Seguendo il gran parlare che si fa da
qualche tempo a questa parte delle sempre tentate riforme scolastiche
(prima Berlinguer ora Moratti) ci si fa un’idea un po’ distorta
dei veri problemi che deve affrontare la scuola oggi e soprattutto
si rischia di finire impantanati in una oziosa quanto non utile
discussione.
Sembra, a sentire i commenti sul tema a destra e a manca, che
la grande posta in gioco sia da un lato (sinistra) la difesa
ad oltranza della scuola statale (dimenticando un po’ troppo
in fretta le politiche in materia del ministro Berlinguer),
dall’altro (destra) la promozione della scuola privata (leggi
cattolica).
Le differenze in realtà, se prendiamo come termini di paragone
le politiche concrete dei due ministri, sono molto più attenuate
e sfumate, e ben lo sanno coloro che in modo disincantato guardano
agli atti concreti in materia dei due governi.
Per quanto mi riguarda poi credo veramente che il problema così
posto sia assolutamente fuorviante.
Innanzitutto ambedue le proposte sono sorrette da una comune
filosofia che, per dirla con poche parole, si riassume nel considerare
l’essere umano come “capitale umano” e pertanto la sua valorizzazione
diventa un concetto economico prima che etico.
Ambedue le filosofie si preoccupano infatti di progettare una
scuola, quindi un’educazione e un apprendimento, che serva a
formare un futuro lavoratore e pertanto di avvalersi di un’organizzazione
gerarchica che mutui, seppur con i dovuti distinguo, la sua
struttura dall’azienda, vista come la base imprescindibile di
ogni economia. Allora che l’azienda sia di stato o privata,
per quelli che vi devono convivere, poco cambia in termini di
espansione libera delle proprie potenzialità.
Sta infatti proprio nell’idea di fondo circa la funzione della
scuola, in questo sono accomunate destra e sinistra, il nocciolo
della questione, vale a dire in questa comune idea della formazione
intesa come “formazione ad uno specifico” che è tutto proteso
ad un comune dover essere. Alla base cioè di questa visione
troviamo un’idea filosofica e pedagogica ben precisa di uomo
e di educazione che privilegia il divenire rispetto all’essere.
In questa prospettiva gioco forza la dimensione privilegiata
all’interno della scuola è quella del tempo (tutta l’organizzazione
scolastica si regge sull’organizzazione del tempo per l’insegnamento)
rispetto a quella dello spazio di espansione e di sviluppo individuale
(l’apprendimento).
Se veramente il nocciolo del problema è che la scuola (non importa
dopo quale riforma) deve servire a formare il cittadino-lavoratore
secondo una certa idea di cittadino e di lavoratore, e non importa
qui quale, significa che ciò che veramente ogni individuo è,
ciò che ogni essere umano sarà autonomamente e liberamente,
deve essere sacrificato sull’altare del dover essere perché
è un capitale che va valorizzato affinché dia i frutti desiderati.
Rivoluzione copernicana
Come si può capire a nessuno degli schieramenti in campo interessa
veramente educare (ex ducere, tirar fuori) quanto piuttosto
plasmare, formare, inculcare. E purtroppo spesso ciò non interessa
neanche a certi insegnanti, magari anche sindacalizzati o progressisti
in politica. La scuola dovrebbe, dal mio punto di vista, preoccuparsi
invece di creare le condizioni perché ogni bambino/a, ogni ragazzo/a
possa esprimere esattamente quello che è, possa imparare ad
imparare, apprendere ciò che desidera, relazionare in modo libero,
spontaneo ed egualitario, esprimere appieno la sua vera autonomia.
In sostanza credo in una scuola che si preoccupi dell’espansione
libera dell’essere piuttosto che formare per il dover essere,
che rifiuti pertanto ogni imposizione arbitraria di un’idea
di uomo da imitare o da costruire.
Una scuola che si preoccupi pertanto di garantire lo spazio
più ampio possibile ad ogni individuo e al suo apprendimento
piuttosto che organizzare ossessivamente il tempo dell’insegnamento.
