“Dopo questo tuo intervento – mi è venuto di dirle – l’industria
farmaceutica fallirà in borsa..”
Mi sono rivolta con questa battuta a Luisa Muraro alla fine
del suo dire in occasione del grande seminario di ‘Diotima’
svoltosi l’ottobre scorso all’Università di Verona. Molto del
disagio, non unicamente femminile, si sa, ha come controparte
un consumo non indifferente di farmaci, prodotti a vario titolo.
La politica delle donne ha ricevuto in questa occasione una
dose di vitalità e precisazione (di amore, oserei dire) da surclassare
i rimedi chimici per la depressione. In nessun senso però si
è fatto riferimento diretto a quanto mi ha regalato, in termini
di immagine verbale, la lezione di Muraro.
La pigrizia andò al mercato ed un cavolo comprò è il
titolo spiazzante, rispetto ad un modo-mondo dove l’economia
di mercato, con indirizzo di crescita continua su produzione/consumo,
aborre pigrizia e svogliatezza del niente comprare. Muraro
ha tuttavia tralasciato di sviluppare il titolo e si è limitata
a esporre un sapere a partire da sé sul senso vivo di
stare ed essere nel mercato. Ha fatto leva su un non-sapere
attinente la scienza economica, aprendo il suo pensare alle
pratiche rivelatrici di sé: ad un di più di cui ognuna e ognuno
è portatrice. Insomma, mettersi in questione nella questione,
entrarci e centrare il mercato. Muraro (mi) ha insegnato che
non esiste soltanto quel mercato ridotto dalla produzione capitalistica
a luogo in cui la circolarità tra merce e danaro, produzione
e consumo tende a soppiantare le componenti vive, concrete delle
relazioni umane. Queste restano smisurate rispetto all’utile
in danaro e merce, produzione e consumo.
Non si tratta di contrapporsi ideologicamente, giacché l’alternativa
è ciascuna e ciascuno di noi, dando voce al e prendere parola
per il senso del proprio sentire, esserci ed agire, indipendentemente
dal voler coincidere con schemi e schieramenti già dati. È un
mettere al mondo, un arricchire la realtà che è altra cosa dallo
scegliere ideologicamente un ordine preconfezionato. È questa,
per un certo aspetto, la politica del simbolico cui fa riferimento
il pensiero della differenza sessuale. Il linguaggio
dominante si esprime, per sua parte senza riconoscersi parte,
nella forma astratta del valore merce che, a sua volta, si basa
sul valore unificante del denaro.
Al mercato, invece, più donne che uomini portano tutto. Ma proprio
tutto, come esorta lo spunto titolante il seminario complessivo
di questo anno: Portare tutto al mercato?, ma allora proprio
tutto!
Ho la pretesa di credere nell’opportunità di far circolare il
testo di Muraro. L’ho proposto infatti alla redazione di A.
Quel che il testo dice (e tace) non ha lo scopo di ottenere
condivisione. Reso, se possibile, più vero e autentico da tale
impretesa finalità, esso invita, secondo me, a stimolare i conflitti
ed accoglierli nella loro necessità. Che è come dire che essi
rendono conto alla passione politica.
Monica Giorgi
Del titolo non parlerò perché non sono
la persona più adatta a parlare della pigrizia, in verità. Una
ragione di quel titolo c’era, ma anche di altre cose. Io per
brevità farò solo una parte di quello che avevo in mente di
fare; quindi il titolo verrà saltato. Il titolo riguardava i
rapporti tra le virtù morali e il mercato. Questo era in verità
il senso del titolo e ho preferito ridurre le cose che dirò
per rendere possibile altri interventi, da parte vostra. Io
parlerò proprio del rapporto tra mercato libero e libertà, economia
di mercato: cioè il tema del grande Seminario di Diotima.
Non ho nessuna competenza specifica in economia. Non ho studiato
niente. Però, siccome io sono dentro all’economia di mercato,
in una certa misura io so. So un sacco di cose sull’economia
di mercato, come ciascuna e ciascuno di voi. Ne sappiamo un
sacco di cose.
Ma, come scrive Gertrude Stein, parlando proprio dei soldi in
un libriccino che non è in commercio Sono soldi i
soldi? “Ecco il problema di tutti: è incredibilmente
difficile sapere veramente quello che si sa.” In queste
parole della difficoltà di sapere veramente quello che si sa
è riconoscibile una donna che parla: c’è un rapporto femminile
con il sapere. Un uomo ha detto lo cito – “come sapere
senza sapere?” L’uomo dice, nel migliore dei casi come questo
(è Lacan in un seminario), si chiede “come non restare imprigionati
in quello che so?, come sapere senza sapere?” Ecco questo
è piuttosto il rapporto che l’uomo ha con il sapere: come posso
sapere che c’è altro? Al che di solito cosa segue? Questa non
è la risposta di Lacan. La risposta di Lacan è diversa. Una
volta seguiva la dimostrazione dell’esistenza di Dio. Adesso
invece potete trovare: quale alternativa all’economia di mercato?,
come posso sapere che c’è altro?. Ci sono i discorsi. Tutta
questa estate su Il Manifesto ho letto un dibattito su
quale alternativa all’economia di mercato, ecc. Una donna dice:
sono sicura di sapere quello che so, ma sono veramente sicura,
ma lo so? L’uomo invece ha il problema di sapere altro,
di non restare intrappolato nel suo sapere.
