documentato lavoro di Edgar Rodrigues, ci si rende
conto dell’importanza che ebbe per la vita politica e culturale
di quel paese l’apporto della numerosa comunità libertaria italiana.
In grandi città come San Paolo, dove maggiore era la concentrazione
degli anarchici, i gruppi di lingua italiana furono spesso all’avanguardia
delle lotte sociali del proletariato brasiliano e i militanti
più preparati parteciparono fecondamente alla vita intellettuale
locale. Grazie anche alla comune matrice latina, l’integrazione
fra la cultura italiana e quella portoghese raggiunse livelli
ben più organici di quelli che si registrarono, negli stessi
anni, fra la comunità anarchica italiana emigrata negli Stati
Uniti e l’anarchismo locale. Sia come sia, il movimento anarchico
di lingua italiana in Brasile conobbe l’attività di alcune figure
di militanti davvero particolari, fra le quali voglio ricordarne
due, se non fra le più note nella nostra galleria, certamente
fra le più significative. E poiché oggi vive a Castelbolognese
la compagna Giordana Garavini, figlia di Nello ed Emma Neri,
una bella, bellissima coppia di anarchici rifugiatisi nella
metropoli carioca nei primi anni del fascismo, è a tutti loro
che dedico volentieri questi ritratti.
Oreste Ristori nasce a Empoli nel 1874 ed entra giovanissimo
operaio nel locale gruppo anarchico. Dopo un primo arresto a
17 anni, in seguito alle famigerate leggi crispine viene inviato
al domicilio coatto a Porto Ercole, poi a Tremiti e Pantelleria.
Costretto per la sua intensa attività di agitatore ad espatriare
in Francia dopo i moti del 1898, viene più volte espulso e rispedito
in Italia, dove frequenta i «bagni» di Ponza ed Ustica. Nel
1902 emigra in Argentina e l’anno successivo le autorità del
paese sono già pronte a rimandarlo in Italia. Con una fuga avventurosa
dalla nave che dovrebbe riportarlo in Europa, si sottrae nuovamente
all’espulsione, quindi ripara in Uruguay e infine in Brasile.
Qui fonda il giornale «La Battaglia» che, nei suoi otto anni
di vita, sarà uno degli organi di propaganda più diffusi e importanti
di tutto il paese. Nel lungo periodo di permanenza nel paese
sudamericano, la sua attività in favore della libertà e contro
la dittatura fascista non conosce soste, e questo gli procura
numerosi arresti e condanne. Frequenti sono gli spostamenti
nei paesi confinanti, là dove lo richiama la lotta o una sommossa,
e altrettanto frequenti sono le rocambolesche fughe e le espulsioni
poliziesche. Cacciato dal Brasile nel 1936, pare che sia fra
gli anarchici accorsi in difesa della rivoluzione spagnola.
L’anno successivo lo troviamo in Francia e nel 1940, allo scoppio
della guerra, viene rispedito dalle autorità francesi nella
sua Empoli. Nel 1943 viene incarcerato dai fascisti e il 2 dicembre
di quell’anno è fucilato a Firenze dai nazifascisti come rappresaglia
in seguito all’uccisione di un gerarca. Un suo compagno di lotta
ricorda che «morì con coraggio e con la pipa in bocca, cosa
abituale per lui». (Testimonianza contenuta in una lettera di
Oscar Giovannelli di Empoli, pubblicata da Carlo Romani in Oreste
Ristori. Un’avventura anarchica, in «Rivista Storica dell’Anarchismo»,
VI (1999), 1, p. 102).
È autore di numerosi opuscoli, ormai introvabili, fra i quali
ricordiamo Polemiche sull’anarchia (São Paulo, 1907),
Le infamie secolari del cattolicesimo (São Paulo, 1908),
Con Mosé o con Darwin (Buenos Aires, 1919), Le corbellerie
del collettivismo (São Paulo, s.a.).
Alessandro Cerchiai nasce a Pescia nel 1877. A soli 7 anni segue
la famiglia in Francia dove trascorre la giovinezza. Avvicinatosi
alle idee libertarie, nel 1896 rientra in Italia e l’anno successivo,
assieme a Cipriani e altri anarchici, partecipa alla campagna
greco-turca combattendo nella battaglia di Domokos. Rientrato
a Milano si trova coinvolto nei moti del 1898, finendo così
di fronte al tribunale militare che lo condanna a quattro anni.
