rivista anarchica
anno 32 n. 279
marzo 2002


Porto Alegre

Requiem per un movimento
di Maria Matteo

Al recente Forum Sociale Mondiale, in Brasile, le esigenze mediatiche hanno prevalso su tutto. Ed il movimento si trova ad un bivio…

Nonostante la località dal nome ben augurante ed «allegro», nonostante l’aria estiva che spira dal Brasile il secondo Forum Sociale Mondiale svoltosi a Porto Alegre, nello stato di Rio Grande do Sul, segnala l’emergere di una curvatura moderatamente riformista del movimento no-global o, se si preferisce, new-global. La parabola iniziata nel profondo della selva Lacandona nell’ormai lontano 1994, sviluppatasi poi negli incontri intercontinentali «per l’umanità e contro il neoliberismo», e poi nelle varie giornate di lotta a Seattle, come a Washington, Praga, Quebec, Ottawa, Nizza, Davos, Genova, pare arenarsi nella mega kermesse mediatica svoltasi tra il 31 gennaio ed il 4 febbraio nella città governata da uno dei candidati alle prossime presidenziali brasiliane.
Lasciate fuori dal programma ufficiale del Forum presenze ingombranti come quelle dell’EZLN e delle argentine Madri di Plaza de Mayo un ampio spazio è stato lasciato a partiti ed associazioni che definire «riformiste» è puro vezzo caritativo. Basti pensare alla presenza di esponenti dei Democratici di Sinistra, che nella recente esperienza governativa si sono distinti nel promuovere la guerra per il Kosovo, nell’approvare leggi liberticide contro gli immigrati come la Turco-Napolitano, nel perseguire politiche economiche e sociali di stampo squisitamente liberale. Sino all’ultimo la netta condanna della guerra in Afghanistan, espressa nel documento finale del Forum, è stata oggetto di un dibattito dagli esiti tutt’altro che scontati, segno inequivocabile del crescente peso di forze politiche che quella guerra hanno sostenuto e giustificato.
Peraltro le conclusioni del dibattito, di scarso spessore analitico e progettuale, non segnalano solo, come da più parti osservato, un accentuarsi del peso della componente più moderata ma anche un allentamento della tensione progettuale che pareva essere l’elemento più interessante e fecondo da cui era scaturito il progetto del Forum Sociale Mondiale.


A proposito della Tobin Tax

Il concentrarsi della critica sul capitale finanziario risulta miope e riduttivo, in ultima analisi funzionale alla promozione di quella campagna per la Tobin Tax, che «azionisti» new-global di buon peso politico e mediatico come Attac, pongono al centro delle loro esili strategie di resistenza al capitalismo. La scarsa attenzione alla natura distruttrice (di vite, salute, ambiente) del capitale nella sua classica veste industriale pare proporre un’ingenua contrapposizione tra capitalismo produttivo (buono) e speculazione finanziaria (cattiva).
La dimensione propriamente politica del dominio viene sapientemente elusa, aggirata, cortocircuitata nel tentativo di assolvere la dimensione statuale, fittiziamente dipinta come residuale, dalla responsabilità per il mondo intollerabile in cui la stragrande maggioranza degli uomini, donne e bambini di questo pianeta sono forzati a vivere. Anzi. L’orizzonte statuale, frettolosamente assolto dalle proprie responsabilità, appare come linea di demarcazione insuperabile di un agire politico che, oltrepassando e, di fatto, scavalcando la dimensione orizzontale dei movimenti, riallinei verso la democrazia parlamentare le tensioni e le intelligenze entrate in gioco da protagoniste nel movimento no-global. Eppure la feroce «guerra duratura», che «sul campo» esplicita la barbarie statale nella sua forma più cruda e sul «fronte interno» si traduce in provvedimenti liberticidi, compressione della facoltà di esprimersi, criticare è uno specchio del tutto nitido della natura criminale degli stati. Di tutti gli stati. Ma guardare in questo specchio sarebbe stato troppo arduo per chi è o è stato al governo del proprio paese.
«L’altro mondo possibile», slogan che rimbalza ormai in ogni angolo del globo, si auspicava trovasse una piazza comune in cui le diverse esperienze, movimenti, culture sviluppassero una relazione costruttiva capace di concretarsi al di là dei, pur importanti, appuntamenti in occasione degli incontri dei potenti della terra. A Porto Alegre, tuttavia, la piazza ha ceduto il passo alla vetrina, alle luci della ribalta, all’effetto mediatico, al possibile tornaconto (magari in chiave elettorale) a casa propria. Niente di più emblematicamente penoso della foto ricordo di alcuni lideretti nostrani, in posa con tanto di striscione e pugni levati di fronte ad una schiera di fotografi. Gli altri, dai 50 ai 70 mila partecipanti al WSF brasiliano sullo sfondo, comparse utili alla rappresentazione se si accontentano di «far numero».
Resta da vedere sino a che punto le «comparse» siano disponibili a recitare il ruolo loro assegnato. Voci critiche si sono levate all’esterno ma anche all’interno del grande «carnevale politico globale» di Porto Alegre, da Hebe de Bonafini delle Madri argentine, passando per gli anarchici brasiliani promotori di un Forum parallelo, sino ad esponenti della nostrana Rete Lilliput.
La straordinaria ricchezza dell’esperienza maturata in questi ultimi anni non può essere facilmente ridotta a massa critica per un riformismo tanto esile quanto desideroso di riconoscimento e legittimazione istituzionale.