Partire da sé
Io, per trattare il tema, ho pensato di regolarmi con la pratica
femminista del partire da sé. Questa pratica mi
ha insegnato a comprendermi; cioè a prendermi dentro, a mettermi
dentro la questione in questione. In questo senso: parliamo
di guerra, e io?; parliamo di Dio, e io?; parliamo di legge
sull’aborto (a suo tempo se ne è parlato tanto), e io? Ogni
volta, ogni questione, la pratica del partire da sé mi
ha insegnato a dire: e io? Nella conversazione informale, non
so se lo avete notato, siamo spesso infastidite da quelle donne
noi stesse – che quando viene fuori un argomento, subito
hanno un’associazione per cui ci si mettono dentro loro. Si
parla di una cosa e c’è sempre una che si sente che ha l’ansia
di poter entrarci anche lei e ha delle associazioni. Tira fuori
un ricordo, “…e quella volta che mi sono ammalata”; “…quella
volta che mi è capitato questo”; “..quella volta che ho fatto
quell’esame”. E a qualsiasi argomento ha delle associazioni
in cui si mette dentro lei stessa. Ecco la pratica del partire
da sé non reprime questa tendenza, ma le propone di fare
la fatica di prendersi sul serio. Non addossando la fatica ad
altre ed altri. Fare la fatica di prendersi sul serio. Cioè:
tu vuoi centrare con quello che le altre e altri stanno qui
dicendo? Queste associazioni fanno capire che lei ci
vuole entrare, vuole esserci. Bene, allora bisogna fare
il lavoro di entrarci. Si tratta di assumere il bisogno
di esserci e metterlo in gioco.
Quando sono successi i tragici fatti dell’undici settembre,
la vostra fantasia vi ha messe in gioco, almeno la mia sicuramente.
Io sono stata portata in quel posto là. Poi però c’è un lavoro
da fare: il lavoro di centrare con le cose che capitano.
Ed è una cosa molto sentita da molte donne. Questo allora vuol
dire prendere la parola. Vi sto dicendo, adesso, quando
ho finito di parlare io: prendete la parola. A parte
che è follia, perché il numero delle persone presenti non lo
consentirebbe, eppoi sarebbe demagogia, non follia. Voglio dire:
ah, anche voi dovete prendere la parola?… Non necessariamente.
Può voler dir questo. Ma vuol dire piuttosto situarsi in modo
che qualcun’altra sappia dove sei e possa chiamarti in causa:
questo vuol dire situarsi. Che qualcuna sappia dove tu
sei e possa appellarsi a te, possa chiamarti. Sappia
che tu sei là. Questo è esserci, centrarci, entrarci
nel quadro delle cose che capitano: il prendere la parola,
che è quello per esempio che sto facendo io da una vita.
Il prendere la parola comporta un distacco dal non-detto, distacco
cui molte di noi non siamo disposte. Io l’ho fatto questo distacco
dal non-detto, però non senza sofferenza, non senza colpi di
coda. Insomma il prendere la parola nel senso così pieno
dell’espressione è un distaccarsi dal non-detto che molte non
vogliono – questo intero distacco dal non-detto. D’altra parte
io dico che si può restare sul bordo – come la figura della
mezza luna, no? Adesso c’è la mezza luna, se si fa vedere. Vedete
che la luna è tagliata a metà dall’oscurità e dalla luce.
Restare sul bordo non è un sapere a metà, o un volere a metà.
Ma è un sapere che c’è altro e un volere di più. Questo è: stare
sul bordo del non-detto ed è saperlo e tenerlo presente. Il
senso delle cose, se c’entra [centra] nelle cose, c’entra
[centra]* la mia vita, nessuno lo sa fino in fondo. Nessuno.
Il senso di quello che capita, se con quello che capita c’entra
[centra]* la mia vita, nessuno lo sa veramente fino in fondo.
E questo se giustifica il silenzio, giustifica ancora di più
il non-silenzio. Cioè come la faccia della luna. Il prendere
la parola in senso pieno, rotondo forse è una posizione,
come dire?, generosa, esibizionista, e anche rischiosa di esaurimento
mentale, tutto… C’è invece quest’altra cosa di stare su quel
bordo, tra la parola e la non-parola, il silenzio: tra sapere
quello che si vuole e volere altro, di più.
Ecco questa cosa che sto dicendo io adesso vuol dire tenere
aperto il mercato e la contrattazione e quando anche si chiude,
quando altre decidono di chiudere il mercato, sapere che c’è
altro e che bisognerà riaprire.
Adesso entro nel tema del mercato. Stare in questa posizione
della mezza luna vuol dire tenere aperto il mercato,
qualunque cosa questa frase voglia dire. Le chiusure del mercato
vanno intese come interruzioni o sospensioni. Chiara Zamboni
ci ha parlato [nella scorsa lezione] di sua madre che andava
al mercato e poteva starci delle ore contrattando. E questa
è una notevole abilità: teneva aperto il mercato. Quando dicevo,
con Chiara scherzando, “Beh, certo una che va al mercato e può
starci delle ore, ci può anche portare i suoi desideri sessuali.
Certo dico non sarà stata tua madre”, e Chiara
ha detto “Beh, chi lo sa?”.