Una volta tornato in libertà, nel 1901, non tollerando le pesanti
attenzioni poliziesche, si reca in Brasile dove si ricongiunge
con la famiglia. Guadagnandosi da vivere con i mestieri più
umili, dedica il tempo restante all’attività di propaganda,
scrivendo sulle pagine in italiano dell«Amigo do Povo»
e di «Germinal!». Collabora assiduamente con Ristori e per otto
anni è redattore de «La Battaglia». Come per tutti i suoi compagni
di fede, l’attività che svolge è causa di continui arresti e
denunce, e frequenti sono pure le temute minacce d’espulsione.
Più volte condannato e incarcerato, si reca spesso in Argentina
e in Uruguay, dove collabora alla stampa anarchica. Pacifista
per convinzione, come ci ricorda Rodrigues, «divenne maestro,
un grande maestro nell’arte dell’insegnamento» (Lavoratori...
cit., p. 221). Così lo descrive il romanziere socialista Tito
Batini, uno dei suoi migliori allievi: «Arrivò a Bauru alla
fine del 1913, chiamato da amici che desideravano dare ai loro
figli un buon insegnante. Non portava dolci o regali, ma la
grande offerta di una bontà immensa e degli insegnamenti facili
e soavi come le sue grandi mani [...]. Avrei moltissimo da raccontare
di quell’anarchico, uomo buono, utile e fecondo, che fu Alessandro
Cerchiai, soldato garibaldino, giornalista, netturbino qui a
San Paolo, tornitore a Sorocabana e uomo di molti altri mestieri
e, inoltre, grande maestro» (in Lavoratori... cit., p.
221). Attivo fino all’ultimo nell’opera di propaganda, si spegne
a San Paolo nel 1935. Tra i suoi scritti, introvabili come quelli
di Ristori, ricordo gli opuscoli usciti fra il 1932 e il 1936
nella collana paulista «I Quaderni della Libertà»: L’incendio
degli altiforni; Pagine di vita; Deportati ed
emigrati italiani in America; La decapitazione di Crispi.
Massimo Ortalli
Bibliografia
La bibliografia su Ristori, e soprattutto su Cerchiai, è estremamente
scarsa. Ricorderò le brevi note biografiche di entrambi che
appaiono in appendice all’opera già citata di Edgar Rodrigues,
forse l’unico testo uscito in italiano che affronta il tema
dell’emigrazione anarchica italiana in Brasile. Altre notizie
su Ristori sono contenute nel recente saggio di Carlo Romani
(Oreste Ristori. Un’avventura anarchica cit.), molto
interessante anche per la buona documentazione bibliografica.
Su Cerchiai posso segnalare soltanto le brevi note biografiche,
qui utilizzate, redatte da Elvio Nervo sul numero 5 de «I Quaderni
della Libertà», apparse a São Paulo nel 1936.
È un po’ più ricca, al contrario, la bibliografia relativa a
Giovanni Rossi e alla Colonia Cecilia, e qui mi limito a rimandare
al fondamentale testo di Rosellina Gosi, Il socialismo utopistico.
Giovanni Rossi e la colonia anarchica Cecilia, Milano, Moizzi,
1977.
L’espulsione degli “agitatori
stranieri”
di Edgar Rodrigues
Il Brasile è stato, senza dubbio, il paese che più di tutti
ha tratto vantaggio dalle braccia del lavoratore straniero.
Un tempo esistevano i procacciatori di mano d’opera specializzata
in Europa, che allettavano e offrivano vantaggi a chi volesse
andare a lavorare in Brasile.
Migliaia e migliaia di braccia si rovesciarono nei porti di
Rio de Janeiro e di Santos, alcuni con destinazione Manaus,
Recife e il sud del Brasile.
In principio, nulla di nuovo... Padroni sfruttatori come in
qualsiasi altra parte del globo e lavoratori soggetti a condizioni
identiche ai paesi da cui provenivano.
