Non vorrei lasciarmi trascinare anch’io
nel vortice dei bilanci e delle previsioni così tipico di giorni
come questi, che segnano il passaggio di un anno al successivo,
per di più sotto la suggestione di eventi festivi che inducono
anche i più disincantati a consuntivi spesso consolatori oltre
che a buoni propositi per tempi avvenire che si auspicano migliori
di quelli appena trascorsi.
Ma il 2001 non è stato un anno qualsiasi. Anche per chi è convinto
che la storia non compia salti, l’anno appena passato ha registrato
una serie di fatti qualitativamente eccezionali, sia dal punto
di vista della stabilità politica del contesto internazionale,
che da quello dei processi macro economici in atto.
Intanto, proprio all’inizio dell’anno, nel gennaio 2001, Bush
junior, a seguito di una competizione elettorale assai contestata,
conclusasi con un lungo e tormentato conteggio dei voti degli
elettori della Florida, conquista la Casa bianca a spese del
democratico Al Gore. Con Bush, l’America mostra al mondo la
sua faccia meno rassicurante, sia sul piano della sua politica
economica che su quello delle relazioni internazionali.
Sul versante della politica interna, Bush dimostra di voler
pagare subito i debiti contratti con le lobbies che hanno finanziato
la sua campagna elettorale. Drastiche riduzioni delle tasse
che gravavano sulle imprese, finanziamenti a pioggia alle industrie,
rilancio della produzione bellica (vedi il progetto dello “scudo
spaziale”, la cui realizzazione è fortemente contestata da Russia
e Cina e lascia perplessi gli stessi partners europei), smantellamento
di quel poco di stato sociale che sopravviveva alle drastiche
“cure” del capitalismo avanzato: sono questi i primi provvedimenti
varati dalla nuova amministrazione americana.
Tutto, quindi, secondo le previsioni e le promesse che avevano
portato Bush alla Casa Bianca, solo che – come sappiamo bene
noi italiani – non bastano le elargizioni per rilanciare virtuosamente
i processi economici. Già nell’ultima fase dell’era Clinton
i dati del sistema economico americano mostravano segni evidenti
di rallentamento. La produzione industriale era in calo costante,
sia per la lievitazione dei costi, sia per la contrazione delle
esportazioni, soffocate da una moneta forte che non rendeva
concorrenziali i prodotti americani sui mercati internazionali.
Vi erano, poi, le forti esposizioni del sistema finanziario
in aree politicamente assai instabili, che non consentivano
facili e rapidi recuperi e che determinarono drammatici tracolli
anche di istituti bancari considerati solidissimi.
Infine le borse: assai sensibili ai segnali di instabilità del
sistema, bruciarono in poco tempo immense risorse, sia per il
tracollo di imprese quotate, sia per il drastico ridimensionamento
di titoli (per esempio, quelli della così detta “nuova economia”,
ma non solo) artificiosamente sopravalutati negli anni dell’ottimismo
e della stabilità della gestione Clinton.
Insomma un quadro complessivo tutt’altro che esaltante che contraddiceva
i propositi originari di Bush e che gli impose immediate misure
di intervento di tipo dirigista sull’economia del paese, con
buona pace del liberalismo integrale tanto insistentemente sbandierato.
Questa divaricazione tra i dati della realtà e i propositi ebbe
immediate e pesanti conseguenze anche sul piano della politica
estera.
Respiro corto e ottusità politica
Ricorderete tutti che i primi pronunciamenti della nuova amministrazione
repubblicana andavano nella direzione di un progressivo disimpegno
americano nei riguardi di situazioni ed eventi esterni al continente.
Furono chiari, per esempio, i propositi di disincagliarsi dalla
vertenza arabo-israeliana ed esplicite le affermazioni che nessun
soldato americano sarebbe morto al di là dei confini patrii.
Ma anche questo proposito di “splendido isolamento”, doveva
fare i conti con una realtà internazionale che ne evidenziava
impietosamente il respiro corto e l’ottusità politica.
