rivista anarchica
anno 32 n. 278
febbraio 2002


Usa

Buon anno, Mr. Bush
di Antonio Cardella

Politica interna, economia, politica estera: il ruolo (nefasto) del presidente.

Non vorrei lasciarmi trascinare anch’io nel vortice dei bilanci e delle previsioni così tipico di giorni come questi, che segnano il passaggio di un anno al successivo, per di più sotto la suggestione di eventi festivi che inducono anche i più disincantati a consuntivi spesso consolatori oltre che a buoni propositi per tempi avvenire che si auspicano migliori di quelli appena trascorsi.
Ma il 2001 non è stato un anno qualsiasi. Anche per chi è convinto che la storia non compia salti, l’anno appena passato ha registrato una serie di fatti qualitativamente eccezionali, sia dal punto di vista della stabilità politica del contesto internazionale, che da quello dei processi macro economici in atto.
Intanto, proprio all’inizio dell’anno, nel gennaio 2001, Bush junior, a seguito di una competizione elettorale assai contestata, conclusasi con un lungo e tormentato conteggio dei voti degli elettori della Florida, conquista la Casa bianca a spese del democratico Al Gore. Con Bush, l’America mostra al mondo la sua faccia meno rassicurante, sia sul piano della sua politica economica che su quello delle relazioni internazionali.
Sul versante della politica interna, Bush dimostra di voler pagare subito i debiti contratti con le lobbies che hanno finanziato la sua campagna elettorale. Drastiche riduzioni delle tasse che gravavano sulle imprese, finanziamenti a pioggia alle industrie, rilancio della produzione bellica (vedi il progetto dello “scudo spaziale”, la cui realizzazione è fortemente contestata da Russia e Cina e lascia perplessi gli stessi partners europei), smantellamento di quel poco di stato sociale che sopravviveva alle drastiche “cure” del capitalismo avanzato: sono questi i primi provvedimenti varati dalla nuova amministrazione americana.
Tutto, quindi, secondo le previsioni e le promesse che avevano portato Bush alla Casa Bianca, solo che – come sappiamo bene noi italiani – non bastano le elargizioni per rilanciare virtuosamente i processi economici. Già nell’ultima fase dell’era Clinton i dati del sistema economico americano mostravano segni evidenti di rallentamento. La produzione industriale era in calo costante, sia per la lievitazione dei costi, sia per la contrazione delle esportazioni, soffocate da una moneta forte che non rendeva concorrenziali i prodotti americani sui mercati internazionali.
Vi erano, poi, le forti esposizioni del sistema finanziario in aree politicamente assai instabili, che non consentivano facili e rapidi recuperi e che determinarono drammatici tracolli anche di istituti bancari considerati solidissimi.
Infine le borse: assai sensibili ai segnali di instabilità del sistema, bruciarono in poco tempo immense risorse, sia per il tracollo di imprese quotate, sia per il drastico ridimensionamento di titoli (per esempio, quelli della così detta “nuova economia”, ma non solo) artificiosamente sopravalutati negli anni dell’ottimismo e della stabilità della gestione Clinton.
Insomma un quadro complessivo tutt’altro che esaltante che contraddiceva i propositi originari di Bush e che gli impose immediate misure di intervento di tipo dirigista sull’economia del paese, con buona pace del liberalismo integrale tanto insistentemente sbandierato.
Questa divaricazione tra i dati della realtà e i propositi ebbe immediate e pesanti conseguenze anche sul piano della politica estera.