Qui, come in Europa e in Asia, la questione sociale presentava
contraddizioni stridenti. Perciò, come nei loro paesi d’origine,
i lavoratori che reclamavano migliori salari ed un trattamento
più umano., qui, come nelle loro terre, dovevano protestare
e conquistare il diritto di fondare associazioni di classe,
di scendere in sciopero, frequentare le scuole, ridurre gli
orari di lavoro, addirittura stabilire un minimo di igiene,
sicurezza e garanzie rispetto agli incidenti sui luoghi di lavoro.
Ma ad ogni protesta operaia il governo rispondeva con la voce
del manganello, che si faceva sentire sui corpi smunti dei lavoratori
che protestavano.
La schiavitù era stata abolita per legge; gli antichi capiguardia
avevano ceduto il posto ai capimastri, ma la frustra continuava
ad esser il mezzo per impedire reclami e miglioramenti salariali.
Cambiavano le leggi e i nomi, ma la violenza e le punizioni
continuavano ad essere le stesse.
Invece del guardiano tirannico, che frustava o legava i lavoratori
schiavi agli alberi per ordine del padrone, ora era il poliziotto
che, con la scusa di mantenere l’ordine borghese dei nuovi ricchi,
faceva sentire il morso del manganello sul corpo malnutrito
dell’operaio schiavizzato.
Per i più recalcitranti, la catena sostituì l’albero, dove un
tempo venivano legati i lavoratori schiavi.
In breve, resisi conto della triste realtà sociale, alcuni reagirono
con gli scioperi e altri, i più istruiti, attraverso i giornali,
fondati dagli stessi lavoratori con l’aiuto di pochi intellettuali.
E si fecero sentire protestando contro gli sfruttatori che,
in Brasile come in qualsiasi altra parte del mondo, non lasciavano
altra scelta ai lavoratori che il diritto di morire silenziosamente
di fame, di protestare e venir ammazzati dalla polizia o soffocare
le idee in fondo alle prigioni, in attesa della prima nave che
portava masse di lavoratori di questo tipo, come bestiame da
scaricare in un qualche porto dove venivano raccolti come animali
schifosi, indesiderabili.
Attraverso promesse e compromessi, il governo adottò leggi per
giustificare le espulsioni. Tentò di chiudere la bocca alla
stampa europea, di negare le ragioni, le verità denunciate dagli
espulsi.
All’uopo, radunò i suoi servitori, i suoi fedeli aiutanti e,
in breve, ottenne le “armi giuridiche” per garantire che i lavoratori
e gli uomini decisi venissero obbligati a lasciare il Brasile,
venissero processati, giudicati e condannati secondo la legge:
Ma la ferocia del governo cadeva sulla testa degli anarchici
che non venivano processati e non avevano modo di difendersi.
Catturati, essi erano imbarcati clandestinamente sulle navi
dalla polizia, che convinceva i comandanti a portarseli in un
porto di qualche paese straniero. Alcuni casi venivano denunciati
ai tribunali dalle mogli e dai figli, che rimanevano qui senza
conoscere il destino dei loro mariti e padri. Finivano per essere
processati; alcuni di loro venivano assolti e, così ritornavano
dalle loro famiglie e tra i loro compagni.
La legge d’espulsione aveva come obiettivo specifico gli anarchici.
Nessun criminale comune, ladro o vagabondo venne colpito da
questa legge ed espulso. La legge prendeva di mira gli anarchici
più attivi, i più efficienti e, poiché essi non trovavano alcuno
che desse loro lavoro, la maggior parte del loro tempo lo trascorrevano
a percorrere gli Stati del Brasile, tenendo i contatti con gruppi
affini, svolgendo conferenze e dibattiti, insegnando, facendo
circolare la propaganda scritta, vivendo dei sussidi sottoscritti
dai gruppi libertari e dalle associazioni operaie, in qualità
di delegati itineranti al servizio dell’ideale.
La polizia era al corrente di questa situazione, in quanto essa
stessa contribuiva a crearla, “invitando” i padroni a licenziare
e a rifiutare lavoro agli anarchici ed agli anarco-sindacalisti
più attivi, in modo che, disoccupati, potessero venire espulsi
come vagabondi. E quanti vennero accusati perfino di furto senza
aver rubato neanche un centesimo!