Il portare tutto al mercato e il saper stare al mercato e tener
aperta la contrattazione vuol dire mettere in gioco molto di
sé. Difficile, come diceva Chiara, è veramente portare al mercato
se stesse. Questo che vi propongo è molto diverso dal mettersi
a pensare un’alternativa all’economia di mercato con l’intenzione
realistica o utopica di arrivare a realizzare l’alternativa
al mercato. Questo che vi propongo è mettersi in gara con l’estrema
sensibilità del denaro. E io penso che, forse, solo una sensibilità
di donna, ma libera, riesce a vincere questa gara. Il danaro
è di un’estrema sensibilità; basta seguire le cose delle borse,
o basta leggere i titoli e sapete che il denaro è molto sensibile.
E io penso che, per superare la sensibilità del denaro, solo
la sensibilità di una donna libera ci riesce. Questo che io
vi propongo è anche, in un certo senso, essere già un’alternativa
all’economia di mercato, però in un senso molto potenziale:
non pensate un’alternativa da “un’altra parte”. Questo che vi
propongo è lottare per la soggettività libera, contro la riduzione
del mercato a un dispositivo immodificabile da “me”, cioè dalla
singola e manegggiato, manipolato unicamente da una minoranza
strapotente che, magari, al mercato non ci va mai... Perché,
detto fra noi, non siamo negli Stati Uniti e possiamo dircelo
– pensiamo alle circostanze in cui Bush ha vinto la gara elettorale.
Quell’uomo non è andato al mercato a vincere la presidenza,
eh… Era figlio di papà e di sua mamma, aveva soldi, aveva molti
legami, aveva molte cose; forse i voti non erano neanche in
maggioranza suoi e via e via… Quindi abbiamo un’esigua minoranza
di uomini strapotenti, compreso quell’altro signore là, Bin
Laden, che manipolano, usano il mercato, lo aprono, lo chiudono,
lo drogano, lo imbrogliano… E allora quello che io vi propongo
è la lotta della soggettività libera, femminile specialmente
ma non soltanto naturalmente, per impedire che il mercato si
riduca a questa macchina manipolata da questa minoranza di strapotenti.
Merci e idee
Il mercato, vi ricordo, non nasce capitalistico. Nasce in epoca
pre-moderna come un dispositivo simbolico che aveva, ed ha ancora,
un grande potenziale di significare. È un dispositivo che, da
un punto di vista simbolico, significa molte cose: parlo anche
del mercato comunemente inteso, quello che frequentiamo noi
ed ha agito a diversi livelli con effetti liberanti per le persone
come per la convivenza, come per la visione del mondo. Questo
dispositivo simbolico, che è stato e resta il mercato, ha sviluppato
un grande potenziale di libertà; per esempio sciogliendo i vincoli
feudali che stringevano tutti in un unico ordine sociale: un
ordine simbolico che era pari pari un ordine sociale.
Il movimento del libero spirito e tutti i grandi movimenti
ereticali, che sono all’origine dell’Europa moderna, non a caso
si sviluppano nelle città di mercanti, di preferenza. Perché
i mercanti portavano in giro merci e idee; e nei mercati queste
idee giravano in carne ed ossa, giravano anche fisicamente.
I mercati erano pieni anche di persone che dicevano, comunicavano
idee e si parlavano.
L’economia di tipo capitalistico ha fatto suo il mercato e alla
grande, ma è sbagliato identificare l’economia capitalistica
con il mercato: è assolutamente sbagliato, non sono la stessa
cosa. Noi sappiamo, e anche prima dell’undici settembre, che
il paradigma della razionalità moderna, che corrisponde al capitalismo,
ma alla razionalità moderna corrispondono anche le grandi critiche
del capitalismo, per esempio il marxismo, è in affanno. Lo è
su una questione di fondo: sul senso stesso del produrre, del
lavorare, del consumare che sono le grandi attività a cui siamo
chiamate – la produzione, la partecipazione alla produzione
con il lavoro e il consumo. Voi sapete che, dopo il crollo delle
torri, dopo questo colpo inferto al senso di invulnerabilità
degli Stati Uniti d’America, la gente non ha più voglia di consumare.
Non è passata del tutto, ma si è ridotta la voglia di consumare;
vogliono stare fra loro, vogliono stare in casa, c’era anche
prima certo…
Naomi Klein, in quel bellissimo No Logo che è scritto
prima, parlando delle multinazionali dice che “hanno sete
di assorbire le critiche sociali e i movimenti politici quali
sorgenti di significato per il marchio”. La produzione e
il mercato capitalistici sono assetati, ciucciano significato,
senso perché finiscono sennò nell’insensatezza. “Il mercato
di tipo capitalistico, ordinato al conseguimento di un profitto
misurabile in danaro, è come premuto dall’esistenza di bisogni
da una parte e di beni dall’altra che esso traduce al suo interno”.
Certo è facile, è un dispositivo potente il mercato di tipo
capitalistico, riesce a tradurre, continua a farlo, ma è – ripeto
– in affanno, è premuto e la cosa si sente. Manca, come dire,
la potenza interna di quel mercato di tipo capitalistico e cresce,
non a caso io credo, l’importanza della pubblicità. La gente
più pagata al mondo – se volete far soldi e se avete un po’
di genio – opera lì. L’importanza enorme della pubblicità risulta
bene dal libro della Klein, perché la pubblicità serve a drogare
la domanda, a indurre bisogni e desideri completamente futili
e serve a drogare l’offerta delle cose qualsiasi, diciamo pure
qualche volta delle cacche, in risposta al bisogno di un’esistenza
sensata, al bisogno di valorizzazione. La pubblicità è la droga
di tutto questo ed è interessante notare che cresce anche il
mercato delle droghe vere e proprie, perché, quando non ce la
facciamo così, va bè, ci droghiamo. Non ce la facciamo con un
paio di scarpe Nike, ci droghiamo.
