La storia di Safya Hussein Hungar Tudu,
la donna nigeriana condannata alla lapidazione perché giudicata
colpevole di adulterio da un tribunale islamico, è ormai di
dominio pubblico. La sua vicenda, diffusa in rete da un iniziale
tam tam sotterraneo di mail, è divenuta un «caso» amplificato
da tutti i maggiori media nostrani al punto che per lei si sono
mossi politici di vario colore, prelati e femministe, giornalisti
di grido ed anonimi cittadini.
Anche nel mio piccolo giro di compagne, amiche, anarchici e
femministe si è tentato di fare qualcosa: spedire lettere alle
ambasciate, scrivere articoli, raccogliere firme, per non restare
impotenti ed inorridite ad attendere che Safya venisse sepolta
in una fossa e massacrata a sassate per la «colpa» di aver fatto
l’amore fuori dalle regole stabilite dalla legge religiosa.
Mentre scriviamo ancora non sappiamo se la mobilitazione internazionale
a suo favore sortirà qualche effetto, se per lei ci sarà un
futuro, se riuscirà a veder crescere il suo bambino, il segno
tangibile, per i suoi giudici, della sua colpevolezza. Non possiamo
che insistere nei nostri sforzi perché la luce gettata sulla
sua vicenda non si spenga, dandole così una chance di salvezza.
Tuttavia proprio questo fascio di luce, questa grande esposizione
mediatica che, forse, per lei rappresenta l’unica possibilità
di sfuggire ad una morte atroce, ben si prestano ad alimentare
il dubbio che tanta attenzione rispecchi, oltre all’indignazione
morale anche un assai meno etico calcolo politico, un gioco
subdolo che rimanda al sempre negato ma costantemente alluso
«scontro di civiltà» che è uno degli sfondi dell’atroce partita
che, sempre più lontano dai riflettori, si sta giocando in Afganistan.
Mentre l’eco dei morti delle Twin Towers si va lentamente affievolendo,
una vicenda come quella di Safya, con l’innegabile bagaglio
emozionale che scatena, non può che contribuire a meglio disegnare
il nuovo «impero del male» rappresentato dall’estremismo islamico,
per combattere il quale tutto diviene lecito. Anche quattro
mesi di bombardamenti ininterrotti sulla popolazione di un paese
già stremato da un quarto di secolo di guerra, dove la fame,
le mine, le malattie completano l’opera già compiuta dalle bombe.
Anche una legislazione di guerra che, in barba ad ogni convenzione
sui prigionieri, alla faccia dei fondamenti stessi della propria
civiltà giuridica, consente la tortura e le condanne senza appello.
Anche la programmazione di nuovi interventi armati in altri
paesi sospettati di connivenza con i terroristi di Al Quaeda:
dai martoriati Iraq e Somalia allo Yemen.
Mostruoso e disumano
Nella gigantesca operazione di propaganda a sostegno di «Libertà
duratura» le donne hanno rappresentato un importante tassello
nell’opera di demonizzazione del nemico. Intendiamoci. Il regime
talebano, così come gli integralisti islamici delle più diverse
fazioni compresa quella attualmente al potere in Afganistan
si prestano sin troppo bene al ruolo loro assegnato:
la loro «politica» nei confronti delle donne si configura come
crimine contro l’umanità. I propagandisti di guerra americani
non hanno avuto alcun bisogno di ricorrere all’esagerazione
od all’inventiva per delineare l’immagine del nemico, che, si
sa, è sempre mostruoso e disumano, tanto mostruoso e disumano
da giustificare l’impiego senza riserve della forza, anche quella
più brutale. I talebani erano abbastanza cattivi da non rendere
necessarie particolari forzature a parte, ovviamente, quella
di far dimenticare il sostegno da loro ricevuto sino a pochi
giorni prima dell’attentato contro le Torri Gemelle.
Per lunghi anni la denuncia della condizione delle donne afgane
sotto il regime dei mujaheddin prima e, dal ’96, sotto quello
talebano, è stata appannaggio di poche minoranze prive dei mezzi
atti a promuovere l’indignazione e la mobilitazione di una più
vasta opinione pubblica. Le centinaia di donne afgane lapidate
o frustate a sangue per il loro comportamento sessuale o, anche,
per la semplice esposizione in pubblico di un braccio o di una
caviglia rimasero avvolte nel più fragoroso dei silenzi. Quando,
nella primavera del 2000, i riflettori dei media si accesero
ad illuminare la vicenda dei Buddha di Bamyan, oggetto della
furia iconoclasta dei talebani, poco o nulla emerse delle disumane
condizioni di vita delle afgane. Ma, d’altra parte, mentre le
foto della distruzione dei Buddha fecero il giro del mondo,
solo sul sito internet delle donne della RAWA (Associazione
Rivoluzionaria delle Donne dell’Afganistan) (1) si potevano
trovare le immagini che testimoniavano il massacro di trecento
azarà (2) che avevano tentato di opporsi alla demolizione degli
antichi monumenti.
In marzo evidentemente l’amicizia con il governo talebano aveva
la priorità sui diritti umani della maggioranza della popolazione
afgana.