I militanti italiani erano tra i più colpiti. Attivi come erano,
richiamavano subito l’attenzione dei padroni e delle autorità
e per questo furono tra i primi a subìrne le conseguenze.
Zola, Kropotkin,
Victor Hugo,
Bakunin, e altri
di Zélia Gattai
Finito di sfogliare la Divina Commedia, ci rimaneva
ancora molto tempo a disposizione, per ulteriori incursioni
nel guardaroba. Ancora un altro giro di Ferro-China... Vera
e Wanda spalancarono le ante dell’armadio, tirarono fuori una
pila di libri”. Vera andava leggendo i nomi degli autori; chissà
che non ci fosse, lì in mezzo, qualche libro sconosciuto per
noi? Pietro Gori, un autore: che conoscevamo benissimo. II suo
libro era un compendio di drammi anarchici (una autentica bibbia
per donna Angelina) piuttosto malridotto, sempre con un segnalibro
fra le pagine. Due libri di dottrina anarchica: di Bakunin e
di Kropotkin. Neri Tanfucio, poeta umoristico, un prediletto
di donna Angelina. Lei sapeva il libro quasi a memoria, ne recitava
ogni momento i versi, spiritosi e satirici.
Poi era la volta dei preferiti di mamma e delle mie sorelle:
I miserabili e I lavoratori del mare. Quei due
libri erano a pezzi, tanto erano stati letti, Mamma amava leggere
brani de I miserabili per i figli e per Maria Negra.
“Un libro vero, diceva, “molto istruttivo.”
C’erano tre libri di Émile Zola: Tèresa Raquin, Germinal
e Io accuso. Wanda adorava Teresa Raquin, Vera,
più puritana, avanzava riserve. Io, che non sapevo leggere,
mi accontentavo delle illustrazioni, perché erano impressionanti
e proibite. Germinal lo lessi appassionatamente molti
anni dopo e fu un libro che significò molto, per me. Io accuso
non ci interessava, non era un romanzo, non aveva le figure.
Sapevamo però che si trattava di un libro molto importante perché,
nelle riunioni proletarie alle quali partecipavamo, si faceva
continuo riferimento al “caso Dreyfus” (tema di Io accuso),
specialmente durante la campagna a favore di Sacco e Vanzetti.
Gli oratori paragonavano i due casi fra di loro, citando Io
accuso come esempio di quanto poteva essere fatto nella
lotta per la verità, contro la persecuzione politica e razziale.
Zola era un idolo per tutti quegli anarchici italiani, che arrivavano
perfino ad attribuirgli la loro nazionalità, visto che pronunciavano
il suo nome all’italiana: Emilio Zòla. Identico tentativo di
nazionalizzazione veniva fatto per Victor Hugo; loro lo pronunciavano
Ugo. “Sono oriundi...” dicevano.
Contestando papà
Era già quasi mezzogiorno, quando Wanda mi ordinò di andare
a comprare le olive al negozio del sor Enrico; stava preparando
un piatto di melanzane per il pranzo, ricetta nuovissima, speciale,
fornita da Jole Strambi. Sopra le melanzane, cotte e ridotte
in poltiglia, per adornare il piatto di portata, dovevano essere
collocate delle fettine di cipolla e nel mezzo di ogni fettina
una oliva nera. In casa c’erano delle olive, ma erano verdi.
Non andavano bene, verde con verde non combinava, non faceva
effetto. Wanda era esigente, “l’aspetto ha il suo peso nella
presentazione di un piatto”.
Arrivata al negozio, trovai un ambiente tumultuoso: parecchi
tifosi impegnati in una animatissima discussione sul football.
Commentavano la prestazione di Friedenreich nell’ultima partita,
la maggior parte esaltava “il più grande goleador di tutti i
tempi, meraviglioso, unico...”, pochi altri non erano d’accordo
e urlavano a gran voce... Nella speranza che il battibecco degenerasse
in pugilato, mi installai comodamente su una pila di sacchi
di riso, e aspettai con calma.
La famiglia era già a tavola, quando ritornai con il pacchettino
di olive nere. Mi spaventai. Papà era severo in certe cose:
per esempio non ammetteva assenze all’ora dei pasti. Oltre a
prendere una solenne sgridata, il colpevole restava digiuno.