La lotta dunque è sul senso, si è portata su una frontiera precisa,
ormai è sul senso. Certo, anche le informazioni, il modo in
cui le si danno, le notizie, la credibilità delle notizie; cioè
è di ordine simbolico. È su quel filo che è così impalpabile,
così inafferrabile, ma che è così efficace e potente che è il
simbolico, il senso. Purtroppo la cultura critica del capitalismo
e penso specialmente al Capitale di Marx e a quello che
ha significato nella storia dell’occidente – io penso molto
bene del Capitale di Marx in generale, e del contributo
che Marx ha dato all’occidente e non solo all’occidente – però
purtroppo la cultura critica del capitalismo non aveva e non
ha una filosofia del linguaggio. Non è una questione di materialismo,
non è che non ce l’ha perché sarebbe una filosofia materialistica.
No!, è questione di tener conto che siamo animali simbolici,
animali assolutamente, bestie, ma bestie parlanti, che parlano.
E quindi questa roba entra in circolo con tutto quello che siamo:
dalla punta dei capelli alla punta dei piedi. Nella cultura
anticapitalistica il posto del linguaggio – adesso semplifico
un po’ – è preso dall’organizzazione che si esprime, a livello
di linguaggio, soprattutto con le manifestazioni di massa. Infatti
ne abbiamo avute e ne avremo ancora; è l’unico quasi discorso
che viene a esprimersi molto rozzamente dunque. Invece di quella
cosa raffinatissima che è una grammatica, una sintassi e una
retorica, abbiamo delle organizzazioni, le quali parlano essenzialmente
con queste stesse organizzazioni.
Ecco che cosa scriveva, nel ’36, la Stein già citata all’inizio
sempre da questo libriccino.
Le ultime cose che ho da dire sul denaro, è intitolato
il testo. Sapete come scrive la Stein, è simpaticissima, così
di getto; sta parlando dell’ottocento “… poi hanno incominciato
ad inventare dei macchinari, allo stesso tempo hanno trovato
delle terre vergini che potevano essere lavorate con dei macchinari
e così è incominciata l’organizzazione; poi l’organizzazione
delle fabbriche, e l’organizzazione dei lavoratori e più incominciava
l’organizzazione e più tutti volevano essere organizzati e più
erano organizzati più la schiavitù di essere in un’organizzazione
piaceva a tutti”. Adesso, dice, l’organizzazione è un po’
consumata – siamo nel ’36, lei non si immaginava cosa stavano
facendo in fatto di organizzazione nella vicina Germania. Poi
lei dice il suo pensiero: “L’organizzazione è un fallimento
e dovunque il mondo deve ricominciare per tutti. Disorganizziamoci,
lei dice, e facciamo ricominciare il mondo”. Poi si chiede:
“ma che cosa faranno dopo, cosa verrà nel secolo ventunesimo?”
È ancora parecchio distante, non ci arriverà naturalmente
– e risponde: “non vorranno certo essere organizzati? Forse
incominceranno di nuovo a cercare la libertà”. Ecco. Ditelo
ai vostri e ai nostri amici dei social forum. Diteglielo. Chissà?…
C’è libertà femminile
Un esempio di questa lotta che è sulla linea del simbolico
come dicevo lotta che è per il senso e per la
soggettività libera, la dà un articolo apparso su Via Dogana,
n° 37. Pratiche politiche per creare libertà si intitola;
la Via Dogana è quella intitolata Libertà nel lavoro.
L’articolo è di Lia Cigarini e Maria Marangelli.
È una ricerca che loro hanno fatto anche con altre in cui si
legge: “Il mercato del lavoro sta cambiando e
questo lo sappiamo anche noi si femminilizza, dicono
parecchi. Questi cambiamenti vengono letti da un certo numero
di economisti e sindacalisti come una riprova della potenza
del capitale nel mettere a lavoro e a profitto anche quello
che prima gli era esterno ed estraneo”. Questo – il cambiamento
del mercato del lavoro, la sua flessibilità ecc. viene
letto tutto come una manifestazione della strapotenza del capitalismo
nel rapporto con il mercato del lavoro, che è uno dei suoi mercati.
Voi sapete che i mercati principali del capitalismo sono tre:
il mercato delle merci, come ovvio, il mercato del lavoro che
è un’invenzione del capitalismo, e il mercato dei soldi, il
mercato finanziario cioè [uno squillo di telefono cellulare
fa ironizzare la relatrice che stigmatizza: anche questo mi
pare opera, un’invenzione del capitalismo]. Questi cambiamenti
vengono letti come una strapotenza del capitalismo. A questa
analisi si affiancano denunce ripetute dello svantaggio femminile
sul mercato del lavoro e sulla debolezza che le donne, entrando
nel mercato del lavoro, portano tra i lavoratori. Cioè le donne
sarebbero… Lo dicono, lo pensano dei sindacalisti: la
loro presenza sul mercato del lavoro indebolisce i lavoratori.