Intanto, il processo di globalizzazione in atto non consentiva
chiusure autarchiche, specie da parte di un’economia, come quella
americana, che, per ragioni obiettive, ne costituiva la locomotiva.
E non vi è chi non veda come una locomotiva senza vagoni sia
inutile a se stessa e agli altri e non porterebbe da nessuna
parte.
Ma la sfera nella quale la miope visione di Bush avrebbe maggiormente
mostrato la corda era la presunzione di potersi chiamare fuori
da eventi che la stessa politica di potenza americana, da Roosvelt
in poi, certamente con diverse accentuazioni, aveva contribuito
a determinare.
Non si capisce, per esempio, come, senza l’esplicito e diretto
sostegno americano, potrebbero sopravvivere i governi fantoccio
insediati, a dispetto della volontà popolare, in medio oriente
a tutela degli interessi dell’occidente industrializzato. O
come potrebbero salvaguardarsi equilibri già precari tra un
occidente europeo economicamente progredito ed un oriente segnato
da rapide trasformazioni, spesso caratterizzate da contraddizioni
e da forti contrasti interni.
Per non parlare dell’area asiatica, in fibrillazione per l’emergere,
per molti versi inquietante, della potenza cinese.
Tutti nodi, questi, che sono venuti drammaticamente al pettine
con l’attentato alle torri gemelle di New York e al Pentagono
di Washington.
Ma – come suol dirsi – la classe non è acqua e ciò vale in senso
positivo, per esempio per i grandi campioni dello sport, e anche
in senso negativo per uomini come Bush.
Minacce texane
Anche in questa tragica circostanza il texano di ferro traccia
con i suoi collaboratori un progetto di risposta al terrorismo,
che minaccia di cacciarlo in un ulteriore vicolo cieco.
Individuando in Bin Laden il nemico da battere e localizzandolo
in Afghanistan, mette insieme una task-force da guerra mondiale
e scatena il finimondo, coinvolgendo l’intero mondo occidentale.
L’idea portante era quella di risolvere definitivamente il problema
del petrolio mediorientale, soggetto a crisi ricorrenti per
l’instabilità politica dell’area.
Lasciando mano libera alla Russia di risolvere a suo modo la
secessione cecena e alla Cina di portare avanti il suo modello
di sviluppo, a discapito dei diritti civili costantemente traditi
in patria e della libertà di popoli a lei vicini, come il tibetano,
soffocati dalla occupazione militare, Bush ha ritenuto e ancora
ritiene di avere operato la quadratura del cerchio. Ciò che
non prevedeva – o non valutava correttamente – era il rischio
di acuire conflitti regionali assai pericolosi perchè la loro
componente etnico-religiosa consente di reclutare combattenti
in ogni parte del mondo.
L’israeliano Sharon, così, credeva di poter cavalcare la tigre
del terrorismo per liquidare la questione palestinese. Ha invece
ricompattato il fronte arabo a lui ostile, innalzando in tal
modo il livello dello scontro, effetto, questo, controproducente
per un paese praticamente assediato, anche se militarmente assai
più forte dei suoi avversari.
E si configura anche come conflitto etnico-religioso la vertenza
tra India e Pakistan per il possesso del Kashemir, che, non
a caso, si è inasprita con la crociata antiterrorismo.
Ciò per fare solo due esempi di conflitti regionali, che potrebbero
moltiplicarsi, soprattutto se gli Stati Uniti ampliassero i
confini della guerra, come sistematicamente minaccia il texano.
Infine, solo un accenno all’Europa e a un aspetto specifico
dei suoi rapporti con l’America. E’ già in circolazione la moneta
unica, l’Euro. A mio giudizio (e l’ho già espresso in un ariclo
precedente), la nuova moneta europea nasce in competizione con
il dollaro e, in una fase di recessione come l’attuale, la lotta
per la conquista dei mercati si inasprisce e le suggestioni
protezionistiche aumentano.
Come si vede, l’era Bush minaccia di moltiplicare i problemi
del mondo, senza risolverne alcuno.
Antonio Cardella
|