Fui accolta malamente da un urlaccio di papà.
“Non lo sai, signorina, che all’ora di pranzo devi essere in
casa?”
Tentai di spiegare (che cosa, non lo so), ma lui non lo permise:
“Zitta! Quando io parlo non si risponde...”
“Ma papà!”
“Zitta, ho detto!”
“Ma...”
“Silenzio!”
Mi assalì una ondata di ribellione, mi venne in mente una massima
anarchica, che lui amava molto citare, senza esitare, mi alzai
da tavola, mi avvicinai alla porta e spifferai il discorsetto,
con le intonazioni esatte, così come l’avevo imparto, e il dito
alzato, come usava fare lui:
“Quando la forza e la ragion contrastan, vince la forza la ragion
non basta!” e me la svignai nelle stanze interne.
Pronta a ricevere da mio padre, per la prima volta in vita mia,
una scarica di botte, rimasi in camera di mamma in attesa. Questa
volta mi ero spinta troppo in là, avevo ecceduto tenendogli
testa in quel modo. Chi altri avrebbe avuto il coraggio di affrontarlo
così? Neanche mamma!
Dopo un poco venne Vera, colpitissima da quanto stava accadendo:
“Papà ha detto di chiamarti per andare a tavola, dice che il
pranzo si raffredda”.
Là per là non ci credetti. Vera non mi stava, per caso preparando
qualche scherzetto? E papà non era infuriato? Non aveva detto
niente?
“Nessuno scherzetto! Papà è lì, piuttosto sconcertato, non sa
che pesci prendere, non ha detto niente; è rimasto di sasso.
Accidenti. Non me lo sarei mai aspettato! Che sfacciata!”
Bandiera rossa e nera
In un carrozzone a quattro ruote, con i loro fagotti e alcune
masserizie, la famiglia Gattai passò per Santa Barbara: moglie,
marito e quattro figli.
Vedendo passar il carro, alcuni bambini gridarono, chiamando
le madri: “Venite a vedere, stanno arrivando altri zingari...”Poco
più di un mese prima, era già passata di lì tanta gente, più
o meno nelle stesse condizioni. Zingari certamente, pensarono
gli abitanti del piccolo villaggio, e sbarrarono le porte delle
modeste abitazioni, ricoperte di fogli di zinco, per tImore
di essere derubati.
In cima alla collina, in mezzo ai pini, si scorgeva, issata
su di una altissima palma, una grande bandiera rossa e nera.
Era la bandiera della Colonia Cecilia che salutava l’arrivo
del suoi ultimi pionieri.
Vedendo la bandiera, nonno Gattai guardò giù ed esclamò: “Eccoli
là!” C’era l’accampamento: un grande capannone eretto vicino
a un torrentello, alcune piccole baracche in costruzione, uomini
che si affaccendavano di qua e di là, un pezzo di terra già
pulito, pronto per la semina, vicino ad un boschetto.
Nonna Argìa guardò nella direzione indicata dal marito.
I suoi occhi perduti nel vuoto non vedevano nulla. La sua allegria,
la sua speranza, il suo entusiasmo erano rimasti laggiù, sepolti
insieme al corpicino della figlia. Durante tutto il viaggio,
non aveva proferito una sola parola, nessuna recriminazione,
nessuna accusa. Non aveva sparso una lacrima, era completamente
apatica. Il marito, controllando il proprio dolore per la morte
della figlia, cercava di distrarre la moglie, indicandole mille
cose, durante il lungo e faticoso viaggio, per la strada. Ma
senza risultato.
Avvistato il carro della famiglia Gattai, la gente dell’ accampamento
gli andò incontro. I Gattai furono alloggiati, provvisoriamente,
nel capannone costruito dal gruppo arrivato prima. Appena sul
posto, tutti avevano lavorato per tirare su il capannone cd
avere subito un luogo dove ripararsi. Nei giorni seguenti, ogni
famiglia s’ingegnò a costruire la propria casa. Il capannone
rimase come deposito e per casi di emergenza come quello dei
Gattai.
I quattro bambini, liberi di saltare giù dallo scomodo carro,
corsero immediatamente al torrentello, dall’acqua cristallina.
Nessuno impedì loro di buttarsi nell’acqua, vestiti e tutto.