Perché le donne sono troppo flessibili, accettano il part-time,
accettano di andare e venire, accettano delle condizioni modeste,
dove ci sono donne si abbassano i salari, le donne non sono
capaci di combattere ecc, ecc.. Contro questa veduta le autrici
oppongono, insieme a tutta una serie di fatti, uno sguardo differente;
uno sguardo che tiene conto del fatto che le donne esistono
e che c’è libertà femminile. Scrivono: “la femminilizzazione
del lavoro non è prodotta dal mercato, ma viene da un’autonoma
volontà femminile”. Quella che statisticamente sembra una
divisione sessuata del lavoro, per esempio le donne che si dedicano
al lavoro di cura, che si dedicano all’insegnamento, ecc…“rappresenta,
invece, un nuovo conflitto dei sessi” – ci invitano a pensare.
Le donne si rifugiano in certe competenze, la scuola, gli ospedali,
il lavoro di cura, le piccole cooperative, per lavorare senza
lo schiacciamento del modo maschile di intendere e organizzare
il lavoro. Ed intendere e organizzare le carriere. Quella che
si presenta come una discriminazione di donne, cui sarebbe impedito
di fare carriera – sapete, tutto un femminismo del ‘tetto di
vetro’ per cui le donne sono impedite di fare carriera – vuol
dire forse anche o meglio che “le donne non si consegnano
interamente alla misura del danaro ma portano al mercato tutto,
cioè anche la qualità delle relazioni sul posto di lavoro, la
risposta degli altri e delle altre alla propria presenza, alla
compatibilità dell’impegno di lavoro con le esigenze affettive”.
Il famoso part-time femminile, che è stato visto come il fumo
negli occhi per decenni dai sindacalisti, ecco è una strategia
per salvare il senso del lavoro e farne parte vitale del senso
delle proprie vite. Questo è lo sguardo modificato che ci invitano
ad avere sui cambiamenti in corso.
Di madre in figlia
Lo stesso sguardo modificato lo trovate ampiamente sviluppato
in un libriccino, Strategie della libertà, di una storica
e lavorista dell’Università di Barcelona, Cristina Borderìas,
la quale anche lei ha guardato tutti i moti migratori all’interno
della Spagna con le presenze femminili e ha guardato anche l’organizzazione
della grande società telefonica della Spagna che assumeva moltissime
donne e, ascoltando queste donne, ha scoperto delle profonde,
importanti strategie di libertà per dare un senso alle loro
vite e per aprire spazi e margini di libertà con strategie di
cui lei nota il senso e il valore. A volte, per esempio, tali
strategie venivano fatte di madre in figlia. Cioè, c’erano madri
che facevano questo per le figlie. Ciò è stato possibile notare
perché il suo sguardo sul mondo del lavoro non è stato lo sguardo
oggettivante, fintamente neutro di una certa scienza lavorista.
È stato uno sguardo, unito ad un ascolto di quello, della soggettività
femminile. È la soggettività femminile che immette, che porta
probabilmente al mercato gli elementi più dirompenti. Ma che
occorre sapere, come dire?, intendere, assumerlo dentro una
presa di coscienza, assumerlo dentro una visione del mondo.
Allora questo cambiamento di sguardo nasce esattamente su quel
bordo che dicevo all’inizio: tra silenzio e presa di parola.
Ecco che è il bordo sul quale, come dire?, io penso sta di preferenza
una donna. Dal quale, forse, io mi sono allontanata, ma la pratica
di donne tra donne, della parola scambiata con altre donne,
mi ha aiutato e riaiutato a stare, a portarmi e tenermi o ritornare
anch’io vicina a quel bordo o a quell’ascolto.
Per finire e riassumendo il mio pensiero, anche con altre considerazioni,
essendo questo un testo tagliato, io penso che il capitalismo
ha una concezione mutilata e mutilante del mercato. Ma la visione
del reale di gran parte della tradizione anticapitalistica ha
avuto e purtroppo mantiene, insieme ad una visione riduttiva
del mercato, una concezione della politica che è ancora più
mutilata e mutilante, come ha visto bene Gertrude Stein.
Il capitalismo è portatore di una spregiudicatezza che, a volte,
certo, ci fa rizzare i capelli in testa… sì, mi rendo conto…
Ma questa spregiudicatezza contiene anche elementi di libertà
mentale che gli ha permesso fin qui di distanziare tutti i suoi
avversari, che spesso erano umanamente delle ottime persone.
Io preferisco imparare dal capitalismo che dall’anticapitalismo.
In secondo luogo, l’autrice di Strategie della libertà,
la Borderìas, così come le donne che hanno preparato il numero
di Via Dogana, queste donne che hanno studiato il mondo
della femminilizzazione del lavoro, ci insegnano che, trattandosi
del simbolico, il conflitto non si apre all’ingrosso. Bisogna
imparare a tagliar fino. Il conflitto più difficile e importante
si apre con le posizioni più vicine e perfino tra sé e sé; il
conflitto nel simbolico ha questa caratteristica e questo vuol
dire. Voglio dire che la guerra del Vietnam non è stata persa
sui campi di battaglia: certo la straordinaria capacità di resistenza
e di lotta dei Vietcong e la straordinaria intelligenza strategica
di Giap hanno tenuto in scacco gli Stati Uniti d’America, ma
si sa che gli Stati Uniti d’America hanno perso da un’altra
parte. Hanno perso dove si scambiavano parole, sentimenti, emozioni,
paure ecc, dove non c’era neanche un’arma se non quelle delle
polizie che reprimevano le manifestazioni e le rivolte degli
studenti. La guerra del Vietnam si è persa là, già allora e
a maggior ragione oggi, adesso.