Respiro corto e ottusità politica

Ricorderete tutti che i primi pronunciamenti della nuova amministrazione repubblicana andavano nella direzione di un progressivo disimpegno americano nei riguardi di situazioni ed eventi esterni al continente. Furono chiari, per esempio, i propositi di disincagliarsi dalla vertenza arabo-israeliana ed esplicite le affermazioni che nessun soldato americano sarebbe morto al di là dei confini patrii.
Ma anche questo proposito di “splendido isolamento”, doveva fare i conti con una realtà internazionale che ne evidenziava impietosamente il respiro corto e l’ottusità politica.
Intanto, il processo di globalizzazione in atto non consentiva chiusure autarchiche, specie da parte di un’economia, come quella americana, che, per ragioni obiettive, ne costituiva la locomotiva. E non vi è chi non veda come una locomotiva senza vagoni sia inutile a se stessa e agli altri e non porterebbe da nessuna parte.
Ma la sfera nella quale la miope visione di Bush avrebbe maggiormente mostrato la corda era la presunzione di potersi chiamare fuori da eventi che la stessa politica di potenza americana, da Roosvelt in poi, certamente con diverse accentuazioni, aveva contribuito a determinare.
Non si capisce, per esempio, come, senza l’esplicito e diretto sostegno americano, potrebbero sopravvivere i governi fantoccio insediati, a dispetto della volontà popolare, in medio oriente a tutela degli interessi dell’occidente industrializzato. O come potrebbero salvaguardarsi equilibri già precari tra un occidente europeo economicamente progredito ed un oriente segnato da rapide trasformazioni, spesso caratterizzate da contraddizioni e da forti contrasti interni.
Per non parlare dell’area asiatica, in fibrillazione per l’emergere, per molti versi inquietante, della potenza cinese.
Tutti nodi, questi, che sono venuti drammaticamente al pettine con l’attentato alle torri gemelle di New York e al Pentagono di Washington.
Ma – come suol dirsi – la classe non è acqua e ciò vale in senso positivo, per esempio per i grandi campioni dello sport, e anche in senso negativo per uomini come Bush.

Minacce texane

Anche in questa tragica circostanza il texano di ferro traccia con i suoi collaboratori un progetto di risposta al terrorismo, che minaccia di cacciarlo in un ulteriore vicolo cieco.
Individuando in Bin Laden il nemico da battere e localizzandolo in Afghanistan, mette insieme una task-force da guerra mondiale e scatena il finimondo, coinvolgendo l’intero mondo occidentale.
L’idea portante era quella di risolvere definitivamente il problema del petrolio mediorientale, soggetto a crisi ricorrenti per l’instabilità politica dell’area.
Lasciando mano libera alla Russia di risolvere a suo modo la secessione cecena e alla Cina di portare avanti il suo modello di sviluppo, a discapito dei diritti civili costantemente traditi in patria e della libertà di popoli a lei vicini, come il tibetano, soffocati dalla occupazione militare, Bush ha ritenuto e ancora ritiene di avere operato la quadratura del cerchio. Ciò che non prevedeva – o non valutava correttamente – era il rischio di acuire conflitti regionali assai pericolosi perchè la loro componente etnico-religiosa consente di reclutare combattenti in ogni parte del mondo.
L’israeliano Sharon, così, credeva di poter cavalcare la tigre del terrorismo per liquidare la questione palestinese. Ha invece ricompattato il fronte arabo a lui ostile, innalzando in tal modo il livello dello scontro, effetto, questo, controproducente per un paese praticamente assediato, anche se militarmente assai più forte dei suoi avversari.
E si configura anche come conflitto etnico-religioso la vertenza tra India e Pakistan per il possesso del Kashemir, che, non a caso, si è inasprita con la crociata antiterrorismo.
Ciò per fare solo due esempi di conflitti regionali, che potrebbero moltiplicarsi, soprattutto se gli Stati Uniti ampliassero i confini della guerra, come sistematicamente minaccia il texano.
Infine, solo un accenno all’Europa e a un aspetto specifico dei suoi rapporti con l’America. E’ già in circolazione la moneta unica, l’Euro. A mio giudizio (e l’ho già espresso in un ariclo precedente), la nuova moneta europea nasce in competizione con il dollaro e, in una fase di recessione come l’attuale, la lotta per la conquista dei mercati si inasprisce e le suggestioni protezionistiche aumentano.
Come si vede, l’era Bush minaccia di moltiplicare i problemi del mondo, senza risolverne alcuno.

Antonio Cardella