Questa vera e propria rivoluzione copernicana mette al centro
della discussione il valore dell’individuo rispetto alle pretese
dell’istituzione e costituisce la vera garanzia per un contesto
di libertà e di ricerca autonoma.
Di questo si parla poco anche nelle rivendicazioni sindacali,
anche in quelle più radicali e si rischia così di vanificare
una giusta causa (una maggiore dignità e autonomia dell’insegnante,
comprensiva di uno stipendio che riconosca effettivamente l’importanza
di questa professione) assoggettandola a lotte e obiettivi che
non contemplino questa svolta radicale.
Si capisce pertanto come la discussione su statale o privato
sia fuorviante se non vista alla luce del problema vero della
scuola: partire sempre dal centro della sua esistenza, vale
a dire dai ragazzi, dalle loro vocazioni, dai loro desideri.
Perché aveva ragione Oscar Wilde quando sosteneva che “niente
di quello che valga veramente la pena di essere appreso può
essere insegnato” poiché l’esperienza non è trasmissibile mentre
lo è il dogmatismo.
Scrive giustamente Raniero Regni che un educatore dovrebbe essere
un liberatore, “dovrebbe essere colui che aiuta i suoi allievi
a liberarsi dalle paure e dalle catene interiori. Una persona
che cresce nel veder crescere. Una persona che nella sua autonomia
aiuta gli altri a fare da soli, aiutandoli a divenire a loro
volta autonomi” (R. Regni, Autonomia & Empowerment,
Roma, Armando, 1999).
Se questo, e altro, è ciò che veramente conta, è anche importante
che una scuola abbia la vera autonomia di modellarsi sulle esigenze
dei ragazzi e degli adulti che la compongono. La scuola statale
ha svolto indubbiamente una sua funzione, nonostante la logica
dello Stato e dei governi, nell’estendere la sua dimensione
pubblica, vale a dire che più accentua il suo essere di tutti
più entra in collisione con la logica del potere statale, ma
ormai non basta più (per noi anarchici da sempre) proprio perché
nessun potere, nessun ministro può rinunciare ad avere una sua
pedagogia e a farla diventare una pedagogia di Stato.
La scuola pertanto dovrebbe essere organizzata e gestita da
chi la vive (ragazzi, insegnanti, genitori e tutti coloro che
vi lavorano) e modellarsi continuamente sulle loro esigenze,
garantendo in maniera vera e non fittizia il suo carattere pubblico
(perché realmente aperta a tutti) ma senza i condizionamenti
dello Stato. Una scuola che si immerga nella comunità e che
attinga i suoi saperi dalla comunità che la circonda e da tutte
quelle occasioni di incontro e di scambio che è in grado di
crearsi e di promuovere.
Una scuola pubblica non statale è quel modello di organizzazione
dell’apprendimento che permette ad una comunità di crescere
veramente autonomamente senza imposizioni ma con le regole necessarie
che scaturiscono dal libero incontro e confronto con le altre
comunità federate.
Un’organizzazione libera di definire i suoi tempi sui tempi
dei ragazzi e non su quelli dell’orario delle discipline, che
ricomponga anzi l’unitarietà della conoscenza attraverso un
meta-apprendimento, che rifugga dalla morsa schiacciante dell’obbligatorietà
del curricolo nutrendo veramente la molteplicità delle intelligenze,
promuovendo e alimentando tutti i linguaggi umani. Infine una
scuola che sappia vivere fino in fondo rapporti egualitari e
libertari fondati sull’accettazione di ognuno per quello che
è, che sappia praticare fin dall’inizio la democrazia diretta
e la determinazione collettiva delle decisioni e delle regole.
Scuole come questa esistono già nel mondo e seppure con fatica
stanno sviluppandosi in diversi continenti, rappresentando modelli
certi di un’alternativa pubblica e non statale di educazione
e di istruzione.
Francesco Codello
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