Alla fine dell’anno, come sappiamo, il quadro si era profondamente
modificato e la macchina propagandistica statunitense aveva
un altro obiettivo: dimostrare come il governo nato sotto la
sua egida durante le trattative di Bonn fosse foriero di un
profondo cambiamento per le donne afgane. Impresa apparentemente
improba perché i signori della guerra del Fronte Unito, la altrimenti
detta Alleanza del Nord, giunti al governo dopo la sconfitta
dei sovietici, si distinsero per la ferocia nei confronti delle
donne. La denuncia di Rawa delle efferatezze compiute nel recente
passato dai nuovi padroni dell’Afganistan rimase ancora una
volta inascoltata, accolta dal sostanziale mutismo dei media
che invece amplificavano a dismisura alcuni volti di donne senza
il burqa per le strade di Kabul. Ma, sebbene i nuovi padroni
dell’Afganistan fossero pessimi attori e si distinguessero persino
in bastonature di donne sotto l’occhio delle telecamere, l’operazione
ancora una volta riuscì grazie a qualche intervento cosmetico
come l’ingresso nel governo di un paio di donne. Nella neolingua
del 2002 i buoni sono diventati cattivi ed i cattivi buoni:
ed il gioco è fatto!
Le donne di Plaza de Mayo
In questi giorni, progressivamente, l’Afganistan si sta preparando
a tornare nell’oblio riservato ai luoghi remoti, un po’ selvaggi,
da assaporare con quel tanto di gusto per l’esotico di stampo
coloniale da cui i palati occidentali non si sono mai disassuefatti.
I bambini continueranno a saltare sulle mine, la denutrizione
ne ucciderà anche di più, le donne, ancora alle prese con fanatici
integralisti, dovranno pagare con lacrime e sangue brandelli
di libertà e dignità. Ormai il loro compito di icone di una
«Libertà duratura» si è esaurito nei flash dei fotografi.
È tempo di partire per altri lidi, per nuove avventure. Chissà,
forse è la volta della Somalia, dove qualche anno fa la pax
americana non riuscì ad imporsi con efficacia ed è quindi tempo
di finire l’opera. Con buona pace dei somali che durante l’ultima
visita di cortesia sperimentarono sulla loro pelle il significato
di un’operazione che, grottescamente, venne battezzata «Restore
hope» (ridare la speranza). In quell’occasione i «nostri» prodi
della Folgore si distinsero in modo particolare nelle torture
e negli stupri. Chissà come si coniuga in queste occasioni lo
«scontro di civiltà»? Anche questa vicenda, dopo lo scandalo
delle foto di quelle torture e di quegli stupri pubblicate da
Panorama, è ormai avvolta nel silenzio, archiviata nella
memoria prima ancora che nelle inchieste giudiziarie. Come nell’archivio
ben serrato delle vergogne nazionali è sepolta la storia del
feroce colonialismo italiano nel Corno d’Africa dove gli «italiani
brava gente» sperimentarono con successo torture e genocidi.
Queste memorie recenti e meno recenti renderebbero ben ardua
la costruzione del paradigma dello scontro di civiltà, dell’opposizione
tra il regno della libertà e della tolleranza e quello del fanatismo
e della persecuzione del diverso. Per questo la storia si fa
da parte per far spazio alla cronaca e questa si piega docile
alle esigenze della propaganda, quella propaganda che vuole
i cattivi cattivissimi ed i buoni, appunto, buoni.
In questo gioco sporco le donne, la loro libertà e dignità,
rappresentano un tassello che di volta in volta è necessario
oscurare od illuminare, senza alcun riguardo per la verità e
per i percorsi, sempre difficili, di liberazione. Ben lo sanno
le femministe afgane di Rawa che da quasi un trentennio hanno
sostenuto un percorso di emancipazione che, mai, si è piegato
alle esigenze del padrone di turno: fosse questo mujaheddin,
sovietico, talebano od americano.
Per loro, come per noi, l’unico «scontro di civiltà» reale è
quello che vede opporsi le ragioni della libertà a quelle di
chi, sotto il turbante dei talebani o la divisa dei marines,
vuole negarla.
E, sempre a proposito di «scontro di civiltà» (e, magari, e
di religione) non possiamo dimenticare che nel nostro paese
le destre e qualche autorevole prelato hanno suggerito di porre
un freno all’immigrazione islamica per favorire l’ingresso di
immigrati da paesi culturalmente a noi più vicini, possibilmente
cristiani, meglio ancora cattolici, e magari di origine italiana.
Con l’aria che tira verranno accontentati: già si annuncia l’arrivo
di numerosi argentini. Il nostro augurio è che, avendo assaggiato
sulla loro pelle uno dei fiori all’occhiello dell’occidente,
il libero mercato ed i suoi frutti amari, portino con se le
loro pentole, le pentole sulle quali, sia pure per pochi giorni,
hanno suonato la musica della libertà. Una libertà la cui icona
reale, umana, vissuta con coraggio non oscurabile, sono le donne
di Plaza de Mayo, donne capaci di opporsi alla dittatura militare
come alla dittatura del mercato.
Maria Matteo
Note
1. Per maggiori informazioni su Rawa si consiglia
una visita al loro sito: www.rawa.org
Cfr. inoltre l’intervista a Matilde Adduci delle Donne in Nero
di Torino relativa alla sua recente visita presso le donne profughe
in Afganistan «Le partigiane femministe di Rawa» in Umanità
Nova n. 44 del 16 dicembre 2001
2 Gli azarà sono una delle molte etnie che popolano l’Afganistan.
Di origine mongola ed islamici sciiti sono stati sovente oggetto
di persecuzioni.
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