rivista anarchica
anno 32 n. 279
marzo 2002


pedagogia

Né scuola pubblica né scuola privata: ma pubblica non statale
di Francesco Codello

Una terza via radicalmente differente dalle altre: un progetto che si sta già concretizzando.

Seguendo il gran parlare che si fa da qualche tempo a questa parte delle sempre tentate riforme scolastiche (prima Berlinguer ora Moratti) ci si fa un’idea un po’ distorta dei veri problemi che deve affrontare la scuola oggi e soprattutto si rischia di finire impantanati in una oziosa quanto non utile discussione.
Sembra, a sentire i commenti sul tema a destra e a manca, che la grande posta in gioco sia da un lato (sinistra) la difesa ad oltranza della scuola statale (dimenticando un po’ troppo in fretta le politiche in materia del ministro Berlinguer), dall’altro (destra) la promozione della scuola privata (leggi cattolica).
Le differenze in realtà, se prendiamo come termini di paragone le politiche concrete dei due ministri, sono molto più attenuate e sfumate, e ben lo sanno coloro che in modo disincantato guardano agli atti concreti in materia dei due governi.
Per quanto mi riguarda poi credo veramente che il problema così posto sia assolutamente fuorviante.
Innanzitutto ambedue le proposte sono sorrette da una comune filosofia che, per dirla con poche parole, si riassume nel considerare l’essere umano come “capitale umano” e pertanto la sua valorizzazione diventa un concetto economico prima che etico.
Ambedue le filosofie si preoccupano infatti di progettare una scuola, quindi un’educazione e un apprendimento, che serva a formare un futuro lavoratore e pertanto di avvalersi di un’organizzazione gerarchica che mutui, seppur con i dovuti distinguo, la sua struttura dall’azienda, vista come la base imprescindibile di ogni economia. Allora che l’azienda sia di stato o privata, per quelli che vi devono convivere, poco cambia in termini di espansione libera delle proprie potenzialità.
Sta infatti proprio nell’idea di fondo circa la funzione della scuola, in questo sono accomunate destra e sinistra, il nocciolo della questione, vale a dire in questa comune idea della formazione intesa come “formazione ad uno specifico” che è tutto proteso ad un comune dover essere. Alla base cioè di questa visione troviamo un’idea filosofica e pedagogica ben precisa di uomo e di educazione che privilegia il divenire rispetto all’essere. In questa prospettiva gioco forza la dimensione privilegiata all’interno della scuola è quella del tempo (tutta l’organizzazione scolastica si regge sull’organizzazione del tempo per l’insegnamento) rispetto a quella dello spazio di espansione e di sviluppo individuale (l’apprendimento).
Se veramente il nocciolo del problema è che la scuola (non importa dopo quale riforma) deve servire a formare il cittadino-lavoratore secondo una certa idea di cittadino e di lavoratore, e non importa qui quale, significa che ciò che veramente ogni individuo è, ciò che ogni essere umano sarà autonomamente e liberamente, deve essere sacrificato sull’altare del dover essere perché è un capitale che va valorizzato affinché dia i frutti desiderati.


