Nonostante la località dal nome ben
augurante ed «allegro», nonostante l’aria estiva che spira dal
Brasile il secondo Forum Sociale Mondiale svoltosi a Porto Alegre,
nello stato di Rio Grande do Sul, segnala l’emergere di una
curvatura moderatamente riformista del movimento no-global o,
se si preferisce, new-global. La parabola iniziata nel profondo
della selva Lacandona nell’ormai lontano 1994, sviluppatasi
poi negli incontri intercontinentali «per l’umanità e contro
il neoliberismo», e poi nelle varie giornate di lotta a Seattle,
come a Washington, Praga, Quebec, Ottawa, Nizza, Davos, Genova,
pare arenarsi nella mega kermesse mediatica svoltasi tra il
31 gennaio ed il 4 febbraio nella città governata da uno dei
candidati alle prossime presidenziali brasiliane.
Lasciate fuori dal programma ufficiale del Forum presenze ingombranti
come quelle dell’EZLN e delle argentine Madri di Plaza de Mayo
un ampio spazio è stato lasciato a partiti ed associazioni che
definire «riformiste» è puro vezzo caritativo. Basti pensare
alla presenza di esponenti dei Democratici di Sinistra, che
nella recente esperienza governativa si sono distinti nel promuovere
la guerra per il Kosovo, nell’approvare leggi liberticide contro
gli immigrati come la Turco-Napolitano, nel perseguire politiche
economiche e sociali di stampo squisitamente liberale. Sino
all’ultimo la netta condanna della guerra in Afghanistan, espressa
nel documento finale del Forum, è stata oggetto di un dibattito
dagli esiti tutt’altro che scontati, segno inequivocabile del
crescente peso di forze politiche che quella guerra hanno sostenuto
e giustificato.
Peraltro le conclusioni del dibattito, di scarso spessore analitico
e progettuale, non segnalano solo, come da più parti osservato,
un accentuarsi del peso della componente più moderata ma anche
un allentamento della tensione progettuale che pareva essere
l’elemento più interessante e fecondo da cui era scaturito il
progetto del Forum Sociale Mondiale.
A proposito della Tobin Tax
Il concentrarsi della critica sul capitale finanziario risulta
miope e riduttivo, in ultima analisi funzionale alla promozione
di quella campagna per la Tobin Tax, che «azionisti» new-global
di buon peso politico e mediatico come Attac, pongono al centro
delle loro esili strategie di resistenza al capitalismo. La
scarsa attenzione alla natura distruttrice (di vite, salute,
ambiente) del capitale nella sua classica veste industriale
pare proporre un’ingenua contrapposizione tra capitalismo produttivo
(buono) e speculazione finanziaria (cattiva).
La dimensione propriamente politica del dominio viene sapientemente
elusa, aggirata, cortocircuitata nel tentativo di assolvere
la dimensione statuale, fittiziamente dipinta come residuale,
dalla responsabilità per il mondo intollerabile in cui la stragrande
maggioranza degli uomini, donne e bambini di questo pianeta
sono forzati a vivere. Anzi. L’orizzonte statuale, frettolosamente
assolto dalle proprie responsabilità, appare come linea di demarcazione
insuperabile di un agire politico che, oltrepassando e, di fatto,
scavalcando la dimensione orizzontale dei movimenti, riallinei
verso la democrazia parlamentare le tensioni e le intelligenze
entrate in gioco da protagoniste nel movimento no-global. Eppure
la feroce «guerra duratura», che «sul campo» esplicita la barbarie
statale nella sua forma più cruda e sul «fronte interno» si
traduce in provvedimenti liberticidi, compressione della facoltà
di esprimersi, criticare è uno specchio del tutto nitido della
natura criminale degli stati. Di tutti gli stati. Ma guardare
in questo specchio sarebbe stato troppo arduo per chi è o è
stato al governo del proprio paese.