Dunque il conflitto più difficile e importante che abbiamo noi
si apre. Tutti siamo contro le guerre; tutti siamo contro la
fame; tutti siamo contro i bambini che muoiono di fame; tutti
siamo contro gli embargo che vietano a un paese di rifornirsi
di medicinali indispensabili; tutti abbiamo orrore di una medicina
che produce medicinali sofisticatissimi e trascura di produrre
i medicinali salvavita di milioni di persone. Questo! Non è
lì che si gioca la cosa; la cosa si gioca molto più vicino,
a noi, attraverso di noi, dentro di noi. È lì che si fa l’equilibrio
dei rapporti di forza, in ultima istanza: perché si tratta del
simbolico; non si tratta più di quell’altra cosa da molto tempo,
del resto. Allora questo vuol dire che le forme del conflitto
dovranno essere pensate di conseguenza, perché altrimenti noi
rischiamo, se vogliamo veramente lottare, che finiamo per ferire
mortalmente i nostri affetti, le persone più care; perché bisogna
lottare a distanze ravvicinate; bisogna lottare sul senso delle
cose che è spesso equivocato, vicinissimo a noi, con quelli
con cui ci sembra di andare d’amore e d’accordo. Bisogna confliggere,
imparare delle forme del conflitto che non siano massacranti,
che non ci tolgano le forze, ma al contrario, se possibile,
delle forme di conflitto che possano migliorare, potenziare,
alzare la qualità dei nostri rapporti: in particolare, per me
che sono donna, e non sono la sola qui dentro, i rapporti con
l’altro sesso.
Né Bush, né i Talebani, neanche messi assieme, minacciano tanto
la nostra libertà quanto la pochezza dei nostri rapporti e la
stupidità delle nostre politiche.
Finisco con le parole di Gertrude Stein. Cercate di capirle,
sono enigmatiche: “Liberarsi dai ricchi finisce sempre in
un modo curioso. È facile liberarsi dei ricchi ma non è facile
liberarsi dei poveri”.
Luisa Muraro
La parola ribatte
Con il dibattito successivo si è toccata la vena politica
del testo di Muraro che ha avuto l’opportunità di precisare
e approfondire, in relazione alle domande poste, il suo dire
arricchito da un contesto assai vivace di scambio con altre
e altri.
A chi nella presenza di donne nel mondo del lavoro vede un dato
negativo di affettivizzazione, così Muraro ha replicato:
Chi ha detto che è eccessiva quella affettivizzazione,
quella orrenda parola che hai detto, tutta questa grande affettività
che le donne portano nei posti di lavoro, in quello che fanno
ecc.? Chi ha deciso che è eccessiva? È la misura maschile, suppongo.
Ma io non sto alle misure maschili. Cerchiamo invece che i posti
di lavoro e gli ospedali e le università e le scuole non funzionino
con l’orologio in mano e secondo esigenze affettive. Le donne
questo domandano; le donne questo chiedono per il senso del
lavoro che fanno. Non dico tutte, ci sono anche le macchinette
femminili, per carità ci sono. Ma dico le molte donne – quelle
che tu dici eccessivamente affettive. Questi sono giudizi
molto relativi; io non sono d’accordo con te, sull’eccessiva
affettivizazione, quella cosa lì. Figurati che io ho una
collega di Università la quale, un giorno, mi ha detto “ti devo
dire la verità: a me l’unica cosa che mi interessa è l’amore”.
Dico, è una donna che è avanti con gli anni; dice l’unica cosa
che mi interessa…; ha fatto carriera, è una studiosa e mi dice
l’unica cosa che mi interessa è questa. Vieni tu e dici:
eccessiva, donna eccessiva. No!, lo ha detto calmamente,
non l’ha detto da innamorata: l’unica cosa che mi interessa
è quella. E ci sono tante donne cui l’unica cosa che veramente
interessa è quella. Io ho anche un po’ di paura di questo. Ma
quello è, quello è. Se interessa più l’amore dei soldi, quello
è. Non sono eccessive, sono così, siamo così.
Sul radicamento e il conflitto
La cosa dell’undici settembre, a me è come se una bomba mi
avesse sradicata, altro che radicata. No, tutto è cambiato;
non si può restare a quello che si era prima, dopo che i termini
della questione sono cambiati. Non è questo che io dicevo e
non ho parlato neppure di spostare lo sguardo verso la scena
più piccina no, no, no, La paura, per esempio, è una
cosa che è in Afganistan, a New York, dentro di me, qui – ecco.
Allora, io dico, spostiamo lo sguardo verso certi meccanismi
come quelli della paura, dell’odio, dell’amore; spostiamo l’attenzione
e vediamo come va lì. Vediamo allora che questo presidente pirla
che si emancipa dalla soggezione del padre – si deve essere
preso uno spavento terribile; non sapeva dire tre parole in
croce ed è diventato che è capace di reggere una conferenza
stampa, che non è facile da sostenere… Guardiamo queste cose
qui e non solo queste naturalmente. Per esempio la guerra in
Afganistan si rivela una frittata e c’abbiamo un gusto, eh….