Avevano bisogno di aria pura, di acqua e soprattutto di libertà.
Le “Classi Lavoratrici”
I miei genitori erano molto assidui alle riunioni politiche.
Il sor Ernesto consultava attentamente i giornali, a caccia
di annunci di conferenze e comizi di solidarietà, Non ne perdeva
uno. Trascinava con sé tutta la figliolanza, meno Remo, l’irresistibile
del quartiere, più interessato alla conquista di cuori che ad
assistere, seduto per ore e ore, a noiosi discorsi. Prima ancora
di essere invitato, scompariva misteriosamente, si dissolveva
nel nulla. Di modo ché soltanto le tre ragazze e Tito si aggregavano
alla carovana politico-culturale.
Quella sera il conte Frola (questo era il nome del conferenziere)
avrebbe parlato ai lavoratori e agli intellettuali di San Paolo,
nel locale delle “Classi Lavoratrici”, salone per feste e conferenze,
situato al primo piano di una sopraelevazione, in via del Carmo,
al centro della città. Avrebbe senz’altro parlato del caso Sacco
e Vanzetti. Questo conte, come ci spiegò papà, era un acceso
antifascista, un “cervellone”! Ma i suoi titoli nobiliari non
interferivano per nulla con le sue idee avanzate.
Per i ragazzi, quelle riunioni politiche si trasformavano in
divertimento. C’era un ambiente festoso, tutti portavano i figli,
abitudine o necessità dei poveri che, in generale, non hanno
con chi lasciarli quando devono uscire. Si presentavano bambini
di tutte le età, inclusi i lattanti che durante le conferenze
ciucciavano, con il seno che funzionava da tappo, per zittirli
quando minacciavano uno scoppio di pianto.
Le serate erano divise in due parti e, per me, la prima era
la migliore. Si vendevano giornali, La lanterna giornaletto
anticlericale e La difesa giornale socialista; si facevano riffe
di oggetti e libri, tutto per finanziare i giornali e pagare
l’affitto della sala. Vera ed io facevamo parte del gruppo delle
venditrici. Per la vendita dei giornali e per le attività artistiche
erano in concorrenza due gruppi: quello delle italiane e quello
delle spagnole. Noi, naturalmente, facevamo parte del primo
gruppo, anche se ci sentivamo completamente brasiliane. Ma la
gente ci considerava italiane.
Piuttosto popolare e disinvolta, una vedette in campo letterario-musicale
come fine dicitrice, io vendevo moltissimo.
I versi che Wanda m’insegnava per quelle occasioni erano in
generale poesie di Guerra Junqueiro, sonore, anticlericali,
contundenti.
Un gruppetto di bambine spagnole mieteva successi sul palcoscenico,
cantando una vecchia canzone anarchica: “Dove vai con pacchi
e liste/ dove vai con tanto correre/ al congresso degli anarchici/
che rivendicano un diritto: vivere!”.
Loro cantavano e il pubblico, nel finale, faceva coro, ripetendo
il “vivere” a pieni polmoni. Non riuscii mai a trovare qualcosa
di altrettanto vibrante, capace di competere con quella ardente
canzone e che ci permettesse di sconfiggere le spagnole.
Durante la ricorrenza di un Primo Maggio (ah, che meraviglia,
le feste del Primo Maggio, quelle sì che erano eccezionali!),
Vera, la “disinvolta”, e un ragazzotto della sua età (si facevano
il filo a vicenda, dall’ultima festa) si misero a ballare al
suono dell’Inno dell’Internazionale: proprio così, né più né
meno. Fu la volta, per mamma, di voler scomparire dalla vergogna.
“Che mancanza di rispetto, Madonna mia santissima!” La coppietta
si fermò soltanto dopo essere stata richiamata a gran voce,
quando ormai aveva quasi attraversato il salone, ballando un
passo molto in voga in quel momento: Il “passo del cammello”.
Lo stesso giorno, io mi presi un pizzicotto sul braccio, per
aver cambiato le parole dell’Internazionale (all’Inno, quella
sera, non gliene andava bene una!). Invece di cantare:“... in
piedi, o vittime della fame”, io cantai:“... il piede della
vittima della fame!”.
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