«L’altro mondo possibile», slogan che rimbalza ormai in ogni
angolo del globo, si auspicava trovasse una piazza comune in
cui le diverse esperienze, movimenti, culture sviluppassero
una relazione costruttiva capace di concretarsi al di là dei,
pur importanti, appuntamenti in occasione degli incontri dei
potenti della terra. A Porto Alegre, tuttavia, la piazza ha
ceduto il passo alla vetrina, alle luci della ribalta, all’effetto
mediatico, al possibile tornaconto (magari in chiave elettorale)
a casa propria. Niente di più emblematicamente penoso della
foto ricordo di alcuni lideretti nostrani, in posa con tanto
di striscione e pugni levati di fronte ad una schiera di fotografi.
Gli altri, dai 50 ai 70 mila partecipanti al WSF brasiliano
sullo sfondo, comparse utili alla rappresentazione se si accontentano
di «far numero».
Resta da vedere sino a che punto le «comparse» siano disponibili
a recitare il ruolo loro assegnato. Voci critiche si sono levate
all’esterno ma anche all’interno del grande «carnevale politico
globale» di Porto Alegre, da Hebe de Bonafini delle Madri argentine,
passando per gli anarchici brasiliani promotori di un Forum
parallelo, sino ad esponenti della nostrana Rete Lilliput.
La straordinaria ricchezza dell’esperienza maturata in questi
ultimi anni non può essere facilmente ridotta a massa critica
per un riformismo tanto esile quanto desideroso di riconoscimento
e legittimazione istituzionale.
Un caleidoscopio di esperienze
Negli stessi giorni del WSF migliaia e migliaia di persone
sono scese in piazza per dimostrare contro il capitalismo e
le politiche di guerra. A New York, l’albergo di lusso che ospitava
il Word Economic Forum, che la pressione delle mobilitazioni
degli anni scorsi ha obbligato a varcare l’oceano trasferendosi
dalla Svizzera agli Stati Uniti, è stato circondato da un’imponente
manifestazione. A Monaco il vertice NATO sugli armamenti è stato
contestato per due giorni nonostante le frontiere sigillate,
gli arresti preventivi di centinaia di persone, la criminalizzazione
dei media. A Livorno gli anarchici italiani hanno manifestato
contro il militarismo ed una guerra che, ben lungi dal terminare,
continua a mietere vittime.
A ben vedere, volendosi per un breve momento accontentare della
lieve magia dei numeri, quella odierna potrebbe essere vista
come una crisi di crescita. I 50.000 di Seattle sono divenuti
i 300.000 di Genova. Pur di minoranza il movimento no-global
non è certo oggi un movimento minoritario ed in esso si convogliano
tensioni ideali e volontà trasformatrici quali non si vedevano
da un paio di decenni. Questo movimento, sebbene in parte votato
al protagonismo di piazza, riesce peraltro ad esprimersi anche
altrove: dai mille forum della Rete ai collettivi universitari,
dai coordinamenti di difesa ambientale ai sindacati di base,
dai centri sociali ai gruppi per la casa, dalle associazioni
antirazziste ai gruppi femministi. È un caleidoscopio di esperienze,
percorsi, appartenenze che entra in gioco scommettendo sul valore
della diversità, sull’importanza del confronto, sulla possibilità
di coniugare l’agire locale con la prospettiva planetaria.
Porto Alegre rappresenta oggi una secca nella quale il movimento
potrebbe arenarsi o, peggio, frantumarsi, disperdendo in mille
rivoli le proprie potenzialità. Un’altra china pericolosa è
quella che vede i no-global come una sorta di internazionale
capace di riunirsi solo intorno ai meeting dei potenti, eludendo
il nodo cruciale della progettualità, della prefigurazione di
altri mondi possibili, del confronto a tutto campo. Sono ostacoli
sormontabili nella pratica, nell’azione diretta intesa nel suo
senso precipuo: intervento, relazione politica e sociale non
mediata e non mediabile su un piano istituzionale. La scommessa,
ancora una volta, è quella di coniugare radicalità e radicamento,
elaborando strategie di lotta diversificate e flessibili, aprendo
spazi sempre più ampi alla discussione ed alla sperimentazione.
Maria Matteo
|