– ‘ma non glielo avevamo detto?, cosa andate con i bombardieri
a fare un’operazione di polizia?’. Ma non era questo; è chiaro
che speravano di beccare anche quel famoso signore, ma forse
no, forse sono in combutta, chi lo sa? A me non interessa nemmeno
saperlo. Ma bisognava che lui parlasse il linguaggio della forza,
perché lui è diventato il capo di un popolo, dato il moto emotivo,
di un popolo colpito nella sua invulnerabilità, nel suo narcisismo,
nel senso di sé. Lui doveva fare qualcosa e ha finito che ha
fatto la guerra. Una miseria!. Perché?, perché lui non ha altri
linguaggi; la nostra civiltà non ha altri linguaggi. Quindi,
quando io dico imparare dal capitalismo piuttosto che dall’anticapitalismo
voglio dire, bisogna anche imparare a imparare, avere
il senso io penso allora che il radicamento è nella fedeltà
a certe scelte e nella fedeltà a certe relazioni. Là, sì: ma
non è un radicamento; la fedeltà è nella traducibilità
massima. Tutto va messo in gioco per me, tutto. Io adesso, dopo
i fatti dell’undici settembre, metto in gioco tutto il mio sapere
politico guadagnato in trent’anni di politica con donne, di
relazione con donne che mi hanno resa ricca, che mi hanno permesso
di diventare una donna che ha qualcosa da dire, che è ricca,
che è contenta di questi trent’anni. Metto tutto in gioco per
una pratica di relazione con l’altro sesso, perché le cose che
capitano sono tali che mi hanno convinta che bisogna rischiare
ricche di sé però questo. Perché il mondo l’hanno
costruito questi disgraziati e adesso non sanno più cosa fare,
perché sta andando male, male, male, e allora, ecco. Con rispetto
naturalmente per tutti quanti, anche i disgraziati presenti.
[risate del pubblico]
I conflitti con le posizioni più vicine è perché, nel gran ribaltamento,
nella grande messa in rischio, io devo poter confliggere con
una donna che pensa che manifestare per la pace sia essenziale
e importantissimo. Io devo riuscire a confliggere con lei e
figurarsi se non simpatizzo con le manifestazioni per la pace,
figurarsi…Però, purtroppo, è tempo perso. Perché nessuno ha
voglia di fare le guerre. Le guerre si fanno non perché la gente
è guerrafondaia. Bush, tutto voleva tranne che fare una guerra.
Le guerre si fanno per ragioni che non hanno a che fare con
l’amore per la guerra. È che non ci sono altri linguaggi. Non
c’è altra intelligenza, non c’è altro modo di regolare i
rapporti. Non ci sono, quindi occorre inventare simbolico. E
naturalmente è molto difficile spiegare queste cose qui, a voi;
infatti vedo le facce. [risate]
Io non chiedo di stare vicino o dentro ai conflitti perché possiamo
gestirli. Io dico di stare vicino ai conflitti che sono i veri
conflitti su cui si decide la politica e l’andamento delle cose.
Io penso, e non sono certo la sola, che le provocazioni che
hanno rovinato, in parte, la grande manifestazione di Genova
contro il G8, hanno fatto sì che in tv si sono viste delle cose.
La morale della favola, poi – si va in soldoni – in un paesino
del cattolico Veneto ‘I Beati costruttori di pace’ – non sto
parlando di chissà quali pericolose ‘tute bianche’, o che altro?!
– non trovano chi gli dia una sala per fare una discussione;
perché la gente ha visto quella roba lì in tv, si è spaventata
e ha identificato tutto quello che fa riferimento a Genova con
pericolosa sovversione, rivolta ecc. È essenziale ascoltare
la gente che si spaventa e viene ingannata in questa maniera.
È essenziale capire cosa capita. Perché se una continua, come
facciamo noi, a orientarsi ideologicamente, non sa parlare a
questa gente: non lo sa. E poi si dice “vanno a destra”.
Non è che vanno a destra. È che ci sono dei meccanismi che vengono
usati, manipolati e, dall’altra parte, della gente come noi
che non sa né ascoltare né interloquire. Con chi?, adesso si
ha pure paura dei ‘Beati costruttori di pace’; ma ci vuole tutta!
Eppure non si è trovata una sala pubblica perché loro potessero
parlare delle loro cose.
Mercato e capitalismo
Quando nasce il capitalismo in Europa nasce insieme a grandi
movimenti ereticali, tutti molto importanti e interessanti.
Procedono in parallelo con l’idea di libertà, sia l’uno che
gli altri. Poi dopo avviene una saldatura, cioè il successo
negli affari diventa il segno della preferenza divina. Allora
che cosa capita: non è più necessario essere virtuosi, la virtù
diventa una parvenza esteriore per la comunità, per la collettività.
Pensate a Berlusconi, che personaggio! però tanti lo
hanno votato – un po’ è anche imbarazzante, perché ce l’avevano
detto che non era un personaggio eleggibile a quella carica
[risate nel pubblico]. Però tanti lo hanno votato. Perché?
Perché aveva successo negli affari. Questo è il colpo maestro
del capitalismo; cioè, quello che per Margherita Porete** poteva
fare l’amore, che era di esonerarci dalla pratica delle virtù,
il capitalismo lo ha fatto fare al successo negli affari. E
lì si è strangolato lo sviluppo, perché lì è avvenuto quello
che poi è la modernità, dove i soldi hanno preso questa potenza.
Io sono una storica, diciamo passionale; cioè studio solo le
cose che mi interessano e più che studiarle vado in casa degli
storici e delle storiche di professione e non esco di casa finché
non mi hanno insegnato tutto quello che sanno. Così faccio la
storiografa io. Quindi non si può darmi questo titolo di storiografa.