Rivoluzione copernicana

Come si può capire a nessuno degli schieramenti in campo interessa veramente educare (ex ducere, tirar fuori) quanto piuttosto plasmare, formare, inculcare. E purtroppo spesso ciò non interessa neanche a certi insegnanti, magari anche sindacalizzati o progressisti in politica. La scuola dovrebbe, dal mio punto di vista, preoccuparsi invece di creare le condizioni perché ogni bambino/a, ogni ragazzo/a possa esprimere esattamente quello che è, possa imparare ad imparare, apprendere ciò che desidera, relazionare in modo libero, spontaneo ed egualitario, esprimere appieno la sua vera autonomia.
In sostanza credo in una scuola che si preoccupi dell’espansione libera dell’essere piuttosto che formare per il dover essere, che rifiuti pertanto ogni imposizione arbitraria di un’idea di uomo da imitare o da costruire.
Una scuola che si preoccupi pertanto di garantire lo spazio più ampio possibile ad ogni individuo e al suo apprendimento piuttosto che organizzare ossessivamente il tempo dell’insegnamento.
Questa vera e propria rivoluzione copernicana mette al centro della discussione il valore dell’individuo rispetto alle pretese dell’istituzione e costituisce la vera garanzia per un contesto di libertà e di ricerca autonoma.
Di questo si parla poco anche nelle rivendicazioni sindacali, anche in quelle più radicali e si rischia così di vanificare una giusta causa (una maggiore dignità e autonomia dell’insegnante, comprensiva di uno stipendio che riconosca effettivamente l’importanza di questa professione) assoggettandola a lotte e obiettivi che non contemplino questa svolta radicale.
Si capisce pertanto come la discussione su statale o privato sia fuorviante se non vista alla luce del problema vero della scuola: partire sempre dal centro della sua esistenza, vale a dire dai ragazzi, dalle loro vocazioni, dai loro desideri. Perché aveva ragione Oscar Wilde quando sosteneva che “niente di quello che valga veramente la pena di essere appreso può essere insegnato” poiché l’esperienza non è trasmissibile mentre lo è il dogmatismo.
Scrive giustamente Raniero Regni che un educatore dovrebbe essere un liberatore, “dovrebbe essere colui che aiuta i suoi allievi a liberarsi dalle paure e dalle catene interiori. Una persona che cresce nel veder crescere. Una persona che nella sua autonomia aiuta gli altri a fare da soli, aiutandoli a divenire a loro volta autonomi” (R. Regni, Autonomia & Empowerment, Roma, Armando, 1999).
Se questo, e altro, è ciò che veramente conta, è anche importante che una scuola abbia la vera autonomia di modellarsi sulle esigenze dei ragazzi e degli adulti che la compongono. La scuola statale ha svolto indubbiamente una sua funzione, nonostante la logica dello Stato e dei governi, nell’estendere la sua dimensione pubblica, vale a dire che più accentua il suo essere di tutti più entra in collisione con la logica del potere statale, ma ormai non basta più (per noi anarchici da sempre) proprio perché nessun potere, nessun ministro può rinunciare ad avere una sua pedagogia e a farla diventare una pedagogia di Stato.
La scuola pertanto dovrebbe essere organizzata e gestita da chi la vive (ragazzi, insegnanti, genitori e tutti coloro che vi lavorano) e modellarsi continuamente sulle loro esigenze, garantendo in maniera vera e non fittizia il suo carattere pubblico (perché realmente aperta a tutti) ma senza i condizionamenti dello Stato. Una scuola che si immerga nella comunità e che attinga i suoi saperi dalla comunità che la circonda e da tutte quelle occasioni di incontro e di scambio che è in grado di crearsi e di promuovere.
Una scuola pubblica non statale è quel modello di organizzazione dell’apprendimento che permette ad una comunità di crescere veramente autonomamente senza imposizioni ma con le regole necessarie che scaturiscono dal libero incontro e confronto con le altre comunità federate.
Un’organizzazione libera di definire i suoi tempi sui tempi dei ragazzi e non su quelli dell’orario delle discipline, che ricomponga anzi l’unitarietà della conoscenza attraverso un meta-apprendimento, che rifugga dalla morsa schiacciante dell’obbligatorietà del curricolo nutrendo veramente la molteplicità delle intelligenze, promuovendo e alimentando tutti i linguaggi umani. Infine una scuola che sappia vivere fino in fondo rapporti egualitari e libertari fondati sull’accettazione di ognuno per quello che è, che sappia praticare fin dall’inizio la democrazia diretta e la determinazione collettiva delle decisioni e delle regole.
Scuole come questa esistono già nel mondo e seppure con fatica stanno sviluppandosi in diversi continenti, rappresentando modelli certi di un’alternativa pubblica e non statale di educazione e di istruzione.

Francesco Codello