Un caleidoscopio di esperienze

Negli stessi giorni del WSF migliaia e migliaia di persone sono scese in piazza per dimostrare contro il capitalismo e le politiche di guerra. A New York, l’albergo di lusso che ospitava il Word Economic Forum, che la pressione delle mobilitazioni degli anni scorsi ha obbligato a varcare l’oceano trasferendosi dalla Svizzera agli Stati Uniti, è stato circondato da un’imponente manifestazione. A Monaco il vertice NATO sugli armamenti è stato contestato per due giorni nonostante le frontiere sigillate, gli arresti preventivi di centinaia di persone, la criminalizzazione dei media. A Livorno gli anarchici italiani hanno manifestato contro il militarismo ed una guerra che, ben lungi dal terminare, continua a mietere vittime.
A ben vedere, volendosi per un breve momento accontentare della lieve magia dei numeri, quella odierna potrebbe essere vista come una crisi di crescita. I 50.000 di Seattle sono divenuti i 300.000 di Genova. Pur di minoranza il movimento no-global non è certo oggi un movimento minoritario ed in esso si convogliano tensioni ideali e volontà trasformatrici quali non si vedevano da un paio di decenni. Questo movimento, sebbene in parte votato al protagonismo di piazza, riesce peraltro ad esprimersi anche altrove: dai mille forum della Rete ai collettivi universitari, dai coordinamenti di difesa ambientale ai sindacati di base, dai centri sociali ai gruppi per la casa, dalle associazioni antirazziste ai gruppi femministi. È un caleidoscopio di esperienze, percorsi, appartenenze che entra in gioco scommettendo sul valore della diversità, sull’importanza del confronto, sulla possibilità di coniugare l’agire locale con la prospettiva planetaria.
Porto Alegre rappresenta oggi una secca nella quale il movimento potrebbe arenarsi o, peggio, frantumarsi, disperdendo in mille rivoli le proprie potenzialità. Un’altra china pericolosa è quella che vede i no-global come una sorta di internazionale capace di riunirsi solo intorno ai meeting dei potenti, eludendo il nodo cruciale della progettualità, della prefigurazione di altri mondi possibili, del confronto a tutto campo. Sono ostacoli sormontabili nella pratica, nell’azione diretta intesa nel suo senso precipuo: intervento, relazione politica e sociale non mediata e non mediabile su un piano istituzionale. La scommessa, ancora una volta, è quella di coniugare radicalità e radicamento, elaborando strategie di lotta diversificate e flessibili, aprendo spazi sempre più ampi alla discussione ed alla sperimentazione.

Maria Matteo