Io non ho studiato però il precapitalismo, quello che ho studiato,
in verità, è l’alba dell’Europa moderna, perché la grande mistica
femminile, movimento beghinale, nasce nelle città quando nascono
le città che sono dei liberi comuni. Lì nasce anche il movimento
del libero spirito: quindi ho studiato proprio gli albori
dell’Europa moderna.
Sia chiaro che io non ho esortato nessuna a imparare dal capitalismo.
Ho detto: “Io imparo più dal capitalismo che dall’anticapitalismo”.
Io. Io sono una che è estranea allo spirito del capitalismo,
completamente. Appena ho ragionato ho scelto di essere una dipendente
statale che era la condizione umana più vicina a stare alle
dipendenze di mia madre, a fare cose e poi mi davano un piatto
di minestra. Sono io fatta in questa maniera, capite?, sennò
è alterata la cosa.
Mi sto affezionando al popolo americano. Perché? Mi è diventato
chiaro che non possiamo andare avanti con questa forma di sviluppo:
una politica feroce, un ipersviluppo in pratica non sostenibile.
Il fatto che una parte dell’umanità sta in condizioni disperate
e senza grandi prospettive e noi ci riempiamo di sensi
di colpa e l’enorme ricchezza che si produce in occidente
non riusciamo a distribuirla bene neanche in occidente, crea
situazioni di ultra privilegio e anche ad un certo momento di
insensatezza: un consumismo insensato che, a volte, noi stessi
rimaniamo nauseate. Si torna a casa e ci viene voglia di buttare
tutto dalla finestra per liberarsi da questa coazione. Questa
cosa sta affiorando già nel movimento che ha fatto capo alla
grande manifestazione di Genova. Prima che non venisse demonizzata
coi trucchi che sapete era un movimento che faceva crescere
una simpatia diffusa, perché sta crescendo la coscienza che
bisogna cambiare profondamente: cambiare economia, scienza e
idea della politica ecc. Allora ho pensato: questo cambiamento
così audace non possono che guidarlo gli Stati Uniti d’America,
non c’è niente da fare. Allora mi sto affezionando al popolo
americano perché deve fare questo profondo cambiamento che è
così difficile e quindi dobbiamo fargli sentire che noi sosterremo
in questa cosa. Il mercato, in tanti sensi, lo rende possibile:
parlare, parlarci, parlare all’altro. Lasciarsi spiazzare, non
tenere sempre su delle torri [risate del pubblico] insomma,
dentro di noi. Quando pigliano dei botti, lasciarle andare queste
torri ecco. Cerchiamo di salvare quante più vite umane, anche
le nostre se possibile.
La buffa differenza è senza retorica
“Professoressa, [è la voce di un uomo dal pubblico ad intervenire]
morta la Russia abbiamo bisogno degli Stati Uniti?; morto un
idolo abbiamo bisogno di un altro idolo, se ho ben capito?”
[Muraro] No. Noi non ci conosciamo bene perché io non
ho mai avuto come idolo la Russia. Il popolo russo mi ha entusiasmato
quando l’ho visitato…
[la voce maschile, interrompendo, rimanendo al suo posto,
rifiutando il microfono e la visibilità del luogo da cui si
sono espresse la lezione e gli interventi] “…anni fa ci
salvava la Russia, anni fa…”
[Muraro] No, no. Questo “ci ” non mi riguarda: no no,
non mi riguarda proprio. Io ho sempre pensato bene di Stalin
perché da bambina – sono veneta, vengo dal Veneto cattolico,
non sono mai stata iscritta a nessun partito – ma Stalin mi
piaceva perché ero piccolissima e dicevano che ci avrebbe liberato
e lo chiamavamo Stalîn e per noi, nel Veneto, lì dove stavo
io,’stalîn’ è la puzza che avevamo nei capelli [forti risate]
quando stavamo nelle stalle. Allora un uomo che si chiamava
così mi pareva una cosa… un uomo veramente simpatico.
[la voce maschile] “anche ‘hitlerîn’, era carina…’stalîn’,
‘bushîn’…
[Muraro] io non intendo idolatrare, io ho fatto una
scelta veramente in favore delle altre donne molto forte…
[la voce maschile] “Professoressa, il più forte adesso
è gli Stati Uniti. Una volta c’era la Russia, c’era l’alleato
tedesco, l’alleato russo…”
[Muraro] ma lei ha una visione molto maschile della storia.
Io non la sento così.
[la voce maschile] “Professoressa, io cerco una visione
che non sia castrante, infibulante della storia [risate sui
termini ‘castrante’ e ‘infibulante’]
[Muraro] la mia visione della storia è comica, ecco comica.
In questo momento, eh. C’è dei momenti in cui la prendo più
sul serio.
Note della curatrice
* Il senso del testo è giocato, come in questi passaggi, anche
dall’omofonia fra significanti diversi. Il che gli rilancia
tutta la ricchezza dell’ambiguità orale.
** Margherita Porete, beghina piccarda, è l’autrice di Lo
specchio delle anime semplici, il capolavoro della letteratura
e della teologia mistica, che fino al 1946, quando Romana Guarnieri
lo riconobbe, era un testo anonimo diffuso in tutta Europa.
L’autrice morì sul rogo il 1310, come rea relapsa, per averlo
divulgato contro il decreto dell’Inquisizione. Margherita rinunciò
a difendersi e ad aver salva la vita in cambio del